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Racconti

Il vino di Luca. 11

di Antonello Catani

     Fino a questo momento ci siamo trattenuti dal menzionare, quasi attendendo, per farlo scorrere come si deve, che l’animale allo spiedo sia appropriatamente dorato e cotto e che i commensali si siedano – cosa che quindi ci riporta indietro ai momenti più solenni di tali incontri – avevamo taciuto, cioè, su qualcosa che invariabilmente, oltre che bagnare la gola rinsecchita dal calore del fuoco e accompagnare i bocconi di carne, aveva la capacità di liberare gli umori senza deprimerli o appesantirli. In poche parole, non avevamo ancora parlato di quel vino, bevuto di solito a quel tavolo e messo a disposizione sempre dall’anfitrione. Qualcuno penserà che in fin dei conti esso è presente a ogni seria tavolata e che un vino con le caratteristiche sopra descritte non è poi una così gran rarità.

     Anche qui, bisognerà guardarsi dagli stereotipi e rendere all’argomento la giustizia che gli spetta.

     Non essendo nè proclamandoci intenditori di vino, almeno nel senso tecnico del termine, eviteremo di entrare in particolari su cui accusiamo la nostra insufficienza e che comunque avrebbero scarsa rilevanza ai fini della nostra narrazione. Ci accontenteremo dunque nel dire che il vino in questione era di un viola scuro, quasi nero, corposo e leggeremente ruvido al palato e, nonostante certe petulanti e ostinate opinioni in base alle quali un buon vino può essere bevuto solo a temperatura ambiente, a dispetto di esse, quel vino non perdeva nulla del suo gusto anche quando era bevuto freddo. Il suo umore, il suo calore, per così dire, si sprigionavano comunque non appena uno lo beveva. Che esso godesse, con qualsiasi temperatura, della preferenza dei commensali, è comprovato dal fatto che le altre bottiglie di vino portate per l’occasione, imbottigliato o meno, dopo un breve e distratto assaggio erano regolarmente messe in disparte per continuare ormai solo con quello della maison. 

      Ma della maison quel vino non era, perchè Salvatore non ne produceva ma lo comprava, e sempre dallo stesso luogo. Se il luogo non era un mistero – si trattava di un villaggio del circondario – un alone di vaghezza circondava invece il fornitore, di cui si sapeva soltanto il nome: Luca. Ora questo Luca nessuno l’aveva mai visto nè si sapeva chi fosse. Per una singolare coincidenza, neanche ripetute visite al suo villaggio, fatte da Salvatore con qualcuno degli amici allo scopo di aumentare la provvista per l’occasione, avevano permesso di soddisfare la curiosità: sarà stato un caso, ma sta di fatto che, proprio in tali occasioni, Luca non c’era. Che egli non fosse un tantasma era contraddetto dalla prova inoppugnabile rappresentata appunto dal suo vino, che di etereo non aveva nulla. L’invisibilità e inafferrabilità connesse al personaggio acuivano certo la curiosità riguardo alle abilità che il vino da lui prodotto tradiva, anche se a nessuno passava per la mente che queste dovessero essere particolarmente sofisticate. Anzi, poichè l’assenza di mal di testa, anche dopo abbondanti libagioni, suggeriva un’analoga assenza di conservanti, tutto lasciava immaginare che tali tecniche si limitassero molto probabilmente all’immemoriale pigiatura con i piedi, e alla fermentazione del liquido così ottenuto in recipienti che non siamo affatto sicuri che fossero gli attesi tini di legno. 

      Nonostante tutte queste vaghezze e incertezze, una cosa rimaneva certa: il vino, quel vino possedeva un qualcosa di speciale e di raro che ne faceva uno dei più fertili catalizzatori dei loro incontri.

10 giugno 2025

11. Continua

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