di Antonello Catani
L’analogia di atteggiamento fra Shakespeare, Boccaccio e Dante suggerisce dunque come la ritrosia descrittiva nei confronti del corpo e dell’erotismo non sia un appannaggio esclusivo del Medioevo o attribuibile solo a dei vezzi manieristici. In realtà, tale atteggiamento ha radici profonde e pare essere una costante destinata a perdurare, più o meno inalterata fino ai nostri giorni, in tutta una serie di opere assai diverse fra loro. La rassegna sarebbe inesauribile, e quindi qui citeremo solo alcuni esempi a caso, concentrandoci in particolare sul periodo posteriore alla fine del XVIII secolo.
Iniziamo con Le affinità elettive di Goethe. Come già accennato in precedenza, esse contengono un episodio di per sé assai erotico ma anche morboso: marito e moglie hanno una notte di piacere, ognuno illudendosi di giacere con un’altra persona da essi amata. Dati i tempi e dato il manierismo dell’autore, la situazione è imprevedibilmente scabrosa e potremmo a questo punto immaginare che la sua rappresentazione sfoci in una qualche audacia descrittiva. Invece non é così. Dopo aver appreso che Edoardo si stringe al petto il piede di Carlotta, la narrazione procede con una doppia censura: tutto accade al buio, e il narratore omette qualsiasi descrizione. Del resto, anche certi contemporanei di Goethe, per molti versi così più audaci e privi di remore, come Kleist e Novalis, non gli sono da meno.
Ne La Marchesa di O*** di Kleist, per esempio, nonostante tutta la novella sia imperniata su un amplesso – che si sa essere stato consumato, vista la gravidanza di Giulietta – in realtà, solo alla fine noi veniamo a scoprire con chi esso è stato consumato, ma l’amplesso in questione non è descritto.
Remore analoghe le ritroviamo anche in Novalis che, assieme all’acceso misticismo degli Inni alla notte, sapeva altrove esprimere un’inattesa sensualità. In quell’incantevole romanzo che è l’Enrico di Ofterdingen, infatti, leggiamo della bella figlia di Arturo che, standosene nuda e mollemente reclinata su dei cuscini di seta, lascia avvicinare a sé un cavaliere e appoggia la mano di costui al proprio petto: lo scenario sarebbe piaciuto a Pierre Louys, mentre il preziosismo e il languore della descrizione paiono anticipare un pittore come Gustave Moreau. Ma la rappresentazione erotica si ferma qui, ogni ulteriore passo in avanti è sostituito dalle metafore immancabili di questo genere di situazioni. Così, dopo un indubbio amplesso col padre del fanciullo Eros, la nutrice Ginnistan esce dalla stanza, con le “guance ardenti”, ma nulla di più. Quando poi i suoi ardori si riversano sul fanciullo, tramutatosi magicamente in un giovane assai seducente, nuovamente è la metafora a sostituire la descrizione vera e propria:
“… le ore che ho passato fra le sue braccia [di Eros] mi hanno fatta immortale.
Sotto le sue ardenti carezze ho creduto struggermi. Come un celeste
masnadiero egli pareva volesse ferocemente sterminarmi, e sulla sua vittima
palpitate trionfare superbo.”12
12 Novalis, Enrico di Ofterdingen (tr. T. Landolfi). Milano, 1997, pp.125-140.
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