Elezioni britanniche: una vittoria in attesa di verifiche
- Scritto da Antonello Catani
Elezioni britanniche. Travolgente vittoria laburista. Euforia e sorrisi del neo Primo Ministro Keir Starmer. Perdita del seggio per numerosi parlamentari conservatori di spicco, da Penny Mordaunt al borioso Rees Mogg, inclusa anche l‘iper-fallimentare ex Primo Ministro Liz Truss.
Insomma, una falcidia senza precedenti che ha decimato in poche ore un partito al potere da oltre un decennio e che dovrebbe ricordare agli stessi vincitori di oggi come anche le ascese possano essere meteoriche.
Bisogna leggere al di là di questi aspetti apparentemente conclusivi ed auto-esplicativi.
Mentre la goffaggine, le maldestre piroette e l’incompetenza dei Tories negli ultimi anni erano lampanti, non si può dire che i loro oppositori, e cioè, i Laburisti, abbiano proiettato maggiori affidabilità e concrete alternative. A parte i battibecchi di maniera ai due lati del grande bancone di Westminster, nel corso degli ultimi anni i vari esponenti laburisti non hanno offerto ricette alternative originali e chiare. Alcuni, anzi, come l’attuale vice Primo Ministro Angela Rayner, si sono caso mai distinti per i loro eterni silenzi e muti assensi alle recite dell’oratore del partito, cosa che legittima la curiosità sulle reali virtù politiche della signora in questione.
In ogni caso, dal Brexit (tabù intoccabile) all’Ucraina o alla Nato (altri intoccabili tabù) fino alle ondate migratorie o alle incomprensibili apparizioni di velivoli militari britannici nel Mar nero, in nessuna di queste aree i due partiti hanno mostrato di essere realmente su due sponde opposte.
Su altri temi più domestici, come il ruolo di una monarchia sempre più petulante e narcisistica – contrariamente alle altre loro omologhe europee – o il perdurare dei privilegi fiscali di una classe di proprietari terrieri che possiedono gigantesche proprietà per milioni di ettari (inclusa la stessa famiglia reale) fino alla strisciante islamizzazione e indianizzazione della società britannica, su tutti questi temi, un silenzio totale.
Temi tuttavia cruciali per varie ragioni. Nonostante le velleità e l’oleografia, la Gran Bretagna è un Paese decaduto o comunque infinitamente lontano, anche dal punto di vista economico, dalla sua acme imperiale. Basterebbe fare solo un confronto fra il generale aspetto dei passanti nelle strade di Oslo, per esempio, e di quelli di Londra per rendersi conto della lampante disparità di benessere e di agio che traspare anche dall’abbigliamento e dall’ambiente esterno. Le barriere doganali e la perdita di competitività dovute al Brexit hanno solo acuito la crescente penuria di risorse e gli effetti di una continua asfissia demografica dovuta a decenni di massiccia e incontrollabile immigrazione. Quest’ultimo fenomeno sarà uno dei veri banchi di prova del nuovo governo, per non parlare dell’atteggiamento nei confronti dell’Ucraina e del conflitto in Israele.
Banalmente, priva degli antichi immensi vantaggi di un monopolio mercantile coloniale, la Gran Bretagna di oggi è un Paese sempre più povero ma che non ha tuttavia perduto le sue antiche velleità (vedi per esempio le sue basi a Cipro, le portaerei, le sue politiche di aiuto militare in Ucraina, etc). Nel frattempo, il boomerang del Brexit e la caotica gestione politica degli ultimi anni hanno anche indebolito e messo in dubbio l’immagine di una Londra come insuperato teatrofinanziario. Molte società hanno scelto altre destinazioni meno caotiche politicamente, mentre anche varie prestigiose università lamentano un inquietante declino delle laute iscrizioni di studenti stranieri.
Ma ritorniamo all’immigrazione e alle sue derive culturali.
Contrariamente alle rozze dicerie dei pappagalli maldicenti, quest’ultima non è un problema di razza ma di sostenibilità economica e prima ancora di integrazione culturale, perno di qualsiasi stabilità sociale. I ripetuti episodi di fanatismo, gli incitamenti anti-semiti in varie moschee e le recenti violente dimostrazioni a favore della Palestina (ma mai contro Hamas), non ostacolate dalla polizia londinese, sono un eloquente esempio di come le lealtà e le identificazioni di un gran numero di immigrati anche naturalizzati non coincidono con quelle del luogo. Non solo, ma trascinano il fervore di masse altrimenti ignare e facilmente manipolabili, meccanismo che il diluvio e sempre crescente pervasività dei mass media e degli strumenti di comunicazione elettronici stimola e rinforza. Dato che le minoranze sono sempre più diventate degli strumenti di pressione all’interno dei sistemi politici, sarebbe ingenuo o in malafede ritenere che qualsiasi governo britannico, sia esso conservatore o laburista, possa conservare una sua indipendenza di azione e non essere condizionato da una minoranza come quella islamica che oggi ammonta a 4 milioni di individui. Stessi discorsi potrebbero essere fatti per i cittadini britannici di origine e religione indù, con la fondamentale differenza che l’India non ha mai tradizionalmente esportato fondamentalismi ma al contrario ideologie pacifiste (vedi Gandhi).
A questo proposito, è certo una sorta di straordinaria nemesi storica il fatto che oggi un gran numero di funzionari e parlamentari britannici siano proprio di origine pachistana o indiana (basti pensare allo stesso sindaco di Londra, Sadik Khan).
I rigurgiti della storia possono essere implacabili.
Mentre il vero fattore essenziale non è l’origine etnica ma l’incondizionata lealtà ai valori del luogo di adozione, non potrà comunque far riflettere il fatto che nessun individuo di origine britannica o anche europea siede tuttavia nei parlamenti dell’India, del Pakistan o di qualsiasi altro paese del Medio Oriente. Osservazioni analoghe potrebbero essere fattieriguardo alla Germania, con i suoi parlamentari di origine turca, mentre la Turchia ha al contrario espulso qualsiasi minoranza non islamica e non etnicamente pura (gli stessi Curdi sono sopportati e visti con sospetto). La singolarità non è quindi che una parlamentare di origine indiana come Priti Patel sia stata Ministro degli interni, carica del resto ricoperta con efficienza a differenza di quella dell’altro parlamentare di origine indiana, Rishi Sunak, oggi clamorosamente sconfitto. La singolarità è che fenomeni analoghi e reciproci non accadono e non sono immaginabili nei Paesi di origine di simili individui.
In altre parole, il partito laburista eredita nodi e problematiche non solo politici ma anche economici e strutturali che gli slogans della “democrazia”, di un rinnovato “impegno sociale” e dei “diritti umani“ e del “public service” non bastano ad eliminare o a risolvere come per magia. Fino a che punto, infatti, la colossale perdita di seggi dei Tories e del Partito Nazionale Scozzese è stata dovuta alle attrazioni di comprovate ricette laburiste o semplicemente alla frustrazione per la caotica gestione dei Conservatori?
Solo i fatti mostreranno fino a che punto i Laburisti abbiano realmente un nuovo progetto che affronti spinosi problemi di fondo come quelli prima menzionati.
E’ solo questione di tempo.
Antonello Catani, 8 luglio 2024