Klimt e l’arte italiana

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Le opere esposte raccontano, in parte, sogni che sembrano contenere la veridicità del reale. Sono immagini della primavera, emblema della rinascita: distese coperte di fiori dove si scorgono donne che racchiudono una bellezza preziosa. Sono figure fragili, simili a sinuose ampolle di vetro, immerse  in una vastità di dalie e di rose completamente sbocciate e colorati frutti che permettono di percepire il senso panico della natura. Etimologicamente panico ci riporta a Pan, al dio greco dei boschi, ma anche alla radice πάν che nel greco antico significa tutto.

Le opere  di Galileo Chini, visibili nella mostra che si apre oggi al pubblico, al Mart di Rovereto, esprimono uno dei principali valori della Secessione Viennese, l’associazione  di artisti austriaci e tedeschi che, tra la fine del XIX e del XX secolo inseguì l’idea di una fusione completa delle arti: un’arte totale. Nacque il desiderio di dare nuova forza all’espressione figurativa in grado di catturare attraverso la bellezza del mondo sensibile il senso  della pienezza. La rassegna intitolata KLIMT E L’ARTE ITALIANA  pone in luce le relazioni e le influenze del maggiore esponente della Secessione viennese, Gustav Klimt sull’arte figurativa  italiana di quegli anni. Ammiriamo un mondo che si costruisce con oro, lapislazzuli, mosaici e frammenti preziosi che conosciamo dalla visita delle basiliche ravennati e dei palazzi e delle chiese veneziane, fra cui in particolare San Marco. Il percorso espositivo si sviluppa nella sua ideazione da due delle opere che appartengono al periodo aureo di Klimt: Giuditta II del 1909 e Le tre età della donna del 1905, che egli realizzò dopo aver visto Venezia e Ravenna e aver quindi maturato una differente visione pittorica. Sono opere che appartengono ai musei italiani.

La prima venne acquisita dal Comune di Venezia dopo la Biennale del 1910 per la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, mentre la seconda fu acquistata dal Ministero dell’Istruzione, dopo l’Esposizione Internazionale del 1911 a Roma, per destinarla alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Le parole della curatrice Beatrice Avanzi che leggiamo fra le prime righe del suo intervento nel catalogo della rassegna, edito da SilvanaEditoriale, racchiudono alcune delle principali finalità di questa grande esposizione. La studiosa riprende un’affermazione  del critico Gino Damerini in occasione della presentazione di una sala personale dedicata a Klimt, nella Biennale di Venezia del 1910: L’arte di Gustav Klimt è incantatrice. Parole profetiche, come racconta Avanzi. Klimt ha affascinato un’intera generazione di artisti, determinando un vasto influsso che ha contribuito a delineare una delle pagine più suggestive dell’arte italiana di inizio secolo. Messo in luce dalle più recenti rassegne consacrate al maestro austriaco, questo fenomeno viene qui analizzato per la prima volta nella sua complessità e ricchezza, con esiti talora sorprendenti. Lo stile sontuoso e decadente della Secessione è portatore di nuove suggestioni che, fondendosi con le più riconoscibili caratteristiche della cultura italiana, danno vita ad un linguaggio unico e originale, declinato con accenti differenti da numerosi artisti.

L’idea in origine, dell’esposizione, come ha rivelato la curatrice durante la conferenza stampa, nacque da discussioni con il Presidente della Fondazione Mart di Rovereto, Vittorio Sgarbi, molti anni fa quando lei era direttrice del Museo D’orsay a Parigi. Fra le prime opere che incontriamo in mostra  quelle di Vittorio Zecchin, il pittore, mosaicista e creatore di arazzi e mobili dal segno originale, nato a Murano. Il mondo esotico e favoloso che osserviamo nelle sue opere  incanta il  nostro sguardo  come nel ciclo delLe mille e una notte per cui ricevette il nome di Klimt italiano. Egli ci  proietta in un  ritmo che rammenta le fiabe, dentro una sfilata di ancelle e guerrieri, impreziosita dalle tinte accese. Principesse che sembrano quasi  bizantine, nella loro apparente immobilità, si muovono lente in una cerimonia possiede la ritualità del sacro. 

Fra i molti artisti, quelli  di Ca’ Pesaro: Teodoro Wolf Ferrari, Guido Marussig, Tullio Galbari e anche Felice Casorati. Sono pittori che furono sensibili al Postimpressionimo e alla corrente Nabis, ma che guardarono soprattutto al mondo mitteleuropeo, grazie alla mediazione di Klimt. I loro paesaggi nella finezza della decorazione e nell’essenzialità dei messaggi che concentrano l’armonia delle linee e dei colori, sono poesie di raffinato lirismo. Sull’eco di questa  particolare sensibilità, il quadro La preghiera di Felice Casorati, pervaso  di una toccante spiritualità, coglie altre suggestioni provenienti  dalla figurazione klimtiana. Molte altre saranno le opere pittoriche di Casorati che manifestano la sua ricerca di “sincerità”… che vedremo al Mart.

Le creazioni di Adolf Wildt intrise in parte di decorativismo, ma memori della lezione dei maestri dell’arte gotica, barocca e neoclassica, gli hanno a volte assegnato il titolo di Klimt della scultura. L’imagerie che la rassegna ci permette di conoscere è differente e curiosa. Fra i suoi rappresentanti più autorevoli scopriamo Attilio e Guido Trentini, Luigi Bonazza, Luigi Ratini, Gino Parin, Emma Bonazzi, Mario Reviglione e ancora altri che consegnano spesso un’immagine  a volte estremamente sensuale, altre dissacrante del femminile, espressione di un sentire nuovo che si affaccia alla modernità con differenti strumenti e intenti.

Patrizia Lazzarin, 16 marzo 2023

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Giotto e il Novecento

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Mentre camminiamo circondati da cieli stellati intrisi di un blu che ricordano una distesa marina, uguali nella loro luminosità  ad una coperta di lapislazzuli  di un celeste emisfero  a cui  il nostro Io si volge alla ricerca di spiritualità, caduti quasi dentro uno scrigno  di antiche storie sacre, entriamo virtualmente nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il magnifico capolavoro del maestro Giotto. Una videoproiezione, realizzata partendo dalle immagini ad altissima risoluzione dell’Università di Padova ci  permette di ammirare il famosissimo ciclo di affreschi del Trecento, dichiarato patrimonio mondiale Unesco. Inizia così la visita all’esposizione Giotto e il Novecento al Mart di Rovereto, apertasi in questi giorni e che sarà visibile fino  19 marzo 2023 per raccontare come la lezione giottesca abbia ispirato  e plasmato l’arte del secolo da poco trascorso.

Giotto a  fine Duecento seppe introdurre nella pittura quella veridicità e drammaticità che si allontanava dalla ieraticità bizantina restituendoci così la concreta e reale presenza dell’uomo. Emblematico a questo proposito Il Compianto su Cristo morto della Cappella degli Scrovegni. Sentimenti e atteggiamenti assieme agli oggetti del quotidiano e alle architetture illustrano un mondo  che diventa ora il luogo dell’umano, mentre nello stesso tempo si compie il processo di aggiornamento dell’arte pittorica che in scultura era già avvenuto da alcuni decenni, grazie allo studio dell’antichità classica. La mostra che celebra i primi vent’anni del Polo culturale di Rovereto, inaugurato il 15 dicembre 2002, comprende 200 opere di cui una cinquantina provenienti dal suo patrimonio museale ed evidenzia la grande lezione dell’artista toscano su artisti moderni e contemporanei: da Carlo Carrà a James Turrell, passando per Sironi, Martini, Fontana, Matisse, Klein e Rothko.

L’attenzione ai valori plastici di Giotto come avviene per Carlo Carrà o a quelli del colore come è più evidente, ad esempio, in Rothko e Klein, si coniuga al bisogno dell’artista del ‘900 di ritrovare un’essenzialità di forme e una purezza di colori che diventino un alfabeto originario, capace di tradurre ed esprimere valori che contengano e catturino il poetico e l’arcano che ci circonda. Spiega nel catalogo pubblicato da Sagep Edizioni, Alessandra Tiddia, la curatrice della mostra, restituendo anche il pensiero e il sentire di quegli artisti: In un clima ancora futurista e avanguardista, nel 1916, Carlo Carrà pubblica sulle pagine della rivista “La Voce” un testo inatteso, la Parlata su Giotto, aprendo la sua ricerca allo studio di questo artista … La pittura di “quel massiccio visionario trecentista” è dunque nuovamente rivelazione per Carlo Carrà che fin dal 1916 ne scrive in questi termini: “E ti avvedrai che quella pittura tuttavia rimane cosa pregevole e molto spirituale.E uscendo da quegli ambienti (la cappella degli Scrovegni) per le vie, sentirai la viva attrazione a quel silenzio sereno e ben composto. E non soltanto per qualche giorno, ma per molto tempo ti sentirai portato ad accarezzare, come t’avvenne di palpare quella saporosa forma, tutte le forme vive delle cose che ti circondano. E del cielo e della campagna, che come il cielo cangia i colori, scruterai coll’occhio le formazioni e il mutarsi, provandone nell’animo grandissimo diletto. Tutta la realtà ti apparirà vergine e pura, come fosse tua figlia appena creata”.

Queste parole concentrano, traendo spunto dalla poetica giottesca, il desiderio di cogliere un’armonia, una musicalità di linee che si accordano con intrinseca naturalezza al reale per consegnare allo spettatore uno stupore  che della mimesi si serve ma non la considera un fine.  Ancora le parole del fauve Matisse dopo le visite patavine nel 1901, 1931 e 1936 sono significative per aiutarci a comprendere il valore del mondo figurativo giottesco. “Quando vedo gli affreschi di Giotto a Padova non mi preoccupo di sapere quale scena della vita di Cristo ho sotto gli occhi, ma percepisco immediatamente il sentimento che ne emerge, perché è nelle linee, nella composizione, nel colore”. In modi differenti tutti gli artisti in mostra possono collegarsi a pittore toscano.  Le monumentali figure dipinte da Sironi  come Il pastore del  1932,  sono eredi del senso del volume che contraddistingue gli affreschi di Giotto a Padova e a Firenze e la semplificazione di sapore arcaico delle sculture di Martini si ricongiunge alla grande tradizione italica che dagli etruschi arriva fino all’età di Giotto. La pittura murale di epoca fascista con il suo intento didattico fu mossa dalla volontà di eguagliare la capacità narrativa dei cicli giotteschi. “Le scatole spaziali” degli affreschi nelle cappelle Bardi e Peruzzi della Chiesa di Santa Croce a Firenze  originano le visioni De Chirico che  sono  alla base della Metafisica. Le sue celebri Piazze d’Italia sono luoghi  silenziosi e senza tempo.

Lo stesso spirito  pervade anche le architetture rappresentate nei dipinti di Arturo Nathan, Renato Paresce, Gianfilippo Usellini e Gigiotti Zanini, mentre i paesaggi e le figure di Carlo Bonacina, Pompeo Borra, Edita Broglio, Ubaldo Oppi, Severo Pozzati e Alberto Salietti si caratterizzano per la semplificazione formale. Alla sintesi e alla volumetria della pittura giottesca si ispirano, in particolare, le grandi e massicce figure dipinte da Giuseppe Capogrossi, Albin Egger-Lienz, Italo Mus e Pietro Gaudenzi. Ci sono poi le sacre maternità di Ardengo Soffici e di Pompeo Borra, dove una composizione rigorosa ed essenziale ordina le architetture e gli oggetti. A testimoniare il gradimento  di Giotto nell’imagerie collettiva, in mostra  sarà visibile anche una selezione di materiali storici del marchio italiano Fila che a Giotto ha dedicato diverse linee di prodotti: album da disegno, pastelli e pennarelli prodotti tra gli anni ’30 e ’60, sulle cui confezioni appare il giovane Giotto mentre disegna osservato dal maestro Cimabue. La mostra Giotto e il Novecento, realizzata anche in collaborazione con l’Assessorato alla cultura e ai Musei Civici del Comune di Padova è arricchita da un catalogo che contiene gli studi della curatrice, di Vittorio Sgarbi, presidente del Mart di Rovereto, di Alessandro Del Puppo, di Alessio Monciatti, di Alexander Auf der Heyde, di Daniela Ferrari, di Elena Pontiggia, di Federica Luser, di Sergio Marinelli, di Federica Millozzi, di  Marta Nezzo, di Mauro Pratesi, di Gražina Subelytė, di Nico Stringa, di Peter Assmann, di Sergio Marinelli e di Victoria Noel-Johnson.

 Patrizia Lazzarin, 10 dicembre 2022

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Margherita Sarfatti, una donna celata dalla storia

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Sono aperte ben due mostre al Museo del Novecento, a Milano ed una al Mart di Rovereto, con protagonista Margherita Sarfatti: una donna del suo tempo, un’icona sfaccettata come appare nell’immagine simbolo della mostra che ne riassume la vita e i meriti culturali. La Sarfatti è  stata una figura  che ha disegnato come imprenditrice culturale e critica d’arte  nuovi ruoli  per il genere femminile, proprio quando  si stava delineando un  sistema dell’arte moderno. Margherita  vive in un  momento storico caratterizzato da grandi rivolgimenti sociali e da uno sviluppo economico straordinario. Un’epoca di  cambiamenti potremmo dire epocali come può ben essere evidenziato,  nei quadri degli artisti di quegli anni, dove vediamo come le innovazioni tecnologiche,  dai tram agli aeroplani, trasformino il paesaggio  non solo terrestre, ma anche la vista  del cielo ostacolata  ora anche dalle superfici estese degli edifici industriali, sempre più numerosi. Cambiano le città e i loro colori:  i grigi e i marroni contrastano con il verde degli alberi, soprattutto a Milano dove vive e opera la protagonista delle due nuove mostre che si sono aperte, in questi giorni, al Museo del Novecento, nel capoluogo lombardo e al Mart di  Rovereto. Esse costituiscono un’occasione  per comprendere l’importanza di questa intellettuale, poco nota  in rapporto al ruolo potremmo definire  caleidoscopico svolto come giornalista, critica,  curatrice di mostre d’arte e divulgatrice dell’arte italiana nel mondo.   La sua notorietà  come “l’amante del duce” l’ha condannata alla damnatio memoriae. La mostra nel capoluogo lombardo:  Segni, colori e luci a Milano, curata da Anna Maria Montaldo, Danka Giacon e con la collaborazione di Antonello Negri,  ha il merito di mettere in evidenza attraverso il percorso biografico della Sarfatti l’ambiente culturale dell’epoca e soprattutto  fa conoscere in modo più ampio, grazie ai novanta quadri esposti,  gli artisti del gruppo Novecento di cui  Margherita era  l’anima critica. La giornalista era nata  nel 1880 a Venezia da una ricca famiglia ebrea, i Grassini, e fin da giovane aveva frequentato Antonio Fogazzaro e Guglielmo Marconi, conosceva la regina Elena e il futuro papa Pio X. Segni colori e luci. Note d’arte è il titolo che compare sulla copertina della sua pubblicazione del 1925 in cui si leggono le sue idee sull’arte e le sue predilezioni.  C'è un invito nello scritto  alla sincerità dell’operato dell’artista che sacrifica  per questo l’orpello e ama la solidità delle forme e le costruzioni armoniose.  Sobrietà e rinunzia all’effetto facile dovrebbero essere gli strumenti e gli obiettivi dell’artista: belle le semplificazioni formali che non rinunciano alla monumentalità e alle citazioni classicheggianti.  Appartiene alla Sarfatti questa affermazione: più l’artista è classico e meno incapperà in classicismi. Buona parte delle correnti pittoriche nell’immediato primo dopoguerra si erano allontanate dalle dissacrazioni avanguardiste per un’arte più leggibile attraverso iconografie  tradizionali e forme più chiare. Nella sua abitazione di  Milano, in Corso  Venezia  al civico 93,  la critica d’arte riuniva letterati, come d’Annunzio e Ada Negri, futuristi come Marinetti, Carrà, Russolo e Boccioni e in particolare quei sette  pittori che faranno parte della prima  formazione di Novecento: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi.

Pittori con diverse esperienze: Dudreville, Funi e Sironi avevano sperimentato le tecniche dell’arte futurista, Oppi e Marussig portavano nella loro pittura la ricchezza del mondo mitteleuropeo e il marchigiano Bucci, anche scrittore,  era una personalità complessa ricca di spunti differenti provenienti  dalla relazione con correnti artistiche diverse.  Lo stile  Novecento avrà il suo battesimo ufficiale  a Venezia alla Biennale del 1924 che sarà anche l’occasione per una teorizzazione critica del programma artistico da parte di Margherita Sarfatti. L’esposizione di Rovereto che, come quella di Milano rimarrà aperta dal  21 settembre 2018 al 24 febbraio 2019, è nata su progetto di Daniela Ferrari  a cui hanno collaborato Ilaria Cimonetti e i ricercatori dell’archivio del ’900 del Mart e  pone, in primis, sotto la lente d’osservazione  il   ruolo di Margherita come divulgatrice all’estero dell’arte di Novecento italiano.  Le mostre curate in Francia, Germania, Olanda, Ungheria, Svizzera, Scandinavia, Argentina e Uruguay hanno un eco temporale  nei quadri esposti  ora,  in mostra a Rovereto e che erano stati esibiti allora nelle grandi città europee. La mostra della Biennale del 1924 segna la fine del gruppo di Novecento e apre alle nuove vicende di Novecento italiano che esporrà alla Permanente  e a cui sarà dato ampio risalto nella stampa. E’ significativo l’invito di partecipazione inviato a centottanta artisti per comprendere le dimensioni dell’iniziativa. Sarà proprio questo successo a spingere Margherita Sarfatti e i membri del Direttivo di Novecento Italiano che comprendeva personaggi di spicco del mondo politico e culturale, a progettare una serie di mostre all’estero negli anni dal 1926 al 1932, con la finalità di individuare e consolidare lo stile di questo movimento artistico inteso come quello italiano per eccellenza. Molti critici ed intellettuali a partire da Ojetti   e  da Lino Pesaro, sostenuto quest’ultimo  da Farinacci nelle pagine di Critica Fascista, mireranno però a demolire questo mito. Contrasti  innumerevoli che portano progressivamente ad emarginare la Sarfatti dai ruoli direttivi e di prestigio e culminano con il suo esilio  dopo la promulgazione nel 1938  delle leggi razziali in Italia. La figura di Margherita Sarfatti evoca un’età drammatica della storia d’Italia. Come una falena che ha corteggiato pericolosamente il fuoco, il rapporto con il fascismo e la vicinanza a Benito Mussolini sono state – per usare un suo stesso titolo – la colpa – che però le ha garantito di esercitare i propri talenti  e di rimanere al centro della politica culturale del Paese in un’epoca in cui difficilmente si è potuto distinguere una dimensione dall’altra.  Queste parole di presentazione  al catalogo della mostra del direttore del Mart, Gianfranco Maraniello, sintetizzano in maniera efficace la parabola di questa donna che è stata amica di Anna Kuliscioff, di Ersilia Bronzini, fondatrice de L’Unione Femminile e di Angelica Balabanoff: donne di spicco per i loro meriti sociali e politici nel panorama italiano. E’ stata una madre che  ha perduto il figlio Roberto di diciassette anni nel primo conflitto mondiale. Lo scultore Adolfo Wildt, che aveva ritratto nel marmo il marito Cesare da giovane, fu il disegnatore del monumento funebre di Roberto. Importante è stato per la costruzione della mostra l’acquisto da parte del Mart di Rovereto dell’intero Fondo di Margherita Sarfatti , che era stato conservato con cura dalla stessa critica d’arte e poi dalle eredi. Un unico catalogo edito da Electa ha seguito il progetto unitario delle due istituzioni il Mart di Rovereto e il Museo del Novecento di Milano. L’architetto Mario Bellini che ha curato il particolare allestimento dell’esposizione milanese ha elogiato nel corso della conferenza stampa l’opera significativa delle due istituzioni citate, nell’attività di ricerca, obiettivo questo primario perché i musei siano realtà vive.

Patrizia Lazzarin

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