Una scommessa incauta
- Scritto da Antonello Catani
La disastrosa e pietosa perfomance di Joe Biden nel recente dibattito organizzato
da CNN e le reazioni in proposito si prestano a varie osservazioni.
Le difese di vari esponenti democratici o della stessa Kamala Harris, che affermano
che il Presidente è in grado di reggere il timone, lasciano il tempo che trovano.
L’ipocrisia è evidente e anche esilarante.
Ben più significative sono tuttavia le reazioni di mass media notoriamente allineati
con l’Amministrazione e che invece adesso sembrano scoprire il declino fisico di Joe
Biden e lo invitano a dimettersi. Posizioni analoghe riflettono inoltre mass media
europei. Simili tardive preoccupazioni sono una priva eloquente di una più massiccia e
sfrontata ipocrisia. Non vi era infatti bisogno del recente dibattito per arrivare alla
conclusione che il personaggio è in una fase avanzata di declino mentale e fisico.
Innumerevoli episodi negli ultimi due anni tradivano in modo inequivocabile l’esistenza
di un progressivo declino cognitivo e comportamentale che si sta solo accentuando di
mese in mese.
Gli scandalizzati e preoccupati di oggi sono dunque in malafede e assomigliano
alle bandieruole che obbediscono alla direzione del vento. Da un certo punto di vista, la
tardiva e ipocrita ammissione di molti mass media e opinion leaders è ancora più
miseranda dello spettacolo di un 81 enne dal passo stentato ed incapace di articolare
un discorso ma che però pretende di ricandidarsi come Presidente degli USA. La cecità
o l’omertà del Partito democratico in proposito sono scandalose.
Il comportamento di Joe Biden in un convegno nel North Carolina poco tempo
dopo il dibattito, durante il quale egli ha reiterato le sue capacità per un secondo
mandato presidenziale, aggrava il quadro piuttosto che migliorarlo. Il balzo fra il suo
stato quasi catatonico durante il dibattito e quello per così dire ringhioso e vociferante
durante il convengo nel North Carolina è infatti così evidente e marcato da far pensare
all’azione di qualche farmaco eccitante.
L’insieme di questi elementi rimanda irresistibilmente a uno scenario inquietante e
legittima domande che vanno al di là degli aspetti elettorali.
In base a quali criteri, infatti, il cerchio ristretto dei collaboratori e sostenitori di
spicco di Joe Biden ha autorizzato, incoraggiato o magari progettato il dibattito con
Donald Trump?
E’ veramente possibile che individui come Chuck Schumer (capogruppo
democratico al Senato), Hakeem Jeffries (capogruppo democratico di minoranza nella
Camera dei rappresentanti), Jake Sullivan (Consigliere per la Sicurezza Nazionale), Jeff
Zients (Capo dello staff della Casa Bianca), la stessa Vice-Presidente Kamala Harris e i
vari altri membri dell’Esecutivo della Casa Binaca, è veramente possibile che tutti
costoro fossero ignari delle reali condizioni fisiche e mentali del Presidente e che quindi
abbiano approvato il dibattito?
L’evidente declino mentale e fisico di Joe Biden in innumerevoli occasioni rende
poco realistica e poco credibile tale ipotesi. Ma se è così, CHI realmente governa e
prende le decisioni a Washington? E fino a che punto ciò è risaputo e fino a che livelli?
Domande difficili ma inevitabili.
Una possibile interpretazione è che il dibattito sia stata una disperata scommessa
volta a bloccare il crescente ed esponenziale successo di Donald Trump nei pronostici
elettorali nonostante le sue innumerevoli disavventure giudiziarie. Se di scommessa si è
trattato, l’inerente mancanza di scrupoli tradisce tuttavia anche un’incomprensibile
mancanza di senso della realtà o forse i timori di un intero apparato, la cui stessa
continuità è minacciata.
Non bisogna infatti dimenticare che per anni l’intero establishment democratico ha
legittimato sé stesso tentando di affossare in tutti i modi la figura politica di Donald
Trump, ricorrendo anche alle menzogne e ai sotterranei interventi di varie agenzie
federali come CIA e FBI. L’accusa di collusione con la Russia, per esempio, che gli
costò un impeachment, si è infatti dimostrata un’operazione gestita a metà fra le due
suddette agenzie, entrambe politicizzate, come lo stesso Ministero della giustizia. Il
famoso dossier che incrimina Hunter Biden è infatti esistente, la Russia non centra nulla
e le accuse di corruzione nei confronti della famiglia Biden sono state confortate da una
lunga serie di documentazioni anche bancarie. La famiglia ha ricevuto nel corso degli
anni decine di milioni di dollari da vari Stati, senza apparenti o ragionevoli motivi che
non fossero semplicemente l’aspettativa di favori politici. Le procedure per
l’impeachment di Joe Biden a questo proposito non sono infatti cessate.
L’intero establishment democratico e i mass media allineati hanno quindi martellato
per anni sulle presunte colpevolezze di Donald Trump (vedi l’assalto al Campidoglio) e
sull’onestà di Joe Biden e sulle sue capacità. Non solo, ma hanno anche avallato le
disastrose misure di quest’ultimo in tema di immigrazione, di aiuto all’Ucraina e di
gestione economica.
Insomma, tutto un apparato è in gioco, visto che si sa che, se eletto, non solo
Donald Trump adotterebbe misure totalmente opposte ma anche una miriade di
individui sarebbero costretti a cercare un’altra occupazione, mentre altri subirebbero, in
un modo o nell’altro, delle punizioni. Personaggi come Merrik Garland, l’attuale Ministro
della giustizia, o il Segretario agli interni Alejandro Mayorkas, per esempio, verrebbero
immediatamente licenziati e presumibilmente incriminati per atti commessi durante la
loro gestione. Non a caso, è già in corso un impeachmente nei confronti di Mayorkas,
servizievole complice della politica dei confini aperti di Biden, mentre esponenti
repubblicani non escludono un mandato di arresto per Garland, che si rifiuta di rilasciare
gli audio delle interviste con Joe Biden relative alla sua illegale tenuta di documenti
riservati. Tutto suggerisce che la vera ragione del rifiuto di Garland sia appunto il fatto
che gli audio tradirebbero ciò che è apparso chiarissimo durante il dibattito: un individuo
con problemi di comunicazione verbale e poco lucido.
Tenendo a mente tutti i suddetti elementi, diventa ancora più incomprensibile il
come gli stretti consiglieri e alleati di Biden si siano avventurati in un dibattito cos=
platealmente irto di rischi e disastri.
Era una prova in vista della National convention democratica di agosto per la
nomina ufficiale del candidato presidenziale? Ma se era una prova, in realtà non
esistono o non sono maturati altri contendenti né Joe Biden ha fatto capire che intende
dimettersi o mettersi da parte. In un certo senso, i Democratici si sono accalappiati da
soli e sono costretti a giocare con una pedina sempre più vacillante nel senso letterale
del termine. Salvo l’esistenza di ulteriori fattori nascosti e indecifrabili, la scommessa
dell’establishment democratico ha insomma tutta l’aria di essere una scelta forzata ma
anche un macroscopico errore.
Ciò non deve tuttavia stupire e sarebbe in fondo allineato alla relativa miopia e
dilettantismo in tema di politica estera. Tutte le mosse e le strategie portate avanti fino
ad oggi, dall’Ucraina al Medio Oriente, all’Iran e alla Cina si sono dimostrate fallimentari,
un clamorosoo errore di valutazione. Se a ciò si aggiunge l’inarrestabile allargamento e
rafforzamento del BRICS e quindi il tramonto dell’egemonia del dollaro, appaiono
ancora più chiare le debolezze e le incapacità dell’attuale Amministrazione.
Anche se Donald Trump o magari un altro diverso da Trump dovesse vincere le
elezioni a novembre, la cura dell’attuale profonda crisi istituzionale, ideologica,
economica e strategica degli USA richiederà un vero e proprio miracolo.
Antonello Catani, 30 giugno 2024