Gli infingardi di Bruxelles

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Secondo indiscrezioni, gli uffici del nostro ministero degli Esteri stanno preparando un corposo dossier sui paradisi fiscali che prosperano da anni indisturbati all’interno dell’Unione europea. L’idea sarebbe quella di gettare gli sconcertanti risultati di questa indagine sul tavolo dei negoziati in corso a Bruxelles sulla crisi innescata dalla pandemia in corso. È evidente che nel mirino dell’iniziativa c’è soprattutto un Paese: l’Olanda. Il cui governo, da settimane, sta riservando una particolare, specifica e puntuale opposizione a ogni proposta che venga dall’Italia. Ma sarebbe bene che la mossa della Farnesina non si esaurisse in una sorta di derby fra Roma e L’Aia. Il tema del “dumping fiscale” interno all’Unione è questione troppo seria e grave perché la si riduca a un gioco a due. Intanto per la rilevanza economica delle pratiche scorrette in materia, che sono tali da costituire una mina a tempo assai insidiosa per la sopravvivenza stessa della moneta unica. Analisi parziali e incomplete già stimano in non meno di dieci miliardi di dollari il gettito annuo sottratto dai Paesi Bassi al fisco degli altri soci dell’euro e solo per quanto riguarda le imposte delle multinazionali americane. Mancano cifre attendibili sugli abusi tributari delle grandi aziende interne alla Ue. È scontato che, se colmeranno questa lacuna, gli studi in corso alla Farnesina faranno emergere cifre ben più sbalorditive. C’è poi, non meno rilevante, il risvolto politico. L’iniziativa può finalmente strappare la finta maschera da europeista dietro la quale si celano i sovranisti della peggior specie: gli infingardi. Quelli che dicono di inorridire alle sparate nazionaliste delle Le Pen e dei Salvini e predicano la religione della leale competizione sul libero mercato, ma poi ricorrono ai più subdoli espedienti per attirare capitali in casa propria alle spalle degli altri soci dell’Unione. Si deve sperare che il nostro governo abbia ben chiaro che, quando si pone sul tavolo europeo il nodo dei paradisi fiscali interni, non si può poi fermarsi se la mossa magari produce un’improvvisa benevolenza degli interlocutori sulle richieste finanziarie italiane. Quello del “fiscal dumping” è un punto così importante per il consolidamento della moneta unica da non poter essere considerato possibile merce di scambio con qualche concessione su altri capitoli. E non solo per evidenti ragioni economiche, ma anche per i sottintesi riflessi politici. Si tratta di far saltare quel patto occulto di potere che lega alcuni Paesi del Nord e dell’Est alla Germania in una sorta di omertosa alleanza a reciproca protezione di abusi incompatibili con le regole fondamentali dell’Unione. Sarebbe davvero una preziosa novità che un Paese come l’Italia entrasse in guerra aperta contro questo blocco d’interessi che tiene in ostaggio l’Europa intera. Ma occorre che a Roma siano consapevoli di imbarcarsi in una lotta di lunga lena. Perché non poche, a ben vedere, sono le doppiezze politiche da sradicare. Una l’ha appena richiamata, certo senza volerlo, la stessa presidente della Commissione. Interpellata sull’ennesimo decreto illiberale di Viktor Orbán ha risposto che Bruxelles è pronta a censurare la deriva autoritaria di Budapest «se» questa sarà accertata. Ma come «se»? Sono anni che il viktatore ungherese fa strame di diritti e Frau Ursula non vede e non sente? La sua risposta, da fedele portavoce del vasto complesso industriale tedesco che in terra magiara lucra su bassi salari e tasse minime, fa chiaramente intendere quanto dura s’annuncia la lotta per liberare l’Europa dai falsi europeisti.

Massimo Riva – la Repubblica – 14 aprile 2020

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Germania ingrata. Ci restituisca il debito di guerra

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Una cosa è vedere il sentiero giusto, un’altra è imboccarlo. Finalmente una presa di posizione forte e coesa nel Paese a favore di quell’auspicata tempestiva operazione finanziaria europea che determini immediatamente l’immissione di liquidità di cui abbiamo bisogno. Si è raggiunta nel Paese la lungamente attesa consapevolezza che la catastrofe consente di derogare alla regola dei pareggi di bilancio. Il volo di Mario Draghi sul Financial Times, destinato a entrare nella storia europea, ha rotto gli argini di quella resistenza burocratica interna che rigidamente ci frenava ogni proposta. La sponda pronta e immediata dei migliori e più quotati economisti internazionali ha chiarito che in tempi di catastrofe, come quella che sta vivendo, l’Europa deve potersi muovere senza limiti. Silvio Berlusconi, con Antonio Tajani, da più di due settimane sprona il governo in tal senso, spingendo e insistendo con suggerimenti generosi, senza facili opportunismi politici. Occorre subito un progetto nazionale ed europeo per dare ossigeno a chi ne ha bisogno. Il presidente Mattarella invoca il dovere dell’Unione europea di aiutare chi non ce la fa. E in questo momento unico Papa Francesco da Piazza San Pietro innalza una preghiera dando forza alla solidarietà umana nella fede dell’indulgenza plenaria. Dunque Unione adesso o mai più. Se sul fronte europeo si profila un nuovo prezioso “assetto mediterraneo” che potrebbe dare in futuro nuovi interessanti sviluppi geopolitici, tuttavia le resistenze sono forti, con le ingenerose Germania e Olanda che oppongono i loro altolà. Non sono certo sviste o distrazioni le risposte di Lagarde e Von der Leyen. Abbandoniamo allora la generosità e invochiamo la gratitudine. Esiste una regola comune che va anche al di là della tecnica del diritto dei singoli Paesi Membri e risiede nella più ampia sfera giuridica dei rapporti che fondano l’Ue: la gratitudine. La gratitudine e' un valore, anche misurabile. Una donazione può addirittura essere sempre revocabile per ingratitudine, anche quando il donatario manifesti un sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastante con il senso di riconoscenza e di solidarietà che, secondo il comune sentire, dovrebbe invece improntarne l’atteggiamento. Un gruppo di Paesi dell’Unione europea ipotizza un prestito dell’Ue stessa: non contribuire perché non si ha stima nelle loro qualità restitutorie è ingratitudine. Non si chiede che la Germania restituisca qualcosa ma soltanto che contribuisca a costruire con gli altri Paesi europei, tutti insieme, un nuovo debito collettivo, di cui rispondere tutti insieme, partecipando con nuova fiducia globale per un avvenimento nuovo.

INVESTIMENTO SUL FUTURO

Si tratta di un investimento per il futuro: una partecipazione a un futuro debito. È storia. E se risaliamo al famoso debito di guerra tedesco dopo il 1945 apprendiamo che aveva raggiunto i 23 miliardi di dollari (di allora) pari al 100% del Pil tedesco. La Germania non poteva pagare i debiti accumulati in due guerre da essa stessa provocate. La Russia pretese e ottenne il pagamento dei danni di guerra fino all’ultimo centesimo mentre l’Italia, insieme ad altri Paesi europei rinunciò a più di metà della somma dovuta da Berlino. C’è un algoritmo per tutto, anche que"lo che calcola la gratitudine in caso di donazione. Va spiegato alla Germania che l’avere rimesso un debito costituisce una donazione e che il trattato firmato a Londra fu una erogazione che le consentì di dimezzare il proprio debito di guerra del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari, dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania poté evitare il proprio default. I Paesi che acconsentirono di non esigere il dovuto possono (devono) dunque ora invocare gratitudine per i popoli e la storia che essi rappresentano. Senza la donazione dell’accordo di Londra, la Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per 50 anni. Ora dunque la Germania deve esprimere quella gratitudine che non è solo gesto magnanimo, ma dovere. E non le si chiede di restituire qualcosa, si badi, ma di partecipare semplicemente a un investimento collettivo. Lo shock da coronavirus richiede un’importante risposta europea il cui costo dovrà essere distribuito su più generazioni. Si può ora costruire tutti insieme in Europa un nuovo debito collettivo, di cui rispondere tutti dopo un lungo, lunghissimo, periodo di tempo, partecipando con nuova fiducia globale per un avvenimento nuovo. In conclusione, si tratta di un investimento per il futuro: una partecipazione a un futuro debito. Bisogna agire subito. Lo si potrebbe anche fare attraverso bond perpetui o a lunghissima scadenza garantiti dalla Bce, Germania permettendo.

Cristina Rossello – Libero – 30 marzo 2020

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Dalla Bce un aiuto da 220 miliardi all'Italia

Ecco perché non c'è soluzione fuori dall'Ue. È difficile non reagire emotivamente di fronte alla difficoltà del Consiglio Europeo ad accordarsi giovedì scorso sulla risposta alla crisi del coronavirus. La frase critica del comunicato stampa («A questo punto, invitiamo l'Eurogruppo a presentarci proposte entro due settimane») è in stridente contrasto con l'urgenza della situazione. Comprensibile allora la tentazione, espressa sembra anche ai nostri più alti livelli, di rispondere con un «se questa è la solidarietà europea, allora facciamo da soli». È difficile non reagire emotivamente, ma sarebbe sbagliato farlo. Stiamo ai fatti, riassumibili in cinque punti.
Primo, come ha sottolineato Mario Draghi, l'Italia e gli altri Paesi stanno combattendo una guerra e una guerra richiede un forte aumento del debito pubblico. La perdita di Pil dovuta alle chiusure è inevitabile (il Pil, il prodotto interno lordo, si chiama così perché qualcuno deve produrlo), ma occorre evitare che le chiusure temporanee causino effetti permanenti. Insomma, occorre assicurare che, una volta superata l'emergenza sanitaria (che richiede di per sé risorse adeguate), le imprese possano tornare a produrre e investire e le famiglie a consumare. Per questo serve una politica fiscale eccezionalmente espansiva.
Secondo, dovrebbe essere a tutti evidente che l'Italia non può farcela da sola. Quello che può frenare l'azione italiana non sono le regole europee sui conti pubblici, che fra l'altro sono state sospese. Come sempre è avvenuto, quello che frena il nostro deficit è la difficoltà che abbiamo a prendere a prestito. Insomma, non basta dire «bisogna fare più deficit»: serve qualcuno che ci presti i soldi. Abbiamo difficoltà a indebitarci perché ci siamo indebitati troppo in passato. Ma non è questo il tempo di recriminare. Fatto sta che quando si è capito che il nostro deficit avrebbe cominciato a crescere, i tassi di interesse sul nostro debito si sono impennati, entrando in un territorio pericoloso. Certo, ha contribuito inizialmente l'impressione data dai vertici della Bce che questa non sarebbe intervenuta per impedire un aumento dello spread (impressione peraltro poi smentita dai fatti). Ma questo dimostra, appunto, che non possiamo farcela da soli. Dobbiamo contare sull'aiuto di altri.
Terzo, l'aiuto non potrà venire al di fuori dell'Europa, né con l'uscita dall'Europa. Tutte le aree del mondo sono colpite dalla pandemia e pensano, prima di tutto, ai propri interessi. Le massicce risorse finanziarie di cui abbiamo bisogno non arriveranno certo né dalla Cina, né dalla Russia, né da altre parti del mondo. C'è allora già qualcuno che invoca l'uscita dall'euro. Se l'Europa non ci aiuta, tanto vale andarsene. Che dire? Mi sembra questo il modo migliore per scatenare una bella crisi finanziaria nel momento peggiore. Non credo serva aggiungere altro: sarebbe anzi meglio evitare frasi e toni che possano suggerire che ci si intenda muovere in questa direzione.
Quarto, la risposta dell'Europa alla presente crisi dovrebbe includere l'emissione di titoli da parte di una istituzione europea, i famosi eurobond. Questi eurobond sarebbero ben diversi da quelli di cui si parlava una decina di anni fa. Quelli erano titoli per mutualizzare il debito dei singoli Stati (accumulato magari per effetto di politiche dissennate). Questi nuovi eurobond sarebbero titoli emessi per finanziare e, magari, gestire, nuove spese da parte delle istituzioni europee, per esempio sussidi di disoccupazione europei o progetti infrastrutturali, in presenza di un grave choc comune. Ma su questo non si è trovato un accordo al Consiglio Europeo. I Paesi nordeuropei non hanno bisogno di eurobond. I loro conti sono a posto e possono prendere a prestito dai mercati finanziari tutto quello che a loro serve. E forse temono che questo primo passo porti poi anche alla mutualizzazione del debito passato. Sarà importante riassicurali che questa non è l'intenzione ma non sarà facile. I Paesi nordeuropei si oppongono anche al coinvolgimento del Mes, il Fondo salva-Stati, a meno che, secondo le attuali regole, non si prevedano condizioni sulle politiche economiche dei Paesi coinvolti. L'Italia si oppone invece a qualunque tipo di condizionalità, anche puramente formale o quasi. Fatto sta che in queste due aree (eurobond e Mes) ci si può muovere solo in presenza di una comunanza di intenti che ora sembra mancare. E la Commissione europea, in assenza di tale comunanza e con un bilancio di dimensioni minime (l'1 per cento del Pil europeo), ha le mani legate. Inutile prendersela con l'istituzione guidata da Ursula Von der Leyen.
Quinto, se gli interventi attraverso eurobond e altre iniziative sembrano al momento difficili, non possiamo scordarci di quello che sta facendo la Banca Centrale Europea. La Bce ci sta finanziando in modo massiccio. Si tratta di almeno 220 miliardi (oltre il 12 per cento del Pil) di acquisti di titoli di Stato italiani da qui alla fine dell'anno, realizzati attraverso i programmi di «quantitative easing». Chi denuncia l'inazione dell'Europa dovrebbe ricordarsi che senza la Bce saremmo probabilmente nel mezzo di una pesantissima crisi finanziaria e lo Stato non avrebbe risorse per muoversi. La Bce ha anche dato la propria disponibilità ad aumentare ulteriormente questi acquisti e ha, di recente, rimosso alcuni impedimenti tecnici che ne avrebbero limitato la flessibilità. Possiamo sperare che la Bce mantenga questo approccio costruttivo? Un punto è, in proposito, critico. Mentre l'emissione di eurobond, o l'attivazione del Mes senza condizionalità, richiede l'unanimità dei Paesi dell'area euro, le decisioni della Bce vengono prese a maggioranza e si può pensare che, come avvenuto in passato, l'alleanza tra Italia, Francia, Spagna e altri Paesi continui a mettere in minoranza il Nordeuropa. Cerchiamo quindi di essere concreti e muoviamoci insieme a chi la pensa come noi, in primis Francia e Spagna, evitando inutili polemiche verso un'Europa di cui non possiamo fare a meno.

Carlo Cottarelli - La Stampa - 28 marzo 2020

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