Fornicazioni e ossessioni strategiche

Fornicazioni e ossessioni strategiche

       Le alleanze forzate, in gergo chiamate real-politik, non costituiscono una novità e sono probabilmente sempre esistite anche fra i gruppi tribali. In alcuni casi tuttavia esse sono talmente spudorate e ciniche che potremmo definirle come fornicazioni strategiche. Un esempio di alcuni secoli fa è quello della disponibilità veneziana nei confronti dei sultani di Costantinopoli. Se per un periodo l’avidità mercantile fu così compensata, venne poi il momento in cui il servilismo non risparmiò nessun possedimento veneziano.

       Un’altra colossale fornicazione strategica, speculare a un’inveterata ossessione strategica, fu la secolare difesa britannica dal XVIII secolo in poi del decrepito e parassitico Impero Ottomano. Pur di contrastare la pressione russa verso i mari caldi del Bosforo e verso gli altopiani iranici fino all’Afghanistan, oltre che per proteggere la rotta verso le Indie, la Gran Bretagna si diede un gran da fare per garantire e puntellare a tutti i costi un regime politico alieno da tutti quei valori che rendevano orgoglioso un cittadino britannico. Quest’ostinato salvataggio, che peraltro non impedì lo strisciante sbriciolamento dell’Impero Ottomano - la cosiddetta “Questione d’Oriente” – trascinò nel tempo e incancrenì i nodi e i garbugli che ancora oggi danno i loro frutti avvelenati (vedi le tensioni etniche e religiose nei Balcani, il pasticcio dell’antica Grande Siria poi frazionata nelle entità artificiali di Giordania, Siria, Libano e Palestina, l’irredentismo curdo, etc.).

       In tempi più recenti, la collusione delle amministrazioni americane post-belliche con i vari potentati della Penisola Araba costituisce un ulteriore esempio, ancora più stridente e spudorato,  di fornicazione strategica. Neanche gli Inglesi, ai tempi del loro splendore imperiale, giunsero a tanto. Se l’Impero Ottomano era vigilato e ogni mossa aggressiva nei suoi confronti puntualmente combattuta, Costantinopoli non fu mai una stretta alleata e partner della Gran Bretagna come lo sono oggi per Washington l’Arabia Saudita, l’Oman e il Qatar. I consiglieri politici britannici, dislocati nei punti strategici della Penisola Araba, in Tibet o altri luoghi sperduti del gigantesco impero, vigilavano con cortesia e fermezza, ma senza che nessuno dimenticasse il proprio ruolo. Uno era di dominio, e l’altro era di docile acquiescenza. Anche nel caso della popolosa India, con la sua venerabile e millenaria civiltà ben più complessa e intricata di quella dei vari sceiccati della Penisola Araba, dopo la grande rivolta del 1857, le cose funzionarono, almeno fino ai primi decenni del XX secolo, senza particolari scossoni.     

        L’esilarante fenomeno delle suddette fornicazioni americane è tanto più insolito e irragionevole visto lo sbandieramento della loro democrazia a ogni piè sospinto. Come possono dunque i campioni della democrazia essere stretti amici e alleati di alcuni dei regimi politici più intolleranti e oscurantisti del pianeta? E se la collusione è in realtà solo di un’élite al potere, come mai l’americano medio non la ripudia a viva voce?

        Sarebbe d’altro canto ingiusto addossare solo alle amministrazioni americane questa curiosa paranoia. Per decenni, nel nome neanche tanto segreto del guadagno, i faccendieri e gli uomini di Stato europei hanno fatto affari con i principati della Penisola Araba. Il risultato sono, fra le altre megalomanie, le innumerevoli e surreali torri che si ergono sul golfo Persico, anch’esse affare colossale dei suddetti faccendieri, visto che i nativi non possiedono nè la tecnologia nè la tradizione necessarie. E qui solo gli sciocchi o le persone in malafede possono offendersi o arricciare il naso. Se i coltivatori di olive non possono improvvisarsi pescatori di perle, allo stesso modo gli ex- beduini non possono comprarsi anche secolari abilità artigianali nella trasformazione delle materie prime.

          L’eterno fascino che da tempo immemorabile avvolge i ricchi, anche quando sono degli imbecilli o degli inetti, aleggia evidentemente anche nelle sabbie del deserto, di modo che i corteggiati, e cioè, l’Arabia Saudita, hanno finito per assumere sempre più atteggiamenti arroganti e adesso bellicosi, come mostra il recente eccidio in Yemen.

         Le fornicazioni strategiche sembrano comunque costituire una delle due facce di un’identica medaglia patologica, l’altra essendo una non meno ossessiva ostilità strategica. Le relazioni USA-Russia dal 1940 a oggi mostrano l’imprevedibile intrecciarsi di entrambi gli atteggiamenti. Voce solitaria, verso la fine delle sue memorie il generale Lionel Ismay, consigliere militare di Churchill durante la seconda guerra mondiale e poi primo Segretario Generale della NATO, confessa con malcelata vergogna e cattiva coscienza il disagio nei confronti di un alleato, la Russia, i cui sistemi repressivi e la cui democrazia non erano in fondo migliori di quelli hitleriani. Fu insomma per ingenuità o per cinismo che gli USA fecero dei Sovietici degli alleati, anche se le sanguinarie e metodiche purghe staliniane non erano un mistero per nessuno. Nonostante gli incensi sperticati di Ismay per tutta la classe politica e militare americana e inglese del tempo, essi non aboliscono la macchia che incombe su costoro per avere con tanta insipienza permesso ai Sovietici di arrivare nel cuore dell’Europa e poi di occupare sfrontatamente, fra gli altri territory, anche quella Polonia a causa della quale la Gran Bretagna era entrata in Guerra.

         I tardivi ripensamenti e cambiamenti di rotta americani, assunsero (soprattutto col famigerato Senatore McCarthy) la forma di una vera e propria caccia alle streghe, ovviamente comuniste. Ciò non aveva comunque impedito all’uomo d’affari Americano Armand Hammer  (Occidental Petroleum e moltre altre attività) di continuare ad avere strettissime relazioni con i Sovietici e concludere affari d’oro con essi. Verosimilmente, egli era un intoccabile per lo stesso McCarthy.

        La disgregazione dell’Unione Sovietica e il tramonto del Comunismo come ideologia non cambiarono di un pollice  l’atteggiamento ostile da parte americana, dimostrando che, nonostante i furori ideologici, alla fine è la geopolitica quella che determina i rapporti fra gli Stati. Mentre l’aggressività e l’espansionismo ideologico-militare sovietici hanno ceduto in buona parte il passo a fervori e illusioni di tipo capitalistico, quelli americani e britannici sembrano essersi accentuati nell’ultimo decennio. Ignoranza e malafede hanno manipolato lo scenario, arrivando per esempio a misconoscere anche un unanime referendum in quella Crimea che fino al 1954 era ancora parte dell’Unione Sovietica e che comunque poteva vantare una secolare storia nazionale (il Khanato di Crimea) con protagonisti dei Tartari ma non certo degli Ucraini.

         Con la NATO praticamente a ridosso dei confini russi, ogni altra spinta a est sembra poco concepibile, salvo un conflitto diretto con la Russia. In suo luogo, stanno avvenendo spregiudicati conflitti indiretti (vedi Ucraina e soprattutto Siria, il cui governo è da anni pubblicamente appoggiato dalla Russia). Così, il sostegno (fra l’altro, poco trasparente) dato da Washington ai cosiddetti “ribelli” siriani, che osteggiano il governo di Assad, è banalmente un modo indiretto ma tenace di rivaleggiare con Mosca.  La cosa grave è che, come già più volte sottolineato dallo scrivente, l’identità de codesti ribelli è ignota e tutto suggerisce come il loro DNA sia probabilmente simile a quello dei “democratici” egiziani, che si apprestavano a reintrodurre la legge islamica nella costituzione, agli avversari del defunto Gheddafi, che hanno trasformato la Libia in un non-Stato, nonché a tutte quelle formazioni politiche arabe ispirate dal fondamentalismo più rigido. Non sarà certo una coincidenza che il regime di Bashar Assad non aveva mai manifestato fervori e zeli fondamentalisti e che fosse il Paese più occidentalizzato della regione assieme a Israele e al Libano.

       Entrambi i lati della medaglia, la fornicazione e l’ostilità strategiche, sono stati spavaldamente alimentati dalle amministrazioni americane di questi ultimi decenni, indipendentemente dallo schieramento politico. Ciò che stupisce è la relativa acquiescenza o non analoga aggressività americana nei confronti di una nazione, la Cina, le cui mire includono il controllo del Mar della Cina e che a tale scopo crea e trasforma in avamposti logistico-difensivi  addirittura delle nuove isole.

       Come noto, almeno stando alle dichiarazioni verbali, i due contendenti in lizza per la Casa Bianca hanno manifestato intenzioni del tutto opposte riguardo alle relazioni con la Russia e all’attuale interventismo militare americano. Nulla assicura che Donald Trump creerà un nuovo rapporto più smussato e aperto al dialogo con Mosca, ma già il fatto che egli sia considerato un pariah dai suoi stessi camerati di partito e che nonostante ciò si esprima in termini pacati e non aggressivi riguardo a Vladimir Putin suggerisce che, in caso di una sua vittoria, effettivamente potrebbe esserci un nuovo modo di parlare con Mosca e un maggior disimpegno americano in Europa.

        Nulla di tutto ciò traspare dalle dichiarazioni programmatiche della candidata democratica Hillary Clinton. Anzi, a sentire uno dei suoi consiglieri politici, Jeremy Bash, in una sua intervista al The Telegraph, un’amministrazione Clinton non esiterebbe a sloggiare definitivamente Assad dalla sua sedia, essendo il suo “un regime criminale che viola i diritti umani, ha violato la legge internazionale, nonché ucciso centinaia di migliaia di persone…”. Come spesso accade nella demagogia della retorica, le suddette affermazioni trascurano il fatto che appunto i più stretti alleati di Washington nella regione violano istituzionalmente i diritti umani e che l’unilaterale invasione Americana dell’Iràq senza il beneplacito dell’ONU, costituì a tutti gli effetti una violazione della legge internazionale e causò immensi disastri e perdite umane a quel Paese, disastri e perdite di cui ancora non si vede la fine. Fra l’altro, come è stato ormai ampiamente dimostrato, nonostante il pugno di ferro in casa, Saddam Husein non aveva nulla a che fare con il terrorismo fondamentalista e certo non possedeva armi di distruzione di massa. I vari dirigenti jugoslavi arrestati e condannati per crimini di guerra provocarono un numero infinitamente minore di morti e di distruzioni. Se armiamo e sobilliamo dei ribelli (quelli siriani) e quindi le bombe e le cannonate piovono da tutte le parti, il minimo che possa capitare è che la gente rimanga sotto le macerie e molti altri cerchino di fuggire, come infatti è avvenuto. Tuttavia, nessuno dei responsabili del caos iracheno e del gigantesco esodo dalla Siria è stato chiamato a giustificare il suo operato e adesso si minaccia la definitiva esautorazione di Assad

      Non ci vuole molto a capire che in gioco non sono i disgraziati che muoiono o fuggono ma il controllo di un’area geografica, certo più vicina a Mosca che non a Washington. I ventilati progetti di dimissioni forzate di Assad (sarà un altra frettolosa esecuzione?) cozzano contro uno spinoso dettaglio che dovrebbe far riflettere: difficilmente Mosca lascerà defenestrare il suo protetto senza far nulla. Del resto, che le cose non siano così controllabili nella regione lo prova anche il recente e imprevedibile minuetto di amicizia di Erdogan con Putin. In altre parole, lo scenario è di gran lunga più irto d'incognite e d'incalcolabili conseguenze di quanto non lo fosse quello iracheno, che pure si tramutò in un colossale disastro.

        Ritorniamo ora alle fornicazioni strategiche e alle loro speculari ossessioni sul nemico.

        Entrambe sono gli inevitabili vessilli che il vincitore di queste non molto decorose elezioni presidenziali americane dovrà decidere se issare o meno. Stando alle dichiarazioni dei due contendenti, il buon senso o comunque la speranza vorrebbe che a vincere non sia un’ennesima replica delle dinastie che negli ultimi decenni sembra stiano avendo molto successo negli USA anche al di fuori degli schermi televisivi.

Antonello Catani - 4 novembre 2016, in Atene

 

      

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