Eurobond, si allarga il fronte. In quattordici contro Merkel

Si allarga il fronte in favore degli Eurobond. Ai nove della lettera guidati da Giuseppe Conte, Emmanuel Macron e Pedro Sanchez, si aggiungeranno nelle prossime ore altri cinque Paesi: i tre baltici, la Slovacchia e Cipro. Diventeranno così quattordici i leader che si oppongono ad Angela Merkel e Mark Rutte. Un accerchiamento, in questa corsa contro il tempo per salvare la moneta unica. E d’altra parte, dopo il fallimento del vertice di giovedì notte, al termine del quale i capi di governo si sono lasciati alle spalle macerie, servirà un negoziato ancora più duro. Senza un finale già scritto. Tanto che in queste ore inizia a circolare anche l’impensabile, quello che tutti vorrebbero evitare, ma che potrebbero diventare l’arma negoziale per far crollare la diga eretta tra Berlino e L’Aia: l’emissione di Eurobond a quattordici, senza gli ortodossi del Nord. La definitiva spaccatura dell’Unione.

Sono frenetici i contatti tra le Cancellerie dell’eurozona. E l’asse dei quattordici considera vitale lo strumento degli Eurobond, l’unico giudicato in grado di mobilitare almeno mille miliardi di liquidità e rispondere alla crisi da Covid-19. Uno scenario da incubo, che giovedì Christine Lagarde ha tradotto in numeri a beneficio dei leader. Secondo la presidente della Bce, racconta chi ha assistito al vertice, una pandemia fino all’autunno farebbe sprofondare la zona euro in una recessione del 10%.

Un quadro talmente drammatico che ha spinto ieri cinque nuovi Paesi a mostrarsi informalmente pronti ad aderire al gruppo degli Eurobond. Manifestazioni di interesse gradite, visto che Lituania, Lettonia, Estonia e Slovacchia sono da sempre schierate con i super rigoristi di Angela Merkel.Contatti anche con Malta. Il clima è ormai così aspro che il premier socialista portoghese Antonio Costa si è spinto a definire «ripugnante» la proposta del ministro olandese Wopke Hoekstra di aprire un’indagine contro i paesi del Sud, accusati di non avere risparmiato in tempi di vacche grasse.

L’ex premier e presidente della Commissione Ue Romano Prodi definisce il summit di giovedì notte «terribile ». E chiede gli Eurobond: «Se non c’è solidarietà adesso, che Europa è?». Un concetto che Giuseppe Conte rende ancora più esplicito in i queste ore: «Se non troviamo una soluzione, rischia di chiudere l’Europa ». Quasi profetico. Basta ascoltare l’attacco frontale di Matteo Salvini, pronto a cavalcare la crisi in chiave sovranista: «Questa Unione è una schifezza, andate a cagare».

Ma quali sono le prossime tappe? L’altra sera i leader hanno dato mandato all’Eurogruppo di avanzare proposte entro due settimane. Già ora però appare quasi impossibile che i ministri delle Finanze, spaccati tra falchi e colombe, possano trovare un accordo sugli Eurobond. Le aspettative politiche si concentrano invece sul Piano di rilancio dell’economia che leader hanno affidato a Charles Michel e Ursula von der Leyen, presidenti di Consiglio e Commissione. Che, su richiesta di Conte e Sanchez, saranno affiancati da Lagarde, Centeno e Sassoli.

Ma il rischio è che i tempi di lavoro di questo format si allunghino ancora. Ecco perché si cerca di allargare il fronte, che da ieri conta anche il capo della banca centrale olandese, Klaas Knot: «I Coronabond – dice sono una strada, la politica monetaria non può fare tutto da sola». Non è il solo a ritenere che lasciare il peso della crisi esclusivamente sulle spalle di Francoforte possa indebolire la Bce. Lo pensano i quattordici, pronti a minacciare di andare avanti da soli con bond condivisi, contando sul fatto che la Bce dovrebbe comprarli per evitare un crack dell’euro. Nascerebbe la temuta Europa a due velocità. Per questo, al momento si tratta soprattutto di una minaccia che punta a convincere Merkel a un’emissione di Eurobond una tantum, gestito dallo stesso fondo salva-Stati (Mes) o dalla Banca europea degli investimenti.

Tommaso Ciriaco e Alberto D’Argenio - la Repubblica – 28 marzo 2020

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Reinventare le regole economiche

Mentre il coronavirus sta diffondendosi in tutti i Paesi del mondo, i sui effetti sull'economia, sull'occupazione e sui mercati stanno mettendo sotto enorme pressione la politica economica. È chiaro a tutti, infatti che, senza un forte sostegno della domanda e senza una riorganizzazione dei nostri modi di produrre, la crisi sanitaria può generare una profonda recessione con effetti politici e sociali facilmente prevedibili. È chiaro altresì che la politica economica tradizionale mal si presta a questo nuovo compito.
La politica economica occidentale, negli ultimi vent'anni, si è retta su tre pilastri: la globalizzazione dei commerci, del lavoro e della finanza; una politica fiscale rigorosa con conseguente repressione della domanda interna; e da ultimo una politica monetaria ultra espansiva. Questa politica ha accompagnato un lungo periodo di espansione, con notevoli squilibri, vinti e vincitori. In Asia quasi un miliardo di persone è uscito dalla povertà, trasformando quei Paesi nella manifattura del mondo con un notevolissimo surplus commerciale. Negli Stati Uniti, per converso, si è consumato troppo rispetto alle risorse prodotte e l'espansione si è accompagnata a diseguaglianze e disoccupazione. In Europa sono mancati investimenti e crescita, nel tentativo di esportare a tutta l'Unione il modello di crescita tedesco fondato su contenimento della domanda interna per spingere al massimo le esportazioni.
La crisi finanziaria dal 2008 ha mostrato la fragilità di quel modello e ha portato i Paesi occidentali ai populismi, affermatisi in tutti i Paesi dopo il 2016. Gli elettori si sono infatti ribellati alle diseguaglianze e ai vincoli imposti dalla globalizzazione sulla loro sovranità. Le pulsioni neo-protezioniste e la crisi del multilateralismo sono la prima manifestazione di questa reazione.
Il coronavirus, sommato alle tensioni che ho ricordato, è destinato a sovvertire la politica economica. Dal lato dell'offerta mostra impietosamente la fragilità di filiere produttive "senza spazio e senza tempo". Dal lato della domanda richiede un sostegno forte ai consumi e agli investimenti, pubblici e privati. È opportuno dunque che la politica economica agevoli nuovi modelli produttivi dal lato dell'offerta, e torni a fondarsi sulla politica fiscale, appannaggio e riserva dei parlamenti.
Questi cambiamenti sono urgenti e si stanno affermando passo dopo passo sotto i colpi della crisi. Già vediamo la possibile sospensione del Patto di Stabilità e il rilassamento della disciplina sugli aiuti di Stato nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen. In parallelo si veda il pacchetto di stimolo tedesco, di 500 miliardi, annunciato ieri dal ministro delle finanze tedesco Scholz. Si inizia a cambiare in questo modo due architravi ultra trentennali della politica europea, a dimostrazione che problemi straordinari richiedono misure straordinarie. In questa fase infatti è opinione comune che nessuna azienda deve fallire e nessun occupato perdere il posto di lavoro. 

Ma anche quando l'epidemia sarà messa sotto controllo, questi cambiamenti sono destinati a lasciare un' impronta permanente. Per questo, e per favorire la transizione ordinata verso un nuovo modello di politica economica, tutto dovrebbe trovare, nei tempi dovuti, sistemazione e coordinamento in un nuovo accordo internazionale come quello di Bretton Woods. Le regole di oggi, e più in generale il modello di politica economica, sono figli di un mondo finito, e che ha in parte fallito alla fine di un lungo ciclo positivo. Nel mondo nuovo, con nuove tecnologie, nuovi rischi e nuovi modi di lavorare, serve un cambio di paradigma che emergerà, auspico, a livello mondiale. Si tratta insomma di reinventare Bretton Woods per affrontare in modo efficace le sfide del presente e del futuro e per dare l'avvio a un nuovo periodo di sviluppo. 

Domenico Siniscalco – La Stampa – 14 marzo 2020

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La Bce deve cambiare registro, subito

  • Pubblicato in Esteri

Christine  Lagarde, laureata in giurisprudenza, avvocato, donna d’affari, ministro dell’economia in Francia, direttore generale del Fondo monetario internazionale e ora presidente della Banca centrale europea. Non si può dire che Christine Lagarde non abbia fatto carriera. La sua nomina ai vertici dell’Eurotower, ratificata al termine di una lunga trattativa tra i capi di Stato e di governo dell’Unione europea insieme a quella di Ursula von der Leyen alla Commissione, Charles Michel al Consiglio e Joseph Borrell come Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, è senza dubbio la più importante. E al tempo stesso la più delicata, dato il ruolo che l’Eurotower ha nel mantenimento della stabilità dei prezzi in Europa e soprattutto nel sostegno dato agli Stati membri più in difficoltà nel rifinanziamento dei propri debiti, in primis l’Italia. Un percorso, il suo, certo non privo di ombre. Il commentio di Roberto Vivaldelli su il Giornale.

Bce, Lagarde, l'esordio flop

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