Ora la sfida è convivere con il virus

A oltre un mese dalla decisione del governo Conte di rispondere alla pandemia Covid-19 chiudendo l'intero Paese, e con un bilancio drammatico di 19468 vittime e 152271 contagiati, l'Italia si sta avvicinando al momento in cui dovrà convivere con il virus: da qui la necessità di regole chiare per tutti i cittadini. Il momento della convivenza con il virus è prossimo perché da un lato i numeri ci dicono che la fase più aggressiva è alle spalle ma dall'altro contagi e morti continuano perché non disponiamo né del vaccino né di una terapia medica efficace. Dunque, l'Italia si dirige verso una fase di mezzo della lotta al Covid-19: l'attacco a sorpresa del nemico invisibile è superato ma dobbiamo riorganizzare le nostre vite proteggendoci da un male che resterà fra noi ancora per un certo periodo.
A rendere pericolosa questa fase di mezzo è l'evidente rischio di corto circuito fra la necessità di riattivare la produzione economica - per impedire l'implosione del Pil, scongiurare l'impoverimento collettivo e le conseguenti proteste sociali - e il pericolo di un colpo di coda della pandemia.
Un'epidemia «simile a quello con cui la Spagnola causò milioni di vittime nel 1918» come ammonisce Anthony Fauci, capo dell'Istituto Usa contro allergie e malattie infettive.
La strada da attraversare è stretta e l'assenza di precedenti a cui richiamarsi ne aumenta la pericolosità. Ma non c'è alternativa alla convivenza con il virus perché continuare a tenere blindati in casa 60 milioni di italiani espone il Paese al rischio del collasso, a vantaggio della criminalità organizzata che da sempre aspira a sostituirsi allo Stato nel controllo del territorio come anche di potenze rivali che vedono l'opportunità di impossessarsi delle nostre ricchezze nonché di indebolire sul piano strategico le alleanze Ue e Nato.
Definire le regole per convivere con il virus è un appuntamento non prorogabile ma, nonostante assicurazioni e decreti del governo, l'Italia appare in chiaro ritardo sui tre binari più importanti: Sanità, Economia e Sicurezza.
Sulla Sanità bisogna identificare le norme che ci accompagneranno nella transizione – ad esempio, igiene personale, distanza sociale, mascherine, protezione degli anziani – come le strutture ospedaliere per accogliere i pazienti Covid. Al fine di aiutare i cittadini a comprendere come dovranno comportarsi con il virus una volta usciti di casa. Sull'Economia l'urgenza riguarda norme che consentano la veloce riapertura delle aziende proteggendo i dipendenti, accompagnate da regolamenti per accelerare i sostegni finanziari alle imprese ostacolati dalle resistenze della burocrazia, statale e bancaria. Infine la Sicurezza, servono app telefoniche per seguire contagiati e pazienti a rischio affinché non infettino altri cittadini. Così come bisogna identificare tutti quegli attori – indigeni o stranieri – che stanno tentando di indebolire la sovranità nazionale impedendogli di reclutare persone o favori facendo leva sul facile accesso ai liquidi. Ciò che accomuna l'agenda della transizione è la necessità di uno Stato snello nelle strutture, rapido nelle decisioni operative, efficiente nel risolvere i gravi problemi di cittadini, famiglie e aziende.
Tanto più a lungo mancheranno le regole per la convivenza con il virus, tanto più aumenteranno le tensioni nel Paese. Per l'insofferenza di chi sta chiuso in casa, per l'irritazione di chi non riesce ad accedere agli aiuti governativi, per la rabbia di chi non ha più il lavoro, per il dolore di chi non sa dove vengono sepolti i propri cari e per l'istinto alla rivolta da parte di chi disprezza lo Stato di diritto. A dimostrare, in maniera cristallina, quanto tali tensioni assedino il governo Conte è la doppia sfida del Nord: la Lombardia contesta la rapidità nella riapertura dei piccoli esercizi, continuando a tenerli tutti chiusi, perché il numero dei contagi continua a crescere mentre il Veneto contesta la lentezza nella ripresa delle attività economica fino al punto da annunciare la totale riapertura da martedì. Ovvero, se il governo non gestisce con efficacia e rapidità la convivenza col virus, lo scenario per la Nazione potrebbe peggiorare.

Maurizio Molinari – La Stampa – 12 aprile 2020

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La sicurezza dipende dai cittadini

L'attacco della pandemia esalta la vulnerabilità del fronte interno dei nostri Paesi, impone di ridisegnare in fretta la difesa collettiva e trasforma la responsabilità personale dei cittadini nell'elemento cardine della sicurezza nazionale.
La vulnerabilità del fronte interno è il tema che accomuna le maggiori crisi di sicurezza che abbiamo attraversato nei primi 20 anni del XXI secolo: con l'attacco dell'11 settembre 2001 contro New York e Washington il terrorismo trasforma ogni civile in un obiettivo; con la pirateria cyber gli hacker si impossessano dei dati personali di milioni di persone e aziende in centinaia di Paesi; con le interferenze digitali dal 2016 attori stranieri diffondono fake news per dirottare la vita politica in Europa e Nordamerica. E con Covid-19 il fronte interno subisce il colpo più duro perché gran parte della popolazione del Pianeta è obbligata a limitare i movimenti dopo l'attacco di un nemico invisibile. In ognuna di queste crisi gli Stati nazionali hanno dimostrato una crescente vulnerabilità, trovandosi obbligati a chiedere la collaborazione dei cittadini per garantire la sicurezza collettiva: contro il terrorismo accettando nuove modalità di viaggiare sugli aerei come anche segnalando alle forze dell'ordine borse incustodite e comportamenti insoliti; contro i cyberattacchi dotandosi di protezioni elettroniche in casa o sul lavoro.
Contro le interferenze digitali straniere facendo leva sui propri anticorpi per non cadere nella trappola della disinformazione. Ma la pandemia spinge alle estreme conseguenze tale necessità di cooperazione da parte dei singoli con le autorità perché la sconfitta del virus passa attraverso qualcosa di più drastico: chiudersi in casa, limitare i contatti con il prossimo, lavorare a distanza, non poter incontrare i propri anziani. Ciò significa che il cittadino è precipitato al centro del sistema di sicurezza nazionale e che la protezione collettiva ha come elemento irrinunciabile la responsabilità personale dei singoli individui. Se i cittadini non collaborano - per qualsivoglia motivo - è l'intera comunità nazionalità a essere messa a rischio. Il motivo è davanti ai nostri occhi: in attesa del vaccino e in assenza di una terapia di comprovata efficacia medica l'unica vera arma che lo Stato ha per contenere il virus-killer è la chiusura della vita pubblica. E la sfida al contagio non è uno sprint bensì una maratona ovvero un impegno prolungato nel tempo in attesa che la scienza ci fornisca gli strumenti per sconfiggere il nostro nemico, impedendogli anche pericolosi colpi di coda e ritorni aggressivi come quelli che sta subendo la stessa Cina Popolare che pensava di averlo definitivamente battuto.
Ecco perché le immagini scattate nelle ultime 48 ore che ritraggono un numero significativo di connazionali affollare luoghi pubblici dalla Liguria al Veneto, dal Lazio al Piemonte, dalla Sicilia alla Campania sono il ritratto di quanto più dobbiamo temere: il rifiuto, la resistenza dei cittadini a partecipare alla lotta contro il contagio. In ultima istanza, la sicurezza nazionale nel XXI secolo si sta dimostrando una questione di responsabilità personale: lo Stato, il governo, i titolari della protezione, possono decidere strategie, tattiche e metodi da applicare ma per avere successo hanno bisogno che i singoli le facciano proprie e ne siano protagonisti. Perché lo scontro con il nemico non avviene più sulla trincea di un lontano campo di battaglia dove i protagonisti sono soldati e blindati bensì dentro le nostre strade, i nostri condomini e le nostre case.
Ma non è tutto perché la necessaria partecipazione degli individui alla sicurezza collettiva si può ottenere in diverse maniere, sulla base dei valori e delle leggi dei singoli Stati: per i regimi autoritari è più facile e rapido riscuotere obbedienza assoluta mentre per le democrazie è imperativo riuscirci rispettando lo Stato di diritto. E ciò significa che per i cittadini di un Paese libero la responsabilità è maggiore.

Maurizio Molinari – La Stampa – 5 aprile 2020

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Sala: "Modernizzare lo Stato. Nuova Costituente per far ripartire l'Italia dopo il virus"

«Una nuova Costituente per far ripartire l'Italia dopo il virus». Il sindaco di Milano, Beppe Sala, parla dal suo studio a Palazzo Marino, trincea della resistenza alla pandemia, per descrivere come vede la fase 2 dell'emergenza, quella della ricostruzione. Descrive la sua città come «motore indispensabile della ripresa» e prevede che le «abitudini cambieranno» perché «usciremo con la mascherina, manterremo le distanze sociali, proteggeremo gli anziani e avremo bisogno di app digitali». Ma ciò che più serve è «modernizzare lo Stato» per «uscire da questa crisi più forti di prima»: ciò significa riforme di alto profilo e smantellamento della burocrazia. E lo strumento per riuscirci è in un appello al Capo dello Stato: «Serve una nuova Costituente» come quella con cui De Gasperi aprì le porte al Dopoguerra.
Come è la lotta al virus da Palazzo Marino?
«Dobbiamo resistere. Non solo per la nostra salute ma anche perché se crollasse Milano crollerebbe la Sanità. La città è stata pesantemente toccata, penso anzitutto alle vittime, ma ha espresso anche una buona resistenza. Ora, dopo 20 giorni, capisco che la gente inizia ad essere stanca ma i dati che riceviamo danno la speranza di vedere un regresso del virus».
Quali numeri guarda di più?
«Sono, purtroppo, quelli dei morti. Non guardo tanto i contagi. Vorrei vedere un numero che non appare: quello dei ricoverati in terapia intensiva. Perché è strategico per la tenuta del sistema. Ho dei dubbi sulla maniera con cui i numeri giornalieri vengono presentati. Credo andrebbero spiegati più i trend che i dati giornalieri».
La Lombardia è la trincea di Italia, riuscirà a fermare il virus?
«In questo momento la Lombardia ha un problema perché il virus è piuttosto radicato nel Bresciano e nel Bergamasco fino verso Cremona. Parlo con i tre sindaci in questione, soprattutto con quelli di Bergamo e Brescia, per capire le cause di tutto ciò. Perché c'è grande differenza fra la situazione dei vari territori in Lombardia. C'è fra noi condivisione sul fatto che non aver fermato le fabbriche ha portato molta gente a restare l'uno vicino all'altro».
Quindi sarebbe stato giusto fermare le fabbriche?
«Penso di sì. Soprattutto perché i segnali c'erano. A volte mi chiedo se ha senso considerare tutta l'Italia una zona rossa. Ora però è il momento di guardare avanti, non indietro, perché abbiamo davanti una lunga battaglia».
Quale è la questione più urgente?
«L'interrogativo è come gestiremo il periodo che va da ora a quando avremo il vaccino: sarà segnato da aperture e chiusure e dunque sarà errato considerare tutto il territorio allo stesso modo. Ricordo che il sindaco di Bergamo, Gori, è stato lui il primo a chiedere l'istituzione della zona rossa per Alzano. Ma non è stato ascoltato».
Il virus ha occupato Milano o Milano resiste?
«Milano resiste ma è chiaro che il virus ha occupato la testa dei milanesi e molto presto dovremo essere bravi a cambiare velocemente le nostre attitudini sociali e il nostro approccio al lavoro, che sono state poi le chiavi del recente successo della città».
Come sarà il dopo-emergenza, a cosa pensa in particolare?
«Sarà molto importante capire come ci muoveremo, come staremo assieme negli spazi pubblici e come daremo un contributo alla ripartenza di Milano in funzione delle nostre capacità. Ad esempio bisognerà tornare a lavoro in funzione dell'età che si ha e dunque proteggere coloro che sono più a rischio, tenendoli a casa, e puntare per il rilancio su coloro che possono dare più garanzie. Servirà molta flessibilità. Dovremo applicare la nostra esperienza con modalità differenti».
Dunque dovremo difendere gli anziani e mantenere le distanze sociali?
«Sì, queste saranno due regole-base che dovremmo rispettare nei prossimi mesi. Poi ci sarà il comportamento dei singoli, credo che per un certo periodo continueremo ad indossare mascherine - affrontando la necessità di averne nelle quantità necessarie - e poi vi sarà il bisogno di una app che, con limiti temporanei della privacy, sia capace di aiutarci nella vita di tutti i giorni, potendo segnalare i movimenti di una persona che si è ammalata in modo che gli altri capiscano se sono stati a contatto».
Quando riapriranno le scuole?
«Al momento non mi pare che ci sia alcuna previsione realistica. E' chiaro che è un anno scolastico totalmente deviato. Sarebbe bello coniugare lo sforzo di famiglie e insegnanti per far studiare i ragazzi da casa con un atteggiamento comprensivo sui voti da parte degli insegnanti».
Cosa la preoccupa di più e cosa le dà speranza?
«Mi dà speranza l'atteggiamento dei cittadini, che si stanno dimostrando molto responsabili. Rispetto alla Cina, un Paese non pienamente democratico che in una situazione del genere può assumere decisioni molto efficaci, e alla Sud Corea, dove lo sviluppo delle nuove tecnologie ha un'estensione non comune, noi dobbiamo lavorare sulla responsabilizzazione dei cittadini. E dobbiamo ammettere che i cittadini stanno dimostrando responsabilità. Anche se poi vi sono motivi di timore per quanto avviene in altre Regioni del Paese sul fronte dell'ordine pubblico, penso agli scippi delle borse della spesa. Ciò che mi preoccupa invece è che siamo un Paese che, per tipo di ordinamento e per funzionamento della giustizia, è tutto tranne che efficiente. E noi in questa fase non possiamo permetterci di non esserlo. Se lo Stato continua ad essere quello di ieri, io sono molto preoccupato».
Che cosa dovrebbe fare lo Stato per adattarsi alle esigenze della ricostruzione?
«Credo che sia forse arrivato il momento di avviare una stagione per le riforme. Ho in mente due capitoli. Primo: il potere dello Stato e i poteri locali perché l'attuale struttura amministrativa è del secolo scorso e non consente di essere veloci. Con 20 Regioni, 8000 comuni, un centinaio di province e 14 città metropolitane si perde immediatezza e la responsabilità è suddivisa in mille centri di potere. Il sistema a 20 Regioni, che quest'anno compie mezzo secolo, è forse arrivato al capolinea. Secondo: la giustizia perché l'articolo 102 della Costituzione impedisce di istituire giudici speciali ma in realtà si sono venute a verificare situazioni nelle funzione pubblica che pongono legittimi dubbi al riguardo. Insomma, tanto sul fronte dei poteri locali che della giustizia bisogna smantellare la burocrazia. Siamo passati da un periodo dove l'Italia restava la quinta o sesta potenza industriale pur rimanendo inefficiente ad una realtà dove più Paesi ci superavano fino all'attuale crisi del coronavirus che amplifica il tutto. Dunque essere più efficienti non è un'opzione, è diventato un obbligo».
Dunque dopo la devastazione della pandemia, la maggiore dal 1945 con oltre 10 mila morti, lei sta dicendo che ne possiamo uscire più forti solo riuscendo a modernizzare lo Stato. Ma come farlo?
«L'interrogativo è soprattutto chi deve farlo perché chi oggi ci rappresenta in Parlamento non aveva - ne poteva avere - la consapevolezza di cosa sta avvenendo ora e d'altra parte non era incline, per le ragioni più diverse, a modernizzare lo Stato anche prima del coronavirus. Ecco perché ritengo che non è possibile fare le riforme in maniera canonica. Questo è il motivo perché come nel Dopoguerra Alcide De Gasperi lanciò la Costituente che ci regalò la Costituzione, il presidente Sergio Mattarella potrebbe oggi lanciare una nuova Costituente. Abbiamo un Capo dello Stato straordinario che non ha certo bisogno dei miei consigli ma se potessi azzardarne uno, direi questo: è il momento di una nuova Costituente repubblicana».
Chi dovrebbe partecipare alla nuova Costituente?
«Senza negare il legittimo ruolo del Parlamento, servirebbe spazio per chi amministra localmente ovvero rappresentanti di sindaci e presidenti di Regioni».
E quale deve essere l'obiettivo della Costituente?
«Modernizzare le istituzioni, rendendole compatibili con la complessità e l'internazionalità in cui ci troviamo ad operare. Questa crisi ci porta a dire che l'Italia non può permettersi di chiudersi nei suoi confini in una visione autarchica, rifiutando l'idea di essere parte della comunità internazionale. Il dibattito Europa sì-Europa no è fuori da ogni logica: bisogna andare oltre queste sciocchezze, facendo ciò che già possiamo. Ad esempio l'Ue ora consente di adoperare i fondi strutturali non utilizzati - valgono circa 50 miliardi - dunque prendiamoli e gestiamoli, a cominciare dal territorio più colpito dalla pandemia».
Il nodo è come scongiurare l'emergenza economica dopo quella sanitaria: la Francia ha creato linee di credito per 300 miliardi, la Germania per oltre 1200, gli Usa hanno addirittura varato un pacchetto da 2 trilioni. L'Italia è ferma a 25 miliardi e forse arriverà a 50-100. Così non rischiamo il collasso produttivo per le persone che usciranno da casa senza trovare le loro aziende?
«Sì, questo è il rischio. Lo vedo da un territorio come Milano che fino a ieri era la locomotiva di Italia e che dovrà tornare ad esserlo, perché, mi permetta di dirlo senza arroganza, non vi sono alternative. Se la ripresa non partirà da Milano, da dove partirà? Il tessuto milanese non è fatto da 4-5 grandi aziende ed un paio di grandi banche: è molto esteso, vasto, ramificato. E dunque necessita di risorse finanziarie, ricorso al credito, fiducia, per poter ripartire. Milano sarà l'area-test del rilancio. Servono scelte più incisive e coraggiose da parte del governo, le cui azioni su questo fronte finora sono state piccola cosa. Questo è il momento in cui bisogna andare avanti».
Dunque ha ragione Mario Draghi quando scrive sul "Financial Times" che bisogna aiutare le aziende a non chiudere?
«Ha totalmente ragione Mario Draghi, con cui mi sono confrontato alcuni giorni fa, perché è da qui che bisogna ripartire. È dal sostegno alle imprese che deve ripartire l'azione del governo. Poi i sindaci si occuperanno del welfare cittadino e di rimodulare i servizi, ma il compito dello Stato è salvare le imprese perché è così che si salva il lavoro».
Quanto la preoccupa l'emergenza ordine pubblico al Sud?
«Molto, perché si tratta di un territorio più debole dove la povertà è più profonda. È la cartina tornasole delle tensioni sociali che ci saranno e dovremo gestire».
Stiamo accogliendo aiuti russi, cinesi e cubani contro il virus mentre di quelli della Nato, che pure arrivano, si parla meno. Vede il rischio di una tendenza a mutare le nostre alleanze?
«C'è il rischio che si faccia strada l'attrazione per alcuni tipi di sistemi non adatti alla nostra Storia, ai nostri valori, al nostro vivere. Dobbiamo parlare con tutti ma anche rimanere fedeli alle nostre alleanze, al campo europeo e atlantico. Nel post-coronavirus bisognerà fare molta attenzione a come si creano nuovi equilibri internazionali. Il dialogo economico è tutt'altra cosa: chi ha più aiutato Milano in questa crisi è sicuramente la Cina».

Maurizio Molinari – La Stampa – 30 marzo 2020

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