L'imbroglio greco: un caso da manuale

L'imbroglio greco: un caso da manuale

       Negli ultimi anni la Grecia ha suscitato ossessive e convulse attenzioni, alimentate da timori per una sua eventuale uscita dall’Eurozona (il noto Grexit) e  per le catastrofiche ripercussioni che una sua bancarotta potrebbe avere sulla stabilità di quest’ultima. Impossibile qui dimenticare il ruolo ambiguo e destabilizzante delle varie società di rating (americane, e non europee), che hanno di volta in volta gettato i loro gridi di allarme. In realtà, se l’uscita di un piccolo paese fosse di per sé così catastrofica, l’Unione Europea sarebbe ben fragile e di fatto non giustificherebbe il sussiego dei suoi rappresentanti. In realtà, un debitore che non paga e il timore di imitazioni a catena sono il vero spettro che ha reso e continua a rendere ansiosa Bruxelles. A tale spettro si sono ora aggiunti disagi di tipo politico, visto che la recente vittoria per la prima volta nella storia greca di un partito della sinistra radicale rischia di creare contagi anche in altri paesi europei come Spagna e Portogallo.

        Il programma dichiarato dal vincente partito Syriza, salvo futuri compromessi, prevede non solo l’abbandono dell’austerità imposta dai creditori, come condizione per continuare ad usufruire degli aiuti, ma anche una vera e propria cancellazione di tutto o parte del debito. Nelle dichiarazioni programmatiche del signor Tsipras, il giovane nuovo primo ministro greco, tale abbandono corrisponderà, fra le altre cose, ad aumentare i salari minimi e le pensioni e a diminuire l’attuale disastroso tasso di disoccupazione (25%).

        Come noto, il risultato delle elezioni greche ha fatto il giro del mondo e le borse hanno reagito e continuano a reagire negativamente. Ma perché, visto che tutto sommato il paese ha una mediocre importanza strategica e che il suo debito pubblico, per quanto grande, non è pari neanche alla metà del budget annuale americano per la difesa? E come è arrivata la Grecia ad avere un debito pubblico di circa 320 miliardi di euro, pari al 175% del suo PIL, indebitandosi con i vari creditori per 240 miliardi, che sono l’ammontare del bail out (prestito di salvataggio)? L’ottimistico programma del signor Tsipras è solo frutto del suo entusiasmo o il caso greco fa parte di uno scenario più vasto e i Greci non sono gli unici attori e responsabili di questo thriller socio-economico?

         Un tentativo di risposta a tali domande presuppone alcune premesse più generali, senza le quali è impossibile capire il senso degli avvenimenti attuali. E’ sorprendente che nel frasario sia dei perdenti che dei vincitori delle recenti elezioni non siano mai emersi concetti concreti, tipo “ora di rimboccarsi le maniche”, e tutti si siano aggrappati a slogans piuttosto vaghi, quali democrazia, progresso, giustizia, speranza, dignità, crescita, etc. Oltre queste belle parole, sembra che nessuno si renda conto che gli attuali 300 e rotti miliardi di debito pubblico della Grecia, l’ostinata crisi economica e lo stile di vita del paese hanno radici che vengono da lontano e non sono solo economiche. Senza una sommaria rassegna soprattutto di queste ultime, ogni giudizio sulla attuale crisi greca è condannato ad essere superficiale.

       Tutti sanno che i Greci moderni si considerano gli eredi della civiltà greca classica. Per quanto assai disputabile, tale auto-percezione, unita alla secolare ubriacatura classicista propagatasi dal Rinascimento in poi e alimentata nel XIX secolo dai Romantici, ha cementato nella mentalità greca delle inestirpabili velleità, ovvero, un alone di allori e culle, che nella migliore delle ipotesi risalgono ad almeno quindici secoli fa, dopo i quali la Grecia ha cessato di produrre alcunché di significativo e che abbia arricchito la civiltà europea. Le stesse edizioni critiche dei classici greci sono state stampate a Parigi, Lipsia e Oxford, ma non ad Atene. Dopo la chiusura dell’accademia platonica per ordine di Giustiniano nel 529, di Grecia si sente parlare sempre più raramente, salvo che per scorrerie di avventurieri come i Catalani o l’insediamento di varie signorie italiane nel Dodecaneso prima della caduta di Costantinopoli. In realtà, nonostante le pretese di continuità con l’Impero bizantino, essa fu una delle tante province di quest’ultimo, e neanche la più importante, il vero centro di gravità essendo l’Anatolia e parte dell’Armenia, tanto è vero che, perse queste agli Ottomani, l’Impero si disintegrerà. Difficilmente un Greco moderno accetta questa banale verità, prigioniero com’è di un mito che lo sorregge e lo aiuta a compensare quello che a tutti gli effetti è uno smisurato vuoto culturale.

        Il suddetto giudizio non ha scopi denigratori, ma cerca solo di proiettare in uno scenario più aderente alla realtà certe radicate manifestazioni e attitudini dell’odierna società greca.

        Paradossalmente, dopo la conquista ottomana, i Greci più in vista vivranno per secoli a Costantinopoli, come dragomanni (interpreti) e funzionari al servizio della Grande Porta (il ministero degli esteri ottomano). Più avanti, banchieri, industriali e commercianti greci favolosamente ricchi vivranno anche a Vienna, in Egitto e in Russia.  La diaspora greca continua del resto ad avere presenze assai folte anche oggi, dagli Stati Uniti (3 milioni) all’Australia e dal Sud Africa alla Germania. Uno dei suoi indiretti riflessi sociali è che il numero di Greci anglofoni è molto alto, rendendo paradossalmente un paese così balcanico e mediterraneo più cosmopolita di altri paesi come l’Italia o la Francia. La vocazione cosmopolita, anche se per certi versi forzata a causa delle mediocri strutture universitarie locali, si manifesta del resto anche nella consolidata pratica di un numero di studenti superiore a quello di altri paesi come l’Italia di effettuare studi universitari e post-universitari all’estero.

       Per generazioni, l’oblio e il declino di regioni che erano greche di lingua e religione fu attribuito al dominio turco (la famigerata ed esecrata “Turcocrazia”). Nel frattempo, già prima del X secolo, progressive infiltrazioni slave modificarono a tal punto l’originario ceppo ellenico, in particolare nel Peloponneso, (la Morea dei Veneziani), da far dire a Fallmerayer intorno al 1830 che l’antico sangue ellenico era ormai scomparso. Anche qui, nessun Greco moderno accetterà la teoria, ma basta confrontare le fattezze degli abitanti della Tessaglia o della Macedonia o delle isole per rendersi conto che la fisionomia è profondamente diversa. Attendibile o meno che sia la teoria di Fallmerayer, quello che conta è che oggi gli immigrati albanesi presenti in Grecia ammontano a circa mezzo milione e hanno una parte attiva nel mercato del lavoro greco.

       Se poi, per trovare compensi più antichi alla grecità e omogeneità della popolazione, ci rifacessimo ai celebrati affreschi di Knossos a Creta, nuovamente dovremmo dire che esiste un abisso non solo fra le loro fisionomie e quelle dei Greci moderni ma anche con quelle della statuaria e ceramica greca classiche. Gli antichi Cretesi, vanto abilmente pubblicizzato e sfruttato dalle agenzie turistiche, erano Greci o invece appartenevano alla misteriosa civiltà pelasgica, precedente l’arrivo dei conquistatori ellenici dal nord? Accontentiamoci di porre la domanda, il nostro scopo qui essendo solo quello di sottolineare la pervicacia greca nel proiettare un albero genealogico al di là di ogni sospetto e parallelo alla nozione di “miracolo greco”, etichetta utilizzata da generazioni di storici, ai quali sembra sia sfuggito il fatto che l’Oriente era a due passi e che basta scavare un po' per ritrovarne le tracce in un nugolo di elementi della civiltà greca. Lo stesso vale per le conclamate pretese di “culla della democrazia”, pretese che lasciano il tempo che trovano, se si pensa che nell’Atene del V secolo solo un decimo della popolazione aveva il diritto di voto, che la condizione della donna non era molto diversa da quella dell’odierna donna saudita e che Atene finanziava la sua potente flotta tramite lo spietato sfruttamento schiavistico delle ricche miniere di argento di Lavrio.

        L’occultamento di tale elementi e il loro trionfalistico abbellimento costituiscono un elemento essenziale della moderna mentalità greca, e se li citiamo in questa sede apparentemente incongrua, è perché le velleità nutrite da tale abbellimento non sono affatto estranee all’attuale crisi socio-economica del paese. In particolare dalla fine della guerra in poi i vari governi alternatisi al potere hanno stimolato con ossessiva insistenza il nazionalismo e l’orgoglio greco, facendone una strisciante compensazione onni-comprensiva ai problemi della nazione.

       Nei primi decenni del XIX secolo (1821), grazie alla crescente debolezza ottomana e alle simpatie filo-elleniche europee, nascerà per la prima volta un embrione di nazione greca, sia pure territorialmente ridotta. Ingranditosi il paese durante le guerre balcaniche, la fatale spedizione nel cuore dell’Anatolia, alimentata dal mito della Megale Idea (la ricostituzione dell’Impero bizantino), farà perdere i vantaggi acquisiti e provocherà l’immane esodo da Smirne, ancora denominato Megale katastrofe (la grande catastrofe). Quasi mezzo milione di persone furono letteralmente scaraventate in mare, mentre molte altre decine di migliaia furono semplicemente trucidate e la città bruciata dai Turchi. Trapiantati in Grecia in vari centri di profughi, i superstiti portarono con sé un’amarezza e una diffidenza verso i Turchi che non si sono ancora spenti e che, come vedremo, continuano ad avere un peso cruciale proprio nelle finanze greche.

        Durante la seconda guerra mondiale un’altra dissennata idea, questa volta di Mussolini, provocò l’invasione senza capo né coda del paese e una terribile carestia che causò la morte per inedia d’intere folle cittadine. Documenti fotografici dell’epoca mostrano i morti abbandonati a migliaia per le strade. Alla fine della guerra, i Greci furono poi dilaniati da una feroce guerra fratricida, che può a buon diritto chiamarsi “guerra civile” - nazionalisti verso comunisti  - con ben maggiore ragione della conclamata ma inesistente guerra civile in Italia. Grazie al sostegno anglo-americano, i comunisti vennero sopraffatti e il paese si avviò verso una lenta ricostruzione. I films degli anni ‘50 sono una testimonianza insostituibile del clima sociale e psicologico di quel periodo. Ancora una buona parte della popolazione viveva in campagna e Atene non era ancora diventata la caotica e disordinata megalopoli medio-orientale che è oggi.

       I terribili anni della carestia bellica dovettero però lasciare una traccia indelebile nella società greca, perché da allora le occasioni gastronomiche che si rispettano hanno sempre avuto, e continuano ad avere, nonostante l’attuale austerità, un carattere sostanzialmente pantagruelico e oltre i limiti dell’esagerazione quantitativa. Una sorta di rituale compensatorio radicato nella mentaltà collettiva. Ma il riverbero di quegli eventi non fu ovviamente solo di tipo gastronomico.  

        I primi decenni del dopo guerra assistettero a un forte sviluppo economico - paradossalmente, proprio durante la famigerata dittatura dei Colonelli (1967-1974) - caratterizzato da investimenti nel settore turistico e nei servizi e con un basso tasso d’inflazione e di disoccupazione. Le statistiche mostrano infatti solidi e affidabili surplus finanziari nel periodo 1960–73.      

       Eletto subito dopo Karamanlis primo ministro, come spesso avviene con i cosiddetti “salvatori della patria”, iniziò o fu portato agli estremi un disastro: lo sfacelo urbanistico ed architettonico del centro di Atene e anche del Pireo. Un numero incalcolabile di leggiadri edifici neoclassici fu abbattuto per far posto a un indescrivibile disordine di sciatti e improvvisati cubi di tutte le dimensioni, che danno oggi alla città un’inconfondibile aria medio-orientale e di degrado, a cui fanno da contrasto i sontuosi e faraonici ghetti residenziali dei quartieri a nord della città.   

      Ovviamente, la liberalizzazione edilizia e le parallele attività che essa generava contribuivano a stimolare l’offerta di lavoro, attraendo centinaia di migliaia di persone dalle campagne. Un esodo massiccio era del resto già avvenuto durante la guerra civile, quando molti si rifugiarono nelle città, meno esposte alle incursioni comuniste. Se il fenomeno non è unico in Europa o in altri Paesi, l’inurbamento selvaggio e rapidissimo di Atene di quei decenni ha pochi rivali al mondo, salvo Città del Messico e altre capitali cresciute a dismisura e diventate sotto molti aspetti ingovernabili.  Il fatto che quasi il 50% della popolazione greca viva nella Grande Atene ha tutta una serie di conseguenze non sottostimabili. Il tumultuoso e inarrestabile afflusso di persone è stato il fattore fondamentale del vertiginoso aumento dei prezzi nel settore immobiliare, rendendo Atene una delle città più care del mondo in rapporto al reddito medio pro capite.

       Ci siamo avvicinati a grandi passi ai nostri anni. Semplificando, si può dire che dal dopoguerra fin quasi ad oggi la vita politica greca è stata in buona parte caratterizzata dall’alternanza al potere di due dinastie famigliari, quelle dei Karamalis e dei Papandreou, e dai partiti che essi rappresentavano: uno di centro e l’altro di tipo socialista-populista, e cioè, rispettivamente, Nea Dimokratia e il Pasok. Molti degli eventi di questo periodo hanno quindi la loro origine nel protratto regime di gestioni familiar-clientelari.

       Nel 1981 salì al governo il Pasok, il partito socialista fondato da A. Papandreu, già professore di economia in varie università americane dal 1946 fino al 1958. Curiosamente, anche il neo ministro delle finanze (Varoufakis) del nuovo governo ha insegnato economia in America, oltre che Australia e Gran Bretagna. Tipico dell’atteggiamento populista ma anche del disinvolto opportunismo di Papandreu fu che, nonostante le promesse elettorali di uscita dalla Nato e dalla Comunità Europea, vinte le elezioni, egli si guardò bene dal farlo. Per quasi 15 anni la Grecia sarebbe quindi stata governata da un partito non molto diverso come orientamenti ideologici dal vincitore delle attuali elezioni. Sarebbe impossibile in poche righe riassumere quegli anni, salvo menzionare alcuni elementi salienti.

        Lo strapotere dei sindacati ebbe un effetto deleterio sul già gracile tessuto industriale del paese. Non occorre una particolare familiarità con la Grecia per osservare come tendenzialmente i Greci siano per temperamento dei commercianti e, con maggiori difficoltà e remore, degli artigiani e operai convinti di esserlo e adattabili a certi standard di precisione, ordine e metodo. In quel periodo, unità produttive come Mitsubishi, Magirus, Pirelli e altre furono costrette a chiudere. Nel frattempo, l’ingresso nella Comunità e le sovvenzioni agricole fatalmente disabituarono un’intera classe di agricoltori a dedicare tempo ed energie all’agricoltura, cosa che del resto avvenne anche in altri Paesi del sud-Europa. Il risultato di queste politiche comunitarie fu che oggi la Grecia è dipendente dall’estero anche dal punto di vista alimentare. I Greci, che fino al dopoguerra e oltre erano una nazione essenzialmente agricolo-marinara, riescono oggi a importare anche il formaggio nazionale  feta dalla Danimarca, mangiano carni francesi e olandesi, kiwi neozelandesi, uva cilene, arance spagnole e fichi turchi, giusto per fare solo alcuni esempi.

       Se la Grecia non è autosufficiente dal punto di vista alimentare, ancora meno lo è per quanto riguarda i beni strumentali. Dai mobili di qualità, alle macchine, all’utensileria e all’abbigliamento, quasi tutto proviene dall’estero – ironicamente, i beni più ricercati sono quelli tedeschi - con intuibili effetti sul livello finale dei prezzi, appesantiti dai costi di trasporto, dalle vertiginose spese fisse (soprattutto affitti) dei distributori e dai loro esorbitanti ricarichi. La scarsa o inesistente base produttiva e i suoi livelli qualitativi sono uno dei nodi cruciali dell’economia greca. Tutto ciò non è adeguatamente compensato da un settore turistico sempre più minacciato dall’aggressiva competitività di altri Paesi mediterranei quali Spagna e Turchia, a cui si è di recente aggiunta anche la Croazia.

       Nel periodo che stiamo esaminando di governo Pasok, la politica di benefici sociali, che alimentava e garantiva il serbatoio di voti, appesantendo sempre più il settore pubblico, fu finanziata tramite un avventuroso ricorso all’indebitamento con l’estero. Mentre, come abbiamo già visto, fra il 1960 e il 1973 l’economia aveva viaggiato con solidi surplus finanziari, le cose peggiorarono nel periodo 1974–80, anche se il livello del deficit annuale ancora non superava il 3% del PIL. Dopo di che, dal 1981 in poi, i disavanzi annuali annuali superarono abbondantemente il 3% e continuò a crescere il livello del debito pubblico.

        Di fatto, sia il Pasok che Nea Dimokratia e le altre recenti coalizioni di governo fino praticamente ad almeno il 2009 utilizzarono i deficit per finanziare enormi spese militari, un’elefantiaca occupazione nel settore pubblico, un regime di pensioni spesso ultra generoso ed elargite a defunti e tutta una serie di altre operazioni, fra cui le costosissime Olimpiadi e il nuovo aeroporto (costruito dal consorzio Hochtieff, anche questo tedesco). Nonostante i vincoli in tema di rapporti fra deficit di bilancio e PIL (max 3%) e fra deficit pubblico e PIL (max 60%), concordati a Maastricht nel 1992 e ribaditi nel 1997, i tetti massimi previsti furono regolarmente superati e aggirati con l’aiuto di spregiudicati consulenti. Solo nel gennaio del 2010 Eurostat annunciò che i bilanci greci erano inaffidabili e sembravano essere stati falsificati. Il mese successivo, Der Spiegel e il New York Times rivelarono, senza essere smentiti, che per anni Goldman Sachs, dietro laute parcelle per centinaia di milioni do dollari, aveva aiutato la Grecia a nascondere la vera entità dei suoi debiti utilizzando dei sofisticati metodi. Sempre secondo Der Spiegel, la pratica era diffusa a livello europeo, in modo tale che dei prestiti governativi erano spesso mascherati come swaps (scambi obbligazionari), non registrati come debiti e che quindi aggiravano i criteri di controllo finanziario dell’Unione Europea.

       Il risultato sociale delle suddette disinvolte manovre finanziarie e delle costanti iniezioni monetarie nel tessuto economico del Paese fu che per anni una buona parte della società greca visse un clima che non si saprebbe definire se non come di frenesia e orgia consumistico-speculative. Con vendite di veicoli annuali passate da 50.000 fino al 1990 a quasi 300.000 nel decennio successivo, una folla di Greci assaporò per la prima volta il piacere di essere padrone della strada. Le aree immobiliari schizzarono alle stelle, i grandi marchi moltiplicarono i loro punti di vendita e la crescente domanda di beni e servizi stimolò a sua volta la crescita dei prezzi. Tale fu il clima di frenesia speculativa che molti s’indebitarono per giocare in borsa, scommettendo sui lauti profitti promessi da una bolla azionaria il cui indice era arrivato a toccare le 6.355 unità alla fine del 1999. Gli anni successivi registrarono un lento ma inesorabile declino fino all’odierna depressione delle 721 unità. Questo dato da solo illustra le dimensioni del crollo dell’economia greca.

       A quegli anni di opulenza consumistica non corrispose nessuno sviluppo nel settore manifatturiero o industriale, e il boom nel settore edilizio si trasformò anch’esso in una bolla speculativa, Di fatto, i Greci avevano scoperto il magico strumento del credito e lo utilizzarono oltre i limiti del buon senso. Stavano consumando, ma senza avere il denaro sufficiente, e quindi s’indebitavano, replicando i comportamenti del loro governo. Sarebbe errato dimenticare come le giovani generazioni di quegli anni, che sono gli elettori di oggi, hanno respirato e sono cresciute in un clima di opulenza rubata all’avventura. Una parte di costoro ha continuato a usufruirne in modi spesso disinvolti, un’altra si è incamminata verso il sentiero della protesta.

      Fu in particolare in quel periodo che le professioni considerate più umili e poco ambite furono sempre più esercitate da stranieri. Muratori, addetti alle pulizie, colf, piccoli artigiani e manovalanza spicciola di vario genere divennero appalto di albanesi e russi o d’immigrati di altre nazionalità. Quando quindi si parla di tasso di disoccupazione, non bisogna mai dimenticare che in Grecia, come anche in Italia, esiste una fetta considerevole di lavoro che il cittadino nazionale sembra poco inclinato ad esercitare.  

       Più in alto abbiamo menzionato, fra i rivoli della spesa, le enormi spese militari sostenute indistintamente da tutti i governi greci degli ultimi 40 anni. Questa voce, curiosamente trascurata nella recente campagna elettorale e mai messa in discussione neanche dai radicali di Syriza, merita attenzione per vari motivi.

       Pur tenendo presenti i mai sopiti sospetti nei confronti della vicina Turchia, non può non sorprendere che la Grecia sia, dopo gli USA, la nazione che spende di più in armamenti in seno alla Nato in termini di percentuale sul PIL. Significativo il fatto che i maggiori beneficiari di tale spese siano gli Usa, la Germania e la Francia. Per anni la Grecia ha speso il 7% del suo PIL per acquistare armamenti  e, nonostante la crisi, il budget militare greco continua ad essere più alto della media del 2.2% degli altri paesi dell’Eurozona. Così, si arriva al paradossale risultato che un paese economicamente fragile e di dimensioni ridotte possiede qualcosa come 1.300 carri armati, ovvero il doppio della Gran Bretagna. Certo, quest’ultima è un’isola, mentre la Grecia è una penisola, ma poiché il carro armato è un mezzo più offensivo che difensivo, verso quali paesi balcanici dovrebbero essere rivolti tutti quei carri armati? Emerge qui l’eterno spettro turco, abilmente evocato e strumentalizzato politicamente da almeno 60 anni a questa parte e sfruttato dalle nazioni produttrici di armamenti.

       In particolare fra il 1990 e il 2012, centinaia di carri armati, pezzi di artiglieria, Mirage e F-16 furono acquistati da Germania, Francia e Stati Uniti  Secondo un rapporto ufficiale tedesco del 2010 sulle esportazioni di armi, la Grecia era la maggiore acquirente dopo il Portogallo. Nel periodo 2002-2011, tutti anni economicamente dolenti, il 25% degli armamenti greci fu acquistato in Germania. 

       E’ stato calcolato che dal 1974 fino ad oggi le spese militari greche “ufficiali” (e quindi con molta probabilità inferiori a quelle effettive) sono ammontate a non meno di 240 miliardi di Euro, cifra non molto lontana dai 320 miliardi dell’attuale debito del paese, visto che a quei 240 miliardi bisognerebbe poi aggiungere i mancati proventi finanziari. Se poi si osservano i dati del personale militare, il confronto con altri paesi è illuminante. La Grecia, con una popolazione di 11 milioni di abitanti,  mantiene un personale militare di circa 130.000 uomini  (di cui 90. 000 effettivi). L’esercito francese conta 215.000 uomini, su una popolazione di 66 milioni di individui, e gli stati Uniti, con una popolazione di 320 milioni di persone, possiedono un esercito di circa 550.000 uomini, a cui va aggiunto un quantitativo analogo per la riserva e la guardia nazionale.  La sproporzione del personale militare greco si commenta quindi da sé e risulta ancora più incongrua, tenendo conto che la sua partecipazione ad operazioni militari all’estero è stata assai scarsa o inesistente.

       L’incongruità delle spese militari greche è stata qui volutamente sottolineata perché costituisce uno dei fattori fondamentali ma anche più ambigui dello scenario che abbiamo succintamente abbozzato. Nessuno dei protagonisti politici o la gran massa degli elettori sembrano preoccuparsene più di tanto, e comunque l’argomento non è salito alla ribalta del dibattito elettorale. E’ forse perché, differenze ideologiche e recessione a parte, l’orgoglio nazionale e la memoria collettiva anti-turca, debitamente alimentata da presunte violazioni dello spazio aereo, rendono il tema tabù?

        In realtà, l’identità dei fornitori di tali armamenti suggerisce una sorta di cinico vassallaggio di tipo quasi feudale, reso ironico dal fatto che proprio uno di essi, la Germania, è anche il più intransigente interlocutore riguardo al programma di salvataggio finanziario. Non c’è quasi bisogno di notare come una parte del denaro erogato ai Greci sotto l’ombrello del prestito è servito a ripagare proprio le tranches di forniture militari fatte da Paesi come la Germania.

       Il ruolo bifronte di quest’ultima in particolare (l’aggettivo è un eufemismo) non si limita del resto solo a questo aspetto. Delle varie operazioni di corruzione pubblica in Grecia fin qui scoperte, alcune significative sono di segno germanico. Sono note le vicende Siemens, accusata di aver elargito mazzette per assicurarsi le istallazioni per le Olimpiadi), quelle Ferrostaal (accusata di aver distribuito commissioni per la  vendita di 4 sottomarini) o di altre operazioni simili  per l’acquisto di materiale militare. Quanto la pratica fosse diffusa e radicata è emerso dagli interrogatori di un ex-funzionario del Ministero della difesa greco, fra l’altro non di grado elevato, il quale ha confessato di aver ammassato egli solo in 5 anni la rispettabile somma di 19 milioni di Euro con questo tipo di attività.  (Vedi il relativo articolo del New York Times del 7.2.2014)

       Gli elementi sopra sommariamente descritti costituiscono lo scenario entro cui si situano le attuali elezioni e con cui si misurano le dichiarazioni programmatiche del nuovo governo.

       Essenziale a questo punto sottolineare una cosa: il partito al governo ha vinto le elezioni con un 36% di voti. Aveva poco più del 16% in quelle del 2012 e meno del 4% in quelle del 2004. La forte erosione di Nea Dimokratia (il partito di centro) e dei socialisti del Pasok, passati rispettivamente dal 45% e dal 40% del 2004 al 27,8% e 4,7% in quelle attuali, mostra come le due tendenze opposte siano irrimediabilmente coinvolte. Poiché il KKE (il partito comunista Greco) è rimasto attestato al 5,5%, rispetto al 5,9% del 2004, è evidente che Syriza è cresciuto grazie a un massiccio esodo di elettori dal Pasok e, in parte, da Nea Dimokratia. In altre parole, il serbatoio elettorale di Syriza, non a caso cresciuto proprio durante questi ultimi anni di spietata stretta di cinghia imposta dai creditori europei, è in buona parte composto da infedeli scontenti. Ma infedeli scontenti significa anche teoricamente volatili.   

         Certamente, tale scontentezza ha dei buoni motivi. Come ha recentemente affermato Sony Kapoor, analista finanziario e fondatore di Re-Define, il pacchetto di salvataggio greco era “finanziariamente insostenibile, economicamente errato, politicamente sordo e socialmente insensibile”.

        Le ricette della Troika avevano infatti un clamoroso tallone d’Achille e il difetto di soffrire di miopia economica, oltre che di un minimo di conoscenze storiche. Il tallone d’Achille era costituito dal fatto che la riduzione indiscriminata del settore pubblico - licenziamenti, riduzioni salari e pensioni - non può non avere come conseguenza una contrazione dei consumi e quindi del gettito fiscale, che è proprio quello che serve a finanziare la prima. Nel caso Grecia, contrarre ed eliminare la spesa per gli armamenti avrebbe avuto una logica, così come, entro certe misure, aveva una sua ragion d’essere la riduzione del gigantesco apparato pubblico, improduttivo. Ma la riduzione indiscriminata delle pensioni, gli stipendi minimi ridicolmente bassi e l’aumento generalizzato della tassazione fiscale si sono rivelati inefficaci e sbagliati. In una paese come la Grecia, afflitto da carenze strutturali produttive, dove l’evasione fiscale conosce percentuali indefinibili, ma che per certi settori corrispondono probabilmente al 100%, le suddette misure non centravano il cuore del problema e anzi, riducendo i consumi e frenando l’attività economica di vari settori – intuibile l’effetto negativo delle migliaia di esercizi commerciali con le saracinesche abbassate -  contribuivano a ridurre il gettito fiscale. Tutto ciò, in un paese che aveva attraversato un periodo di diffuso bengodi consumistico, ancorché costruito col credito. Ma è chiaro che i consumi permessi da pensioni di 500 Euro mensili sono risibili.

       In realtà, un altro dei problemi strutturali della Grecia non è quello di aumentare le tasse ma di far sì che vengano pagate. Dopo la scarsa  base produttiva, l’evasione fiscale è il secondo fattore negativo dell’economia. Artigiani e professionisti di tutti i tipi ne sono i maggiori anche se non unici responsabili. Il grossolano errore della ricetta della troika è stato quello di penalizzare i redditi fissi, come se la riduzione di salari medio bassi potesse compensare la gigantesca e annosa evasione del settore professionale e commerciale. Di fatto, il grande assente della ricetta era la rivitalizzazione proprio dei lavori pubblici e del settore manifatturiero.

       Un altro fattore completamente ignorato dai solerti funzionari della Troika è di tipo psicologico, ma non per questo meno influente. Nella loro storia recente, dal 1821 in poi, si sa che i Greci hanno avuto intermittenti periodi di monarchia. Disgraziatamente per i vari monarchi, ultimo dei quali è Costantino Glüksburg, in esilio a Londra e stretto parente della casa reale inglese, uno degli sports nazionali dei Greci sembra sia sempre stato quello di chiamare e poi scacciare di volta in volta i loro sovrani a seconda delle congiunture storiche. Certe tendenze populiste e di anarchica insofferenza hanno insomma preceduto l’avvento dei moderni partiti social-populisti di oggi. Piccolo particolare contradditorio: nonostante questa acerrima avversione per il regime monarchico, che fa addirittura evitare di utilizzare la parola “re” quando si parla di Costantino, semplicemente denominato o thèos ovvero, “l’ex-“, inspiegabilmente, come abbiamo ricordato in precedenza, da lungo tempo i Greci si sono fatti governare da due dinastie familiari, la più famosa delle quali è quella dei Papandreou (nonno, padre e nipote).

        Le intromissioni della Troika, dunque, i loro dictatum, già solo per il fatto di essere percepite come un’imposizione dall’alto hanno avuto il difetto di offendere l’orgoglio greco così particolarmente suscettibile. Se la UE e il Fondo Monetario desideravano minimizzare le prevedibili reazioni alle ricette economiche da far ingurgitare, aver trascurato questi elementi è stato un errore madornale e come servire su un piatto d’oro inestimabili occasioni alle tanto temute sinistre radicali. I frequenti riferimenti del neo primo ministro al recupero della “dignità” del Paese ne sono una conferma.

        I partiti perdenti hanno insomma pagato il fio di non essersi opposti non tanto alle misure correttive quanto al mix e ai meccanismi della ricetta. E’ quello che ora dichiara di voler fare il nuovo governo, il quale ha, per esempio, già preannunziato la riassunzione di personale a suo tempo licenziato. Certo, il nuovo ministro delle finanze Varoufakis ha dichiarato che l’abbandono della litòtita (l’austerità) non equivarrà a un ritorno agli sprechi e alle baldorie degli anni passati, ricordando anzi a questo proposito le buone abitudini di parsimonia e semplicità della società greca dei primi decenni del dopoguerra. Le affermazioni gli fanno onore, ma l’acqua non passa invano sotto i ponti. La parsimonia evocata dal ministro delle finanze appartiene a una generazione passata. I Greci di oggi, lusingati come tanti altri dai beni (che sempre si moltiplicano) della civiltà perfezionata, non hanno dimenticato gli anni d’oro della bolla speculativa e dei consumi facili. Del resto, esiste una fetta, inquantificabile ma non esigua, che continua a spendere, anche se in sordina e senza sfoggiare come prima, perpetuando il mistero di questo paese impoverito e sull’orlo della bancarotta ma con un numero inquantificabile di cittadini che poveri non sono.

        Se qualcuno infatti pensasse che, a causa della crisi, Atene soffra delle stesse visibili penurie, delle code ai supermercati – come per esempio sta avvenendo in un paese pur ricco come il Venezuela – si ricrederebbe. Certo, il mercato immobiliare ha subito una stasi, ma non un crollo verticale tipo quelli verificatisi in America o in Spagna. Molti esercizi commerciali hanno chiuso  battenti, ma una parte era frutto della bolla speculativa, ovvero, erano già falliti appena nati. Le Cayenne ancora circolano, il traffico automobilistico continua ad essere intenso e si moltiplicano i bar, dove i Greci – non solo quelli in pensione - amano sedersi per ore a chiacchierare e a centellinare il caffè.

        In altre parole, così come sembra avvenire in molti altri paesi, la forbice della disparità e della litòtita (austerità) ha colpito le fasce sociali più esposte e molto meno quelle più abbienti.

        Siamo dunque arrivati al cuore di questa vicenda ed entriamo in uno scenario che supera l’economia spicciola. Esso non è per niente chiaro ed è per molti motivi affollato di ambiguità e nodi. L’Unione Europea si è retta per anni sul consenso relativo a certi criteri di spesa e d’indebitamento. Detto en passant e cosa alquanto ironica, se fossero stati membri dell’UE, gli Stati Uniti sarebbero stati espulsi a causa della loro perfomance finanziaria, che va ben oltre i più disastrosi limiti previsti da Maastricht. E’ infatti notorio come il debito pubblico americano superi di gran lunga il limite comunitario del 60% e che il disavanzo di budget sia circa il triplo di quello anch’esso previsto da Maastricht. Fortunatamente per loro, gli USA non sono in Europa…

         In realtà, deficit a parte, gli Stati Uniti possiedono enormi capacità e risorse produttive e un immenso mercato interno tali da controbilanciare il peso di quel deficit. Nel caso del sud-Europa o comunque dei piccolo paesi dell’Unione, molti dei quali sono stati fatti entrare a frotte indipendentemente dalla loro struttura economica, i criteri di Maastricht sono poco realistici e occultano una situazione di disinvolto cinismo. Ma perché? In una sua recente dichiarazione, che non fa del resto che perpetuare una diffusa cantilena, il presidente di Goldman Sachs, Gary Cohn, ha affermato che spendere e consumare sono la ricetta indispensabile per uscire dalla crisi dell’Eurozona. Egli sembra dimenticare che è impossibile consumare quando non si ha, salvo comprare a credito e indebitarsi, cosa che sono costretti a fare i paesi più poveri dell’Unione e che i Greci hanno abbondantemente fatto negli ultimi decenni, pur non avendo…Di fatto, la Comunità Europea è costituita da paesi industrializzati e da paesi che acquistano i prodotti di questi ultimi, ma la cui base produttiva è fragile o assai limitata. Esiste dunque un problema di fondo, che è la coazione al consumo, che tiene in piedi le economie dei paesi industrializzati, e l’impossibilità di spendere senza indebitarsi dei paesi invece economicamente gracili e privi di risorse o dalle gestioni dissennate, come è nel nostro caso la Grecia. Ma è pensabile e realistico che ormai anche i non abbienti o i paesi poveri rinuncino facilmente ai beni della civiltà perfezionata e a non indebitarsi?

       Ritorniamo dunque alla vittoria di Syriza e all’attuale scenario in tema di continuazione del programma di salvataggio e del ripagamento del debito Greco. Il governo disconosce e rifiuta ogni ulteriore applicazione della vecchia ricetta e sostiene di possedere un programma alternativo, che però nessuno conosce, col quale poter riportare gradualmente il paese verso un risanamento finanziario. La cosa strana è che necessita alcune settimane di tempo per presentarlo ai creditori, mentre in teoria il partito avrebbe dovuto presentarsi alle elezioni con un pacchetto di proposte già pronto. L’altro elemento inquietante, oltre una certa incongrua baldanza di atteggiamenti da parte dei responsabili di spicco, è che essi danno ad intendere che qualsiasi soluzione concordata deve basarsi su un’ulteriore cancellazione del debito (già recisamente esclusa dalla Germania) o su un suo eventuale ripagamento a tempi migliori, che sicuramente alle orecchie dei creditori meno fiduciosi richiama la nozione delle famigerate “Calende greche”… Poiché ancora non è chiaro quali proposte il nuovo governo intenda fare ai suoi partners europei e al FMI, cosa che dovrebbe avvenire durante il prossimo mese, le uniche ragionevoli osservazioni che a questo punto si possono fare non sono molto incoraggianti, visto che il governo sta assumendo – non si sa se a scopi strumentali – posizioni sempre meno concilianti nei fatti.

        In conclusione, se gli epiloghi della situazione greca sembrano suggerire prospettive o comunque richieste di cancellazione del debito, appare chiaro a chiunque come in tal modo un precedente assai disputabile rischi di essere a sua volta sfruttando in casi analoghi. Ma supposto anche che, per un miracolo di benevolenza o semplicemente di buon viso a cattivo gioco, le richieste del governo vengano accolte sia pure solo parzialmente, il suo vero problema sarà costituito dal ciclopico tentativo di modificare tendenze collettive e strutturali radicate nella società e nell’economia greca – vedi, per esempio, l’ossessione della difesa militare e la gracilità produttiva - senza scontentare elettori che in fondo sono affluiti su Syriza perché speranzosi di una nuova “affluenza”, la quale non sempre e non necessariamente coincide con l’austerità o con la parsimonia.

         Tutto questo, nello sfondo di un’Europa sempre più afflitta da una strisciante recessione e dallo spettro di bancarotte nazionali a catena. Ecco perché il caso greco è emblematico: esso incorpora nei loro termini più virulenti alcuni nodi di fondo delle attuali strutture comunitarie (la lampante disomogeneità strutturale dei paesi membri) e le contraddizioni del modello economico che si dà per scontato, ovvero, la crescita della domanda e dei consumi come indice della stabilità economica. La situazione attuale e mostra come l’equazione, proprio a causa della vistosa disomogeneità in termini di potere d’acquisto dei vari membri, non è necessariamente sempre vera. A seconda dei paesi, è la crescita della loro domanda interna e dei loro consumi, non sostenuta da un’adeguata base produttiva, che ha generato le attuali crisi economiche del sud-Europa.

Antonello Catani

 

 

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