Giotto e il Novecento

  • Pubblicato in Cultura

Mentre camminiamo circondati da cieli stellati intrisi di un blu che ricordano una distesa marina, uguali nella loro luminosità  ad una coperta di lapislazzuli  di un celeste emisfero  a cui  il nostro Io si volge alla ricerca di spiritualità, caduti quasi dentro uno scrigno  di antiche storie sacre, entriamo virtualmente nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il magnifico capolavoro del maestro Giotto. Una videoproiezione, realizzata partendo dalle immagini ad altissima risoluzione dell’Università di Padova ci  permette di ammirare il famosissimo ciclo di affreschi del Trecento, dichiarato patrimonio mondiale Unesco. Inizia così la visita all’esposizione Giotto e il Novecento al Mart di Rovereto, apertasi in questi giorni e che sarà visibile fino  19 marzo 2023 per raccontare come la lezione giottesca abbia ispirato  e plasmato l’arte del secolo da poco trascorso.

Giotto a  fine Duecento seppe introdurre nella pittura quella veridicità e drammaticità che si allontanava dalla ieraticità bizantina restituendoci così la concreta e reale presenza dell’uomo. Emblematico a questo proposito Il Compianto su Cristo morto della Cappella degli Scrovegni. Sentimenti e atteggiamenti assieme agli oggetti del quotidiano e alle architetture illustrano un mondo  che diventa ora il luogo dell’umano, mentre nello stesso tempo si compie il processo di aggiornamento dell’arte pittorica che in scultura era già avvenuto da alcuni decenni, grazie allo studio dell’antichità classica. La mostra che celebra i primi vent’anni del Polo culturale di Rovereto, inaugurato il 15 dicembre 2002, comprende 200 opere di cui una cinquantina provenienti dal suo patrimonio museale ed evidenzia la grande lezione dell’artista toscano su artisti moderni e contemporanei: da Carlo Carrà a James Turrell, passando per Sironi, Martini, Fontana, Matisse, Klein e Rothko.

L’attenzione ai valori plastici di Giotto come avviene per Carlo Carrà o a quelli del colore come è più evidente, ad esempio, in Rothko e Klein, si coniuga al bisogno dell’artista del ‘900 di ritrovare un’essenzialità di forme e una purezza di colori che diventino un alfabeto originario, capace di tradurre ed esprimere valori che contengano e catturino il poetico e l’arcano che ci circonda. Spiega nel catalogo pubblicato da Sagep Edizioni, Alessandra Tiddia, la curatrice della mostra, restituendo anche il pensiero e il sentire di quegli artisti: In un clima ancora futurista e avanguardista, nel 1916, Carlo Carrà pubblica sulle pagine della rivista “La Voce” un testo inatteso, la Parlata su Giotto, aprendo la sua ricerca allo studio di questo artista … La pittura di “quel massiccio visionario trecentista” è dunque nuovamente rivelazione per Carlo Carrà che fin dal 1916 ne scrive in questi termini: “E ti avvedrai che quella pittura tuttavia rimane cosa pregevole e molto spirituale.E uscendo da quegli ambienti (la cappella degli Scrovegni) per le vie, sentirai la viva attrazione a quel silenzio sereno e ben composto. E non soltanto per qualche giorno, ma per molto tempo ti sentirai portato ad accarezzare, come t’avvenne di palpare quella saporosa forma, tutte le forme vive delle cose che ti circondano. E del cielo e della campagna, che come il cielo cangia i colori, scruterai coll’occhio le formazioni e il mutarsi, provandone nell’animo grandissimo diletto. Tutta la realtà ti apparirà vergine e pura, come fosse tua figlia appena creata”.

Queste parole concentrano, traendo spunto dalla poetica giottesca, il desiderio di cogliere un’armonia, una musicalità di linee che si accordano con intrinseca naturalezza al reale per consegnare allo spettatore uno stupore  che della mimesi si serve ma non la considera un fine.  Ancora le parole del fauve Matisse dopo le visite patavine nel 1901, 1931 e 1936 sono significative per aiutarci a comprendere il valore del mondo figurativo giottesco. “Quando vedo gli affreschi di Giotto a Padova non mi preoccupo di sapere quale scena della vita di Cristo ho sotto gli occhi, ma percepisco immediatamente il sentimento che ne emerge, perché è nelle linee, nella composizione, nel colore”. In modi differenti tutti gli artisti in mostra possono collegarsi a pittore toscano.  Le monumentali figure dipinte da Sironi  come Il pastore del  1932,  sono eredi del senso del volume che contraddistingue gli affreschi di Giotto a Padova e a Firenze e la semplificazione di sapore arcaico delle sculture di Martini si ricongiunge alla grande tradizione italica che dagli etruschi arriva fino all’età di Giotto. La pittura murale di epoca fascista con il suo intento didattico fu mossa dalla volontà di eguagliare la capacità narrativa dei cicli giotteschi. “Le scatole spaziali” degli affreschi nelle cappelle Bardi e Peruzzi della Chiesa di Santa Croce a Firenze  originano le visioni De Chirico che  sono  alla base della Metafisica. Le sue celebri Piazze d’Italia sono luoghi  silenziosi e senza tempo.

Lo stesso spirito  pervade anche le architetture rappresentate nei dipinti di Arturo Nathan, Renato Paresce, Gianfilippo Usellini e Gigiotti Zanini, mentre i paesaggi e le figure di Carlo Bonacina, Pompeo Borra, Edita Broglio, Ubaldo Oppi, Severo Pozzati e Alberto Salietti si caratterizzano per la semplificazione formale. Alla sintesi e alla volumetria della pittura giottesca si ispirano, in particolare, le grandi e massicce figure dipinte da Giuseppe Capogrossi, Albin Egger-Lienz, Italo Mus e Pietro Gaudenzi. Ci sono poi le sacre maternità di Ardengo Soffici e di Pompeo Borra, dove una composizione rigorosa ed essenziale ordina le architetture e gli oggetti. A testimoniare il gradimento  di Giotto nell’imagerie collettiva, in mostra  sarà visibile anche una selezione di materiali storici del marchio italiano Fila che a Giotto ha dedicato diverse linee di prodotti: album da disegno, pastelli e pennarelli prodotti tra gli anni ’30 e ’60, sulle cui confezioni appare il giovane Giotto mentre disegna osservato dal maestro Cimabue. La mostra Giotto e il Novecento, realizzata anche in collaborazione con l’Assessorato alla cultura e ai Musei Civici del Comune di Padova è arricchita da un catalogo che contiene gli studi della curatrice, di Vittorio Sgarbi, presidente del Mart di Rovereto, di Alessandro Del Puppo, di Alessio Monciatti, di Alexander Auf der Heyde, di Daniela Ferrari, di Elena Pontiggia, di Federica Luser, di Sergio Marinelli, di Federica Millozzi, di  Marta Nezzo, di Mauro Pratesi, di Gražina Subelytė, di Nico Stringa, di Peter Assmann, di Sergio Marinelli e di Victoria Noel-Johnson.

 Patrizia Lazzarin, 10 dicembre 2022

Leggi tutto...

I Tartari e Giotto - parte seconda

  • Pubblicato in Esteri
Il Domenicano Ricoldo da Montecroce, inviato a Bagdad in quel tempo occupata dai Mongoli, era ordinato in Santa Maria Novella mentre Giotto vi stava lavorando.  Inoltre, anche la famiglia Bardi che commissionò a Giotto l’omonima Cappella in Santa Croce, commerciava lungo la Via della Seta. La famiglia Bardi introdusse in Firenze molti oggetti orientali tra i quali monete e paiza.  Fu probabilmente tra questi oggetti che Giotto trasse ispirazione per gli affreschi.  Un esempio è fornito dal Crocefisso su cui le grafie sono iscritte attorno a tutto il perimetro.  Interessante ricordare che il famoso Balduccio Pegolotti, autore di diverse mappe asiatiche e grande viaggiatore era al soldo della famiglia Bardi.  Pegolotti è autore di un manuale mercantile: “La Pratica della Mercatura “ - una sorta di Lonely Planet ante litteram - nel quale descrive gli itinerari commerciali attraverso l’impero mongolo e illustra le tecniche commerciali con gli orientali.  Preciso e puntuale indica i funduk dove trovare i cammelli migliori, gli alberghi infestati dalle pulci, i postriboli con corretta misura tra “ qualità e prezzo “, i nomi dei locali giudicati affidabili come guide, ecc ... Molto probabilmente Giotto potè usufruire con facilità dell’ esperienza di Pegolotti.  Nella Cappella de’ Bardi si trovano grafie nel “ San Francesco davanti al Sultano “.   Le grafie sono presenti sugli orli delle vesti di un religioso islamico che fugge la prova del fuoco.  La Cappella de’ Bardi è affrescata da Giotto sul tema delle opere dei Francescani in Mongolia e Cina, allora chiamate Catai. La Cappella degli Scrovegni a Padova : è qui che troviamo la più ricca presenza di caratteri pags-pa.  Nella “ Resurrezione “, Giotto utilizza caratteri somatici mongolici per descrivere i nemici Pagani della cristianità, secondo l’accezione negativa.  Troviamo anche quella positiva quando Giotto utilizza grafie pseudo-mongoliche per decorare le vesti del Cristo e della Vergine, inserite qui come simbolo dell universalità del Cristianesimo.    Va notata la sottigliezza dell’utilizzo da parte di Giotto di un trucco: egli ruotò le grafie di novanta gradi, rendendole illeggibili e incomprensibili a chiunque, non fidandosi di decorare le immagini di due dei soggetti principi della religione cristiana con ideogrammi di cui non era certo di conoscere il significato. Fino al 1300 nel rappresentare scene avvenute in Oriente, ovvero la maggior parte delle scene dipinte all’epoca, i pittori non si erano preoccupati di collocare i personaggi del Vangelo nel vero contesto in cui si era svolta la scena, ignorandone per lo più i costumi e i paesaggi.  Fu Giotto ai primi del ‘300 ad introdurre nei suoi affreschi la rappresentazione realistica e veritiera dei costumi orientali.  Vedi i tipi mongoli nell’ “ Adorazione dei Magi “ ad Assisi che assistono alla scena con in testa i tipici cappelli di feltro bianco con foggia Buriat e i cammelli bactriani alle loro,spalle.  Per la prima, volta dal Basso Medioevo, la pittura rappresenta personaggi dipinti in maniera realistica e lontana dalla tradizione fantastica dei mostri e mirabilia.  Appaiono veri e propri ritratti di stranieri dalle caratteristiche fisiche inconsuete per gli Europei, le cui origini sono fissate ben più a est del mondo islamico.  Queste presenze costituiscono testimonianza fornita dalla pittura che i due mondi si stavano avvicinando. Alla base della iconografia del “ tipo mongolo” c’è sicuramente la drammatica esperienza vissuta dall’Europa nel 1241, anno in cui l’Orda giunse a Neustadt, periferia di Vienna e a Spalato.  Altrettanto importante fu la presenza degli ambasciatori e degli schiavi giunti a Genova e Venezia.       Marco Ciglieri, 29 dicembre 2019  
Leggi tutto...

I Tartari e Giotto - parte prima

  • Pubblicato in Esteri

Tracce di  “occhi a mandorla “ sono riscontrabili negli affreschi, nelle tavole  e pale d’altare, nelle pinacoteche e nelle chiese di Firenze - Roma - Venezia - Padova - Assisi e naturalmente Siena.  Altre tracce si trovano nelle mappe geografiche, nelle stoffe e nelle sete provenienti da corredi tombali o sacri medievali.  I resoconti di viaggio dei vari missionari, anche se spesso iperbolici e molto di parte, contribuirono non poco a creare quella dimensione tra il fantastico e il misterioso che influenzò l’atteggiamento e le conoscenze dell’epoca di Giotto rispetto all’Oriente.  Se pensiamo che Giovanni da Pian del Carpine giunse in Catai via terra,  partendo da Lione, oppure che i Polo circumnavigarono l’Asia meridionale fino a Canton, ci si rende conto che nel 1300 avvenne una scoperta dell’Asia paragonabile a quella di tal Colombo due secoli dopo.   Credo sia corretto notare che, durante il Medioevo, l’orizzonte geografico per gli europei coincideva con quello spirituale della cristianità. Il concetto teologico che ispirava la cartografia del 1200 indicava l’Oriente come sede del Paradiso Terrestre e Gerusalemme, sede del Santo Sepolcro, fissava anche il confine del mondo conosciuto.  È impressionante constatare più che l’imprecisione, la totale fantasia in merito di cosmografia al di fuori del Mediterraneo. Per poter acquisire una corretta chiave di lettura, a mio parere, circa l’opinione che nel Medioevo si aveva dell’Oriente, si tenga presente che esso veniva identificato come la fonte di tutti i beni e i mali del mondo, sì sede del Paradiso Terrestre, ma anche portatore di epidemie, eresie e creatore di mostri.

Prima che Dante nascesse, molti grandi capolavori della letteratura cinese erano già stati scritti e divulgati per mezzo della stampa in tutto il Celeste Impero.  Oggetti e stoffe provenienti dal Catai , tramite il mondo arabo, con i loro decori e motivi iconografici, venivano ripresi e riprodotti senza preoccuparsi del loro significato.  Ad una prima fase di avvicinamento tra i due mondi, in cui prevalse l’elemento fantastico basato su visioni apocalittiche, fece seguito una seconda fase in cui giunsero notizie dirette che fecero mutare il punto di vista degli occidentali; si fini di veder nell’ Oriente mongolico un modello da seguire.  Un esempio noto a tutti è quello dato da Can Grande (Ihk Khaan in mongolo ) della Scala, signore trecentesco di Verona. Si ricordano i suoi paludamenti funebri ispirati alle sete provenienti da Karhoriin.  Quando un artista medievale inseriva una grafia orientale in un dipinto, intendeva trasformarla in simbolo, la grafia mongola era usata spesso per esprimere una connotazione negativa. Altre volte costituiva semplicemente un indizio esotico, una allusione al fatto che la scena avesse luogo nell’Oriente.  Altre volte era usata in contesti che implicavano esoterismo, magia, e ancora, inserita negli orli delle vesti di personaggi importanti, alludeva alla preziosità et rarità delle sete, enfatizzando così l’importanza di chi le indossava.

L’interesse alle grafie orientali nell’arte italiana è abbastanza recente e nasce grazie ai restauri moderni che hanno evidenziato particolari che il tempo e la polvere avevano nascosto.  È stato il giapponese Hidemichi - un orientale che cerca tracce di Oriente nella cultura italica - ad ispirarmi alla ricerca di tracce di Italia nelle steppe mongole.  A lui vanno i primi  e più significativi studi  sull’utilizzo di grafie mongoliche da parte di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova.  Oltre a Padova, Giotto lavora a Firenze,  città che aveva rapporti stretti con l’impero Mongolo; basti pensare ai suoi committenti che erano l’Ordine Francescano oppure la Famiglia Bardi che derivò le sue immense fortune dai commerci di stoffe con il regno di Kubilaj.

Le grafie in questione prendono il nome dal lama tibetano che, su ordine dell’imperatore che fondò la dinastia Yuan, le creò alla fine del XIII secolo: le grafie PHAGS-PA.  La scrittura ufficiale dell’impero mongolo finì su monete, documenti, epigrafi e... soprattutto sui PAIZA, i lasciapassare che permisero ai mercanti di Genova, Venezia e Siena di attraversare le steppe asiatiche, tutelati dal sigillo di  Kubilaj.

Il paiza era costituito da una placca di vari materiali, metalli come argento oppure oro, anche avorio o legni preziosi; la forma ricorda un cellulare avveniristico, con la telecamera al posto del foro per il laccio, quasi sempre rosso o giallo.   Su di esso erano presenti verticalmente tre grafie: a sinistra il phags-pa, al centro l’arabo e a destra  il tibetano oppure il cinese.

  La leggenda narra che se il possessore di uno di questi lasciapassare lo avesse mostrato a un qualunque suddito dell’ eterogeneo et infinito Impero avrebbe ricevuto aiuto in base alla preziosità del metallo che lo costituiva.  Anche un analfabeta poteva così facilmente intuire la misura e la levatura di chi gli stava mostrando il paiza.   In cambio del servizio costui avrebbe ricevuto dai funzionari imperiali tre volte tanto il valore delle merci o dei cavalli che aveva prestato.

Nella Cappella de’Bardi a Firenze, nella Chiesa Superiore di Assisi,  ma soprattutto nella  Cappella Scrovegni a Padova, Giotto ci fornisce la prova di aver avuto tra le mani un lasciapassare mongolo, un Paiza, appunto. 

Marco Ciglieri, 16 dicembre 2019

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .