Le isole Sorlinghe: terre leggendarie

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Le isole Sorlinghe, Isles of Scilly in inglese, sono un arcipelago di 145 isole che si trovano a quarantacinque  chilometri dalla punta della penisola della Cornovaglia, la parte più a sud-ovest della Gran Bretagna. Esse sono avvolte nella leggenda. Si narra infatti che il re Artù fosse stato sepolto qui nel VI secolo, in una terra chiamata Lyonesse. Re Artù è considerato una figura che appartiene al mito, ma egli è anche parte fondamentale dell’identità storica dell’Inghilterra. Lyonesse era probabilmente un territorio allagato nell’ovest della Cornovaglia. Parte di questo racconto potrebbe in realtà essere vero. Le isole sono state chiamate “le ultime solitarie colline di un mondo sommerso da molto tempo”. Circa quindicimila anni fa, le terre al largo della Cornovaglia erano sopra il livello del mare. Ora, negli ultimi trecento anni, il mare si è alzato di quattro metri ed è questa la ragione per cui, oggi le mura dell’isola scompaiono in mare.

Gli scienziati pensano che il mare abbia allagato la pianura centrale intorno al 400-500 dopo Cristo. Un documento di epoca romana parla di un’isola singolare, mentre alcuni scrittori medievali riferiscono di centoquaranta chiese sommerse fra la Cornovaglia e le isole Scilly, con i pescatori che raccoglievano nelle loro reti pezzi di porte e finestre. Solo cinque isole sono abitate. La popolazione è costituita da circa 2.300 abitanti che diventano 4.000 nel periodo estivo. Più di duecento fa anni essi erano appena duemila. Nel passato le isole erano famose per le rocce pericolose e le scogliere altissime. Molti marinai morirono nel naufragio delle loro navi a pochi chilometri dallo sbarco sulla terraferma inglese. Le isole stesse nel Medioevo erano insicure a causa dei pirati che le saccheggiavano per catturare persone da vendere come schiavi. Questi territori fanno parte del Ducato di Cornovaglia, un feudo vecchio di centinaia di anni, ora sotto l’amministrazione del Principe del Galles, un titolo ereditato dal Principe William da quando suo padre Carlo è divenuto re.

La maggior parte dei residenti affittano le proprie case dal Principe del Galles e il Ducato fornisce gran parte del suo reddito. Quando Carlo visitò le isole con Diana e i loro figli nel 1980, le barche noleggiate dai paparazzi inseguirono la famiglia reale. La gente del posto si divertiva a mandare i paparazzi sulle isole sbagliate. Un’isola disabitata di appena un acro da il nome all’intero arcipelago. Le cinque isole popolate sono St. Mary, Tresco, St. Martin’s, Bryher and St. Agnes. Il principale simbolo di Tresco è Abbey Garden, un giardino di diciassette acri contenente ventimila piante provenienti da diciotto paesi. Lì vicino, il Valhalla Museum possiede una collezione di polene, decorazioni femminili e animali che appartenevano a centinaia di relitti trovati intorno alle isole.

Sebbene il turismo sia  la principale fonte di reddito dell’isola, per decadi i fiori di narciso hanno sostenuto l’economia. I fiori sbocciano presto sulle isole e gli agricoltori nel XIX secolo inviavano i loro boccioli in Inghilterra per battere il mercato continentale. La globalizzazione alla fine ha posto termine a questo vantaggio, ma le spettacolari spiagge e il tempo, molto poco britannico, con sette o sei ore di sole nel mese di luglio, hanno reso presto l’isola una località molto popolare per gli Inglesi in cerca di sole, sabbia e sport acquatici. Fauna selvatica e giardini sono esotici. L’atmosfera è calma e dei tempi passati. I cieli sono incredibilmente chiari nella notte permettendo l’astronomia amatoriale e anche gli appassionati di birdwatching arrivano in migliaia, ad ottobre, per vedere gli uccelli rari e migratori che visitano l’isola. La tranquillità è l’atmosfera dominante, ma le isole non sono senza problemi. La domanda di case supera l’offerta e i redditi locali sono bassi se paragonati a quelli della terraferma inglese. L’amministrazione locale ha recentemente dichiarato la crisi abitativa. D’altra parte c’è un problema di cui le isole non soffrono.

Esse sono conosciute come le terre dimenticate dalla malavita a causa del loro basso tasso di criminalità. Nelle memorie di un poliziotto che qui è vissuto dieci anni: The Life of a Scilly Sergeant, l’autore Colin Taylor sconcertò i suoi lettori con il racconto di ladri che lasciavano le uova fritte come biglietti da visita e di un cavallo miope che spaventava il vicinato andandosi a schiantare sulle auto parcheggiate. I vicini lasciarono a loro volta allibito lo stesso Taylor poiché non chiudevano a chiave  le  porte d’ingresso delle loro abitazioni.

Patrizia Lazzarin, 18 gennaio 2023

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Tra religione e diritto: la caccia alle streghe

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“Non lascerai vivere colei che pratica la magia”. Questo versetto dell’Esodo è stato tradotto in inglese nel 1604 su incarico di Giacomo I, un re che sentiva di aver molto da temere dalla stregoneria. Quando la Bibbia di Giacomo I fu pubblicata nel 1611 il panico per le streghe si era diffuso a macchia d’olio in tutta Europa da oltre cento anni. Il libro che “accese la scintilla” nella persecuzione delle “operatrici di malefici sortilegi” non fu però la Bibbia di Giacomo I, ma il Malleus Maleficarum che tradotto dal latino significa il “martello delle malefiche”, ossia delle streghe.

Esso, scritto dal frate domenicano Heinrich Kramer e pubblicato nel 1486, era un compendio della letteratura di demonologia allora esistente. In un momento in cui i processi alle streghe in Europa aumentavano rapidamente di numero, esso ha fornito una guida per il crimine di stregoneria, suggerendo vari metodi di tortura come migliori modi per ottenere confessioni, elevando  la stregoneria allo status criminale di eresia. La pena di morte diventava così l’unica punizione plausibile. Proprio come oggi con  l’impatto dei social media, la recente invenzione della stampa permise che le opere pubblicate si potessero diffondere più rapidamente di quanto fosse mai accaduto. Infatti ci furono ventotto edizioni del testo del Malleus in un arco di anni che va dalla sua prima pubblicazione nel 1486 fino al 1600. Nel tempo dei conflitti religiosi, il fatto che il libro fosse una fonte autorevole di informazioni sul satanismo rappresentava una delle poche cose su cui Cattolici e Protestanti si trovavano d’accordo. Non è sorprendente  dunque che, quando nel 1590 re Giacomo quasi morì in una tempesta mentre attraversava il Mare del Nord con la sua sposa Anna, il suo primo pensiero fu di essere stato vittima della cospirazione delle streghe. Questa idea venne apparentemente confermata da una donna accusata di stregoneria che, sotto tortura, confessò che nel 1590, nella notte di Halloween, duecento streghe avevano attraversato il mare su setacci in direzione della città costiera  scozzese di North Berwick, dove il diavolo le incoraggiò a cospirare contro il re.

Da quel momento Giacomo I autorizzò i processi alle streghe e la sua attenzione fu catturata dalle dinamiche della stregoneria. Nel 1597 egli scrisse il suo libro Daemonologie, un trattato sul folclore legato alle streghe e insieme resoconto filosofico della demonologia e dei metodi che i diavoli usavano per tentare gli uomini. Questo libro che fornì materiale al Macbeth di Shakespeare nella descrizione delle Weird Sisters, Strane sorelle, spiega come il diavolo opera nel mondo facendo patti con gli uomini e dando ad essi nocivi e magici poteri. Nel 1603 i regni di Scozia e Inghilterra furono unificati sotto la guida di Giacomo I. Nonostante Guy Fawkes e la Congiura delle Polveri avesse avuto l’effetto di togliere l’attenzione del re verso la cospirazione delle streghe per indirizzarla verso i complotti dei Cattolici, il panico delle streghe crebbe e peggiorò nelle decadi che seguirono l’unificazione. Entrò allora in scena un certo Matthews Hopkins, un avvocato impoverito e con un forte background puritano che, durante il caos  e lo sconvolgimento delle guerre civili inglesi, fece sua la missione di riportare la calma distruggendo ogni cosa che avesse relazione con le opere del diavolo.

Gli inizi  della sua carriera come cacciatore di streghe sono abbastanza vaghi, ma nel 1644, secondo quanto si tramanda, egli ebbe modo di udire alcune donne che parlavano dei loro incontri con il diavolo nel paese di Manningtree, nella contea di Essex, dove egli viveva.  Ventitre donne furono accusate di stregoneria e diciannove furono condannate e impiccate. Hopkins aveva scoperto la sua “vocazione”. Negli anni fra il 1644 e il 1646 egli e i suoi associati furono  responsabili  delle morti di trecento donne. Nel 1645 egli assunse il titolo di Witch Finder General, “scopritore di streghe”, e nel 1647   aggiunse alla letteratura sull’argomento un breve pamphlet sui metodi di caccia alle streghe, The Discovery of Witches, ossia la scoperta delle streghe.

Patrizia Lazzarin, 16 gennaio 2023

 

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Nella moda si gioca l’emancipazione femminile

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A Milano capitale della moda italiana, dove vi è il maggior interscambio tra stilisti, aziende, professionisti del settore e appassionati di stile, a Palazzo Morando, settecentesca dimora nobiliare, sede di un museo dedicato alla città, possiamo scoprire un assai interessante percorso nella moda del Novecento raccontato dagli abiti e dagli accessori appartenenti alle sue collezioni. Momenti di Moda a Palazzo Morando. Dal busto alla salopette a cura di Enrica Morini, Margherita Rosina e Ilaria De Palma, racconta l’emancipazione femminile da un particolare punto di vista, mostrando come  la libertà di indossare  nuovi indumenti comporti in primis una maggiore naturalezza e benessere per la vita di ogni donna. L’antico Palazzo riapre i battenti delle sale dell’Ala Nuova con un’esposizione, la cui finalità è innanzitutto far conoscere le raccolte del museo. La collezione del Comune di Milano comprende  oltre 6.000 pezzi tra abiti e accessori che vanno dal XVI al XXI secolo. Quando negli anni Ottanta si cominciava a ragionare per un Museo della Moda a Milano, la prima stilista che donò una propria creazione storica “al costituendo Museo” fu  la famosa Mary Quant, l’inventrice della minigonna.

Divisa in sette sezioni, la rassegna ci permette di viaggiare nel tempo permettendoci di capire attraverso abiti, cappelli, borse e scarpe  un diverso modo di intendere il corpo femminile. Le protagoniste del Novecento furono donne  che  anche attraverso gli abiti, la pettinatura e il trucco  spiegarono i  profondi mutamenti dei tempi e del ruolo femminile. La moda fu espressione di  questo processo di emancipazione inventando forme e linguaggi sempre diversi. Le riviste diedero ampio spazio alle stoffe all’ultima moda fino a quando l’abito artigianale su misura non fu definitivamente sostituito dal prêt à porter. Per quasi tutto il Novecento i negozi di tessuto a metraggio erano un punto di riferimento per le sartorie e per una clientela che rinnovava il proprio guardaroba ispirandosi ai modelli proposti dai redazionali e dalla pubblicità delle ditte produttrici di sete, lane e cotoni. Tra le prime riviste di questo genere si possono ricordare: “Les Modes”, “Fantasie d’Italia”, “La donna” o “Fili Moda”. Nei primi decenni del Novecento continuarono a convivere modi di vestire di concezione opposta. Da un lato il rigido busto con stecche di acciaio o di balena che dalla prima metà dell’Ottocento limitava la gestualità femminile e ne modificava la silhouette,  dall’altro la moda nata da qualche decennio in Inghilterra che lo combattevano in nome di uno stile di vita più sportivo e sano. Fu merito di un artista e di sua moglie, Mariano ed Henriette Fortuny, la creazione del primo abito moderno da indossare senza busto. Alla metà del primo decennio del Novecento, Fortuny, un artista spagnolo che si era stabilito a Venezia nel 1889 e la sua compagna Henriette Nigrin furono affascinati dai reperti portati alla luce dagli scavi archeologici che si stavano compiendo a Delfi e a Creta e li trasposero nell’abbigliamento femminile. Nel 1907 realizzarono l’abito Delphos ispirato al chitone dell’Auriga di Delfi e alla Venere del Trono Ludovisi. Nel 1909 Fortuny brevettò sia il modello dell’abito sia il metodo per realizzarne la plissettatura. Si trattava di un capo rivoluzionario che prevedeva la totale eliminazione di busto e strati di biancheria, esaltando la bellezza naturale del corpo e di ogni suo movimento. Per quasi mezzo secolo fu infatti prodotto senza subire sostanziali modifiche per una clientela di donne colte e cosmopolite.

Fra il 1914 e il 1918  la prima guerra mondiale  provocò la temporanea chiusura delle case di moda parigine, ma anche l’accorciamento delle gonne. L’impiego di giovani donne nella cura dei feriti impose un modo di vestire pensato per il lavoro. I grembiuli delle crocerossine e le divise di taglio maschile entrarono nei guardaroba delle signore. L’icona degli Anni Venti è una ragazza emancipata, androgina, con i capelli tagliati à la garçonne, la cloche calata sugli occhi truccati e la gonna sempre più corta a mostrare le calze e le scarpe. Per lei la moda creò abiti adatti al movimento, allo sport e al ballo: la tunica diritta e il vestito in sbieco. Messa a punto da Madeleine Vionnet in anni di lavoro, la tecnica dello sbieco, che sfrutta l’elasticità del tessuto usato in diagonale, dava agli abiti una vestibilità nuova. Alla metà del decennio, quando le sartorie iniziarono a padroneggiarla, tunica e sbieco si combinarono: le gonne furono arricchite con godet e pannelli di forma irregolare che fluttuavano a ogni movimento. La crisi del 1929 spazzò via gli Anni Folli. La rovina di molti patrimoni e i dazi imposti sulle importazioni di lusso negli Stati Uniti costrinsero l’haute couture a una svolta. Il nuovo ideale fu una giovane donna atletica, sicura di sé, capace di usare l’abbigliamento per affrontare le difficoltà e per sedurre, incarnato dalle dive di Hollywood. “Che il seno torni ad avere il posto che gli compete, si imbottiscano le spalle. Si rimetta la vita dov’era! Si allunghino le gonne!” decretò Elsa Schiaparelli.

Per la sera entrarono in scena abiti che scolpivano il corpo grazie alla sinuosità dello sbieco. La nuova parola d’ordine fu “eleganza”. Gli anni successivi alla Prima guerra mondiale furono un periodo particolarmente interessante nella storia del tessile di abbigliamento, poiché accanto alle fibre naturali quali lana, seta, cotone, lino, ci fu un massiccio uso di fibre artificiali. Questo avvenne in particolare in Italia, che ne era grande produttrice, quando il fascismo dalla metà degli anni Trenta adottò l’autarchia anche nel settore tessile. Il rayon, ottenuto dalla trasformazione chimica della cellulosa, si caratterizza per una lucentezza serica che lo impone come sostituto più economico della seta. Nonostante il clima di guerra, alle sfilate dell’haute couture parigina del gennaio 1940 assistettero molti compratori americani. Non sarebbero più tornati fino alla liberazione dai nazisti della capitale francese. Per cinque anni l’abbigliamento europeo fu dominato dalle dure condizioni di vita e dalla mancanza di materie prime  cui le donne sopperirono con ingegno. Tornata la pace, Milano diede un nuovo impulso alla moda: nuovi atelier diretti da giovani donne si aggiunsero alle poche sartorie degli anni Trenta ancora aperte. La moda veniva da Parigi e l’élite più raffinata voleva abiti originali, ma la creazione di modelli ispirati alle tendenze francesi affinò l’estro delle sarte. Nel 1951, alla prima sfilata di moda italiana organizzata a Firenze da Giovan Battista Giorgini parteciparono nove case di alta moda, quattro delle quali erano milanesi: Marucelli, Noberasco, Vanna, Veneziani. Imprenditrici aperte all’arte e alla socialità e attente agli affari, le nuove signore della moda meneghina avevano capito che il futuro dell’Italian Style si giocava all’estero.

Il successo della moda italiana nel mondo si fondò sull’alta moda, sulla boutique, sugli accessori, ma anche sull’alleanza dei suoi creatori con i setaioli comaschi e i lanieri piemontesi. Le industrie tessili italiane erano cresciute di importanza già tra le due guerre mondiali, ma negli anni Cinquanta, grazie anche agli aiuti economici e tecnologici legati al Piano Marshall, poterono in breve competere a livello europeo. Supportate da disegnatori abilissimi, caratterizzate da costi di produzione contenuti e da grande rapidità nelle consegne, riuscirono a penetrare anche sul mercato parigino.  I Baby Boomers e i movimenti giovanili sono stati invece i protagonisti degli anni Sessanta. La haute couture e le sartorie dovettero lasciare il passo a più moderne forme di consumo della moda: boutique e store frequentati dai più giovani proponevano abiti progettati da nuovi designer e prodotti in serie, mentre i grandi magazzini innovarono la loro offerta. Per l’Italia, fu l’inizio della stagione degli stilisti che, alleandosi con l’industria, trasformarono l’offerta di moda. Nell’aprile 1971, Walter Albini, Jean-Baptiste Caumont e Cadette presentarono le collezioni invernali a Milano, che in breve diventò la capitale di quel prêt à porter Made in Italy che avrebbe avuto tanto successo nei decenni successivi.

Patrizia Lazzarin, 14 gennaio 2023

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