I troppi dossier mai chiusi

Certo, i dossier che il governo Conte si trova a gestire in questi mesi, sono il risultato di questioni antiche non risolte. Basti pensare all’Ilva di Taranto, nata sotto il controllo delle partecipazioni statali e poi ceduta ai Riva in fase di privatizzazione. Un dossier che fa venire in mente Bagnoli, dove chi prometteva una riconversione ora può mostrare molto poco di quanto promesso. Lo stesso può valere per Alitalia, unica società (forse la prima al mondo) che è stata messa in liquidazione per ben due volte. E in un Paese dove tutti sono bravissimi a individuare soluzioni quando non si trovano a gestire le scelte da fare, è chiaro che dall’esterno tutto appare semplice. Da Palazzo Chigi, chiamato a mediare, lo scenario è molto diverso. Vale per la tragedia del ponte Morandi di Genova, le decisioni che andranno prese sul fronte della concessione delle Autostrade e per la gestione di un possibile ritorno dello Stato-azionista per affrontare le crisi più acute. Ma questa è l’attività di governo, stretta tra la necessità di affrontare emergenze e quella di individuare linee di intervento (una politica industriale).

Si possono prendere tutti i casi di queste settimane, dallo scudo penale, prima concesso e poi cancellato ad Arcelor Mittal, la crisi Whirlpool, Embraco, Pernigotti, la formazione della cordata Alitalia, per vedere come le forze che hanno votato la fiducia a questo governo preferiscano un’altra strada: quella delle dichiarazioni permanenti, possibilmente in contrasto con quelle dei partner avversari.

E dunque lo scudo fiscale, come il tema delle concessioni autostradali, invece di essere una questione da gestire nell’interesse del Paese, diventa un’occasione per conquistare consensi o dimostrare ai propri elettori (o a quelli che si vogliono prendere agli altri) di essere più efficaci. E la formula del disaccordo su tutto diventa un metodo, un labirinto dal quale tutti, a cominciare dal governo fanno fatica a uscire. Potrebbe sembrare utopistico immaginare che l’esecutivo individui una linea comune su queste questioni, ma a giudicare dai (pochi) risultati ottenuti, è l’unica strada. Se guardiamo ai dossier non possiamo non osservare che nessuno (ma proprio nessuno) sia stato chiuso, definito. Sono tutti diventati dibattiti inconcludenti dove dietro le questioni di principio ci si dimentica che in Ilva ci sono 10.700 persone, che il Paese ha bisogno di una campagna di controlli sulla sicurezza dei ponti, impossibile con pochi funzionari al ministero delle Infrastrutture, che l’Alitalia continua a perdere centinaia di migliaia di euro al giorno. Che con la Brexit qualche riflessione sulla Borsa Italiana va fatta in fretta.

C’è un fattore troppo sottovalutato: il tempo. Dicono i negoziatori che quando i conflitti si consumano sul lato dell’essere, dei principi sbandierati ma non sempre resi concreti, è più difficile trovare un compromesso, mentre se il conflitto si negozia sul lato dell’avere (chi deve fare che cosa, lo Stato o i privati, chi deve pagare i lavori del ponte Morandi), le soluzioni diventano possibili. La ricerca del compromesso, parola vista con grande sfavore dagli agitatori della piazza, è invece l’unica strada di senso per la ricerca vera dell’interesse comune e pubblico. A patto che si voglia trovare.

Nicola Saldutti – Corriere della Sera – 29 novembre 2019

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