Catalogna e dintorni

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      Se la musica è una delle espressioni rappresentative di una civiltà, allora i nomi di Guridi (basco), di Granados e Albéniz o di Lamotte de Grignon (catalani) si accompagnano irresistibilmente a quelli di un De Falla (andaluso), di un Turina (castigliano) o di un Rodrigo (valenzano), come in un mirabile e indissolubile affresco sonoro. Nonostante le diversità, il suo tema di fondo è inconfondibilmente spagnolo. Lo stesso potrebbe dirsi per altre forme espressive come la letteratura e le arti plastiche. Anche qui, sarebbe facile mostrare come, al di là delle differenze, il comune denominatore di tante opere di regioni e periodi diversi della Spagna supera e trascende le differenze regionali. In fondo, tali considerazioni potrebbero essere fatte per la Penisola iberica nel suo insieme.

       Queste osservazioni apparentemente solo estetiche servono a far meglio risaltare l’ostinazione delle tendenze autonomistiche che agitano la Spagna moderna. Baschi e Catalani si percepiscono a tal punto diversi da considerare legittimo e inalienabile diventare delle “nazioni” indipendenti. Inutile ripercorrere qui le tappe di queste annose aspirazioni. Basta dire che la miopia delle limitazioni autonomistiche e delle repressioni anche linguistiche subite dalle due regioni in vari periodi è un tipico esempio dell’ottusità politica di cui la storia sembra pascersi. Tutte queste cose sono note.

       Nonostante le già deluse constatazioni in proposito di Orwell in t, meno note o comunque meno ammesse sono tuttavia alcune banali verità che aleggiano sui momenti più sanguinosi della guerra civile spagnola, in cui non a caso proprio la Catalogna fu il centro delle rivendicazioni più radicali e anarchiche.

       Senza voler fare di Francisco Franco un santo, avendo in mente cosa accadde dopo la seconda guerra mondiale, prima in Grecia e poi in tutta l’Europa orientale, fino al cupo regime albanese di Enver Hoxa, gli Spagnoli di oggi, inclusi i separatisti catalani e quelli baschi, dovrebbero riconoscere che l’autoritarismo (quindi, anche il centralismo) franchista li salvarono da ben peggiori totalitarismi e repressioni. La storiografia ufficiale ha di solito il difetto di svegliarsi in ritardo, cosicché occorsero decenni prima di accorgersi che il sornione alleato degli “alleati”, e cioè, Stalin, non era meno dispotico e brutale di Hitler. Solo, sapeva dissimulare un po’ meglio.

       Un’altra verità tenuta in ombra dall’oleografia ufficiale è che, a differenza di Mussolini, allettato dai miraggi di facili (e megalomani) guadagni territoriali, Franco ebbe lo stomaco e il coraggio di rimanere neutrale, nonostante le ripetute e non tenere pressioni naziste. Non lo smosse neanche un’apposita visita di Hitler a Hendaye al confine francese nell’ottobre del 1940. E i Nazisti erano allora al colmo della loro potenza.

       L’ulteriore effetto di non meno incalcolabile importanza di tale astensionismo franchista sarebbe stato che, a guerra finita, la Spagna avrebbe poi goduto di un’indipendenza politico-militare che nazioni come l’Italia e la Germania ancora oggi in realtà non posseggono: mentre le basi militari americane in Spagna si contano sulle dita di una mano e, fra l’altro, sono sotto il controllo operativo spagnolo, esse sono al contrario numerosissime e sostanzialmente indipendenti in Italia e Germania. Solo in Italia esistono circa centodieci istallazioni militari di varia natura dislocate in tutto il territorio della Penisola. A parte quella più famosa di Aviano, in Friuli, la maggior parte è ignota al grande pubblico, inclusa la base di Camp Darby, il più grande deposito logistico delle forze armate americane nel Mediterraneo, situato fra Pisa e Livorno. Il fatto che tale massiccia e capillare presenza, spesso con la comoda copertura del cappello NATO, rimanga inosservata o che comunque non venga posta in discussione e sia anzi benvenuta per via dei vantaggi economici sulle regioni interessate la dice lunga sull’effettiva (e non semplicemente retorica) indipendenza politica dell’Italia e della Germania.

       Fatte queste premesse, necessarie per cercare di inquadrare meglio il fenomeno, la domanda è: che senso hanno oggi le rivendicazioni nazionali della Catalogna o altre analoghe? Quali sono le loro più vaste implicazioni che gli entusiasmi popolari del recente referendum sembrano trascurare? Per cercare di dare una risposta a queste domande, sarà necessario fare delle digressioni.

       Intanto, i Catalani non sono soli nelle loro aspirazioni nazionalistiche. Esistono anche quelle dei Baschi e degli Scozzesi, tanto per fare degli esempi. Caratteristico il fatto che, a breve distanza dal precedente, pare che gli attuali leaders scozzesi stiano già pensando a un altro referendum. In quanto ai Catalani, neanche il recente blocco del processo di secessione da parte dell’Alta Corte Costituzionale spagnola sembra scoraggiare i fautori dell’indipendenza. Alle suddette recrudescenze non sono ovviamente estranei i successi di altre più fortunate minoranze nell’Europa centrale e nei Balcani, complici il “concerto europeo” e l’indefesso sostegno degli Stati Uniti per i diritti umani e le rivendicazioni nazionali “altrui”.

       A questo proposito, vale la pena di osservare che, dati i precedenti storici – fra i quali si possono citare, giusto a titolo di esempio, il pressoché totale sterminio degli Indiani, la sanguinosa guerra civile per impedire la secessione degli Stati del sud nel XIX secolo, la disinvolta acquisizione delle Filippine dalla Spagna, gli innumerevoli interventi anti-guerriglia in America Latina, la seconda occupazione della repubblica dominicana nel 1965, etc., etc. – il conclamato sostegno all’auto-determinazione dei popoli o di posticce e catastrofiche democratizzazioni (vedi il caso dell’Iràq e della Libia), appare assai poco attendibile e incoerente, se non banalmente ipocrita. Non occorre essere dei maghi o dei profeti per affermare che un’identica opposizione sarebbe oggi esercitata da Washington nei confronti di eventuali minacce di secessione di qualche Stato atipico, come per esempio l’Utah, le forzosamente incorporate Hawaii e l’ultra-cosmopolita e popolosissima California (38 milioni di abitanti). Quest’ultima, così abissalmente diversa sotto tutti i punti di vista dagli Stati dell’est, non avrebbe meno motivi per rivendicare la sua indipendenza di regioni come la Scozia o la Catalogna. Per fortuna, i Californiani non ci pensano neanche, e in ogni caso il Governo Federale, saggiamente, si guarderebbe bene dal concederla.

        Insomma, il difetto di fondo della politica estera americana da troppi decenni a questa parte è l’applicazione di una politica dei due pesi e delle due misure e l’imperterrito atteggiarsi a custode della libertà e della moralità mondiali (fatale eredità, quest’ultima, del rigido idealismo di V. Wilson, che già a suo tempo con i suoi noti “Quattordici punti” legalizzò i vari risentimenti nazionalisti che sconvolsero il vecchio assetto europeo). Aveva forse ragione George F. Kennan, il controverso ispiratore della guerra fredda, la guida intellettuale del Piano Marshall e uno dei grandi saggi della politica estera americana, quando sosteneva che gli Americani erano un popolo di bambini? In mancanza di elementi appropriati per valutare la sua affermazione, non si può comunque che condividere l’altra sua opinione secondo cui la tendenza nazionale a considerarsi maestri e tutori del mondo era “sconsiderata, vanagloriosa e indesiderabile”. Ma ritorniamo alla Catalogna…

        Riguardo alle motivazioni che spingono i Catalani all’indipendenza, l’orgogliosa coscienza della loro storia secolare – già agli inizi del XIV secolo i loro progenitori della temuta Compagnia Catalana sbaragliavano gli Ottomani - deve sicuramente agire come fattore emotivo collettivo. Esiste però anche una componente economica, meno nobile ma dagli effetti probabilmente più determinanti. Il gettito fiscale della Catalogna, la regione col PNL più alto della Spagna, viene dirottato a Madrid, beneficiando, per così dire, altre regioni meno agiate. Come dire, in parole povere, che la Catalogna si sente spremuta da un avido governo centrale. La storia è vecchia, come anche il relativo risentimento. D’altra parte, il debito pubblico catalano è vistosamente cresciuto nell’ultimo decennio e pesa il 40% del totale delle 17 Comunidades autónomas in cui è suddivisa la Spagna.

      Senza bisogno di scomodare Marx, in nome del quale sono stati mortificati o fanatizzati (questi aggettivi sono solo eufemismi) innumerevoli Paesi nel mondo, è innegabile che alla base di molti eventi fondamentali agiscono componenti di tipo economico, opportunamente abbellite di più nobili aspirazioni. Giusto per fare degli esempi, nel VII secolo, gli Egiziani, stanchi del gravame fiscale di Costantinopoli e delle sue ossessioni teologiche, si lasciarono passivamente conquistare da qualche migliaio di beduini che issavano il nascente vessillo dell’Islàm.  Più avanti, nel XVIII secolo, i coloni americani si ribellarono perché non gradivano essere spremuti da ulteriori imposte, i cui benefici prendevano il mare per la madrepatria. Nel XIX secolo, per compensare i colossali esborsi di argento necessari per soddisfare la domanda di tè cinese – si era scoperto che tale bevanda era più igienica della birra o dell’acqua potabile a disposizione – la Compagnia Britannica delle Indie Orientali stimolò e protesse la vendita dell’oppio indiano ai Cinesi, che cercarono di opporsi a più riprese (vedi la rivolta degli ovviamente “fanatici” Boxers). Per la cronaca, una delle case mercantili di Hong Kong che prosperarono grazie a tale commercio, Jardine Matheson, è tutt’ora operante, e i suoi Tai pan (letteralmente, “uomini potenti”) della dinastia fondatrice scozzese dei Keswick  governano uno dei più potenti conglomerati asiatici con i suoi quasi 300.000 dipendenti.

        Di fatto, Marx non c’entra niente, e i suddetti esempi semplicemente confermano come certe decisive svolte storiche siano molto spesso dettate da banali risentimenti, avidità o furberie umane.

       Ma ritorniamo all’Europa…

       Nel lontano 1937, in La ribellione delle masse, proprio un filosofo spagnolo, Ortega y Gasset, scriveva profeticamente che l’unità dell’Europa come società non era “un ideale” ma un fatto ormai quotidiano e che il progetto di uno Stato europeo s’imponeva necessariamente. Non è chiaro se egli avesse in mente una struttura simile a quella svizzera o a quella dell’Unione Europea attuale. Quello che conta è che, ben prima delle carneficine di qualche anno dopo, veniva auspicata una sorta di confederazione europea.

       L’entità da lui invocata iniziò a prendere forma, come è noto, nel 1957 con la CEE, a cui seguirono poi  ulteriori ampliamenti. In realtà, una precedente entità “parzialmente” europea, la NATO, era già nata nel 1949 con scopi di reciproca difesa collettiva. Difesa da chi? A quei tempi, dalla pressione dell’Unione Sovietica, di cui tardivamente gli Stati Uniti avevano scoperto le capacità espansionistiche. La cosa esilarante è che i veri responsabili del dilagare sovietico nell’Europa orientale furono proprio questi ultimi, con il loro programma di aiuti logistico-militari “Affitti e prestiti”, che permise a Stalin non solo di rintuzzare le armate tedesche ma anche di avviarsi indisturbato a Berlino.

       Se quindi per un certo tempo la NATO funse da giustificato strumento difensivo, una delle sue anime era ed è rimasta quella dell’instaurazione di un neanche tanto dissimulato protettorato americano anti-russo in Europa, mai cessato, nonostante siano trascorsi settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e, almeno da venticinque anni a questa parte, non esista più un’Unione Sovietica. Negli ultimi anni, la NATO si è addirittura ampliata, spingendo i suoi confini a ridosso della Russia. Pare incredibile, ma sembra che lo spirito della guerra di Crimea contro i Russi, appoggiata dalla Gran Bretagna per sostenere il barcollante Impero Ottomano, sia una specie di bacillo duro a morire…

       Di fatto, salvo la lunga e grigia parentesi comunista, la geo-politica mostra come i reali interessi della Russia siano sempre stati più a oriente (verso il Pacifico) che non a occidente. Caso mai – vedi Napoleone e Hitler – furono dei Paesi occidentali ad avere a più riprese mire espansionistiche sulla Russia. Vale la pena di osservare qui una curiosa simmetria nelle strategie di Hitler e di Stalin. Al primo, che non aveva nessuna sensibilità marinara, non interessava il Mediterraneo (cosa che gli costò cara) e in fondo neanche l’Europa occidentale. L’invasione di Belgio, Olanda e parte della Francia fu dettata dall’ossessione di crearsi eventuali cuscinetti difensivi piuttosto che da una strategia di fondo. Prova ne è che non tutta la Francia fu occupata. Lo stesso avvenne per la Spagna, il Portogallo, la Svezia, l’Inghilterra e la Svizzera. In realtà, a mo’ dei Cavalieri Teutoni di antica memoria, gli interessi di Hitler erano a oriente verso l’Ucraina e le ricche zone petrolifere in direzione del Mar Nero. In quanto a Stalin, le cose non cambiano molto. La destabilizzazione ideologica della Spagna e poi quella della Grecia, con le rispettive guerre civili, e la successiva sovietizzazione dell’Europa orientale corrisposero a insperate opportunità offertegli su un piatto d’oro dall’insipienza dei suoi alleati piuttosto che a mire premeditate.

       Insomma, l’invadenza sovietica fu dovuta a imperdonabili sviste o a consapevoli calcoli degli “Alleati” e la NATO fu un tardivo tentativo di arginare la situazione. Stranamente, tale anomalo e ormai anacronistico gemello difensivo, popolato anche da membri atlantici (Stati Uniti e Canada) e da uno  (la Turchia) che può essere chiamato “europeo” solo ignorando la storia e l’antropologia di un bel numero di secoli, non sembra disturbare nessuno. Il fatto quindi che tale Paese, sostanzialmente asiatico, sia considerato da Washington (almeno per il momento) un alleato di ferro e strategicamente essenziale (perché opportuno cuscinetto nei confronti dell’Unione sovietica e ora della Russia) stupirebbe di meno, se gli USA non fossero al di là dell’Atlantico. In altre parole, una nazione distante migliaia di miglia marine dall’Europa impone di fatto a quest’ultima un alleato ad essa estraneo e diversissimo, non tanto per motivi di razza ma piuttosto per cultura e vocazione. Gli aspetti moderni ed europei delle classi medio-alte di Istanbul, che evidentemente confondono le idee dei benpensanti, non rappresentano il profondo est dell’Anatolia, che costituisce il vero cuore del Paese.

       La formazione di un’entità politica europea unitaria sembra dunque nata all’ombra un ibrido guinzaglio militare che ha avallato, se non anche istigato le spinte autonomiste, o meglio disgregatrici, nei Balcani e nell’Europa centrale. A parte quelli pro-russi, tutti i conclamati nazionalismi degli ultimi decenni hanno invariabilmente incontrato il fervido appoggio dei Paesi della NATO. Non si tratta di una coincidenza. Non è quindi un caso che anche il minuscolo neo-nato Montenegro stia per farvi parte. Al disastro delle due guerre mondiali seguì insomma quello di una parcellizzazione di ex- entità sovranazionali, le cui parti componenti non erano mai state dilaniate dalle successive lacerazioni e guerre fratricide che hanno caratterizzato per decenni le regioni sud dell’ex-Impero Austro-Ungarico e quelle occidentali dei Balcani. Dietro le altisonanti e retoriche dizioni dei tanti demagoghi di turno e di mistificanti adesioni comunitarie individuali, prospera il virus di una crescente e forsennata provincializzazione di vaste regioni dell’Europa e anche di quelle a ridosso del Caucaso e degli Urali.

       I poeti non sono sempre innocui, come gli ingenui spesso credono. In particolare quelli romantici – vedi Foscolo, Byron e Shelley – si fecero cantori di esaltanti e velleitarie rivendicazioni nazionali che avrebbero poi alimentato le ecatombi della prima guerra mondiale. Ovviamente, con questo non si sta difendendo la teologia dello status quo o regimi biecamente repressivi. Honni soit qui mal y pense…E’ però un fatto che i criteri circa la legittimità, fondatezza e opportunità delle rivendicazioni nazionalistiche o dei referendum sono a dir poco discutibili, aleatori e variabili. Recentemente, per esempio, il Segretario di stato americano John Kerry ha seraficamente ribadito che il referendum (corale e non risicato) della Crimea di adesione alla Russia era illegittimo, dimenticandosi le secessioni a catena di tanti Stati dell’Ex Jugoslavia, appoggiate e difese dalla NATO anche con le armi.

        Le motivazioni che hanno regalato uno Stato a Sloveni, Moldavi, Kossovari e Montenegrini pare non valgano, d’altra parte, per i Curdi, il cui nazionalismo suona come un anatema all’orecchio dei Turchi. Cioè, un Curdistan autonomo sta alla Turchia come una California indipendente agli Stati Uniti. Nelle vicinanze, vi sono poi le cosiddette “Repubbliche Caucasiche”, costituite da sparute popolazioni e fazzoletti di territori dalla scarsa o inesistente viabilità economica. Da cui, fatalmente, la propensione ad attività alternative non esattamente pie e il diventare oggetto di adescamenti di ogni genere, oltre che fonti di anarco-terrorismi .

        I numeri servono a conferire alle cose la loro misura e far risaltare la loro consistenza. Alcuni esempi sono auto-esplicativi.

        Se si esaminano le suddette (riconosciute o anche solo auto-proclamate) Repubbliche, scopriremo che la Cabardino-Balcaria conta 800.000 individui, l’Ossezia settentrionale 700.000, l’Inguscezia 400.000 e l’Abcasia 250.000, fino ai super-lillipuziani 40.000 abitanti della Adighezia e ai 55.000 dell’Ossezia del sud. A parte l’Abcasia e l’Ossezia del sud, distaccatesi dalla Georgia, le altre fanno parte della Federazione Russa. D’altra parte, La popolazione complessiva di tutte queste entità conta sì e no meno di due milioni e mezzo di abitanti e il loro definirle o auto-definirsi “repubbliche” suona quindi perlomeno incongruo.

         Per apprezzare meglio tale dato, ricordiamo come la Slovenia e la Lettonia, di fatto fra gli Stati più lillipuziani dell’UE, contano ognuna due milioni d’individui e possono essere paragonate, in termini di popolazione, a Stati americani come il Nebraska e il West Virginia. Anche una piccola e spopolata regione italiana come la Calabria conta da sola circa due milioni di persone, mentre la Lombardia ne conta ben dieci e, in Francia, il dipartimento della Provenza e delle Alpi ne conta cinque. Tutto ciò non fa che rendere ancora più sconcertanti le dimensioni demografiche di Stati come Malta (meno di mezzo milione di abitanti), del citato Montenegro (poco più di mezzo milione) o di Cipro (neanche un milione).

       Questi pochi esempi servivano solo a evidenziare le paradossali disparità demografico-territoriali che caratterizzano l’UE e sollevano dubbi sul suo armonico equilibrio e sulla sua presunta omogeneità. Anche se pochi ammettono che esistono almeno due, per non dire tre diverse velocità e livelli, le recenti crisi economiche come quella greca hanno impietosamente mostrato quanto ciò sia vero. In realtà, analoghe gracilità strutturali, economiche e sociali, covano anche negli altri Stati di recente formazione. Se non si sono ancora trasformate in vere e proprie crisi, è probabilmente perché tali fattori non hanno ancora fatto a tempo a maturare i loro semi destabilizzanti. Processi e tendenze altrimenti più facilmente correggibili e neutralizzabili all’interno di una confederazione – la Jugoslavia lo era - sono per forza di cose più vistosi e meno governabili in ex-territori e comunità provinciali fortunosamente assurti al rango di Stato indipendente.

       Ogni volta che ciò accade, il risultato è che elementari criteri di economie di scala vengono fatalmente abbandonati, sia a livello economico che amministrativo-organizzativo. A distanza di quasi due secoli dal diffondersi delle rivoluzioni nazionali, la virulenza delle loro ideologie continua a proiettare rivendicazioni e fomentare lacerazioni non solo foriere di instabilità regionali ma anche ormai per molti versi pateticamente anacronistiche.

       Perché tale irrispettoso aggettivo? Proviamo a fare qualche passo indietro e a introdurre alcuni trascurati fattori.

      Le coerenze non fanno certo parte del bagaglio attivo dell’umanità, e chi le dà per scontate, è solo un falsario. Nonostante le ossessioni nazionalistiche e gli osanna libertari, la cultura occidentale coltiva da secoli un’immagine agiografica e del tutto mistificante di Alessandro Magno, che avrebbe portato la “civiltà” fino all’India e liberato il mondo dalla tirannia persiana. In realtà, la sua fu una non richiesta spedizione di conquista, condotta nel più disinvolto e avido stile predatorio, che mirava a sostituire un’egemonia greco-macedone a quella persiana, e non certo a dar vita a una serie di Stati indipendenti. Da un punto di vista politico, la spedizione disintegrò l’unità politico-amministrativa del vastissimo impero di Dario. In quanto alla supposta tirannia di quest’ultimo, nulla prova che lo stile e i criteri dei Diadochi di Alessandro furono a questo proposito diversi. Quello che è certo è che dalle loro lotte per la successione non rinacque alcuna nuova unità ma solo una Babele di entità in perenne conflitto fra loro. In quanto all’Ellenismo, che si sarebbe diffuso grazie alla famigerata spedizione, la penetrazione della cultura greca era in realtà già iniziata assai prima e in ogni caso il suo reale e fertile baricentro furono il Mediterraneo e l’Asia minore, e non l’altopiano persiano e l’India.

      Insomma, mentre nelle dissertazioni degli storici e nella cultura popolare l’imperialismo macedone viene presentato come il provvidenziale irraggiamento di una civiltà superiore, nello stesso tempo, il modello dello stato nazionale costituisce uno dei pilastri dell’ideologia occidentale. Queste due prospettive sono palesemente contraddittorie.

      La suddetta benevola immagine del Macedone è del resto speculare alla non meno indulgente nozione con cui nel XIX secolo le Potenze Europee giustificavano la loro irruenza coloniale verso varie regioni africane o dell’Asia. A questo proposito, va comunque ironicamente (e anche onestamente) aggiunto che sotto vari punti di vista queste ultime godevano allora di maggiore stabilità, pace e sicurezza di quante non ne godano oggi, anche se ciò non elimina l’origine non proprio disinteressata delle varie espansioni.

      Così, sempre per utilizzare l’esempio più vicino dell’ex-Impero Austro-Ungarico, l’astio nei confronti di quest’ultimo, istillato nei banchi di scuola d‘intere generazioni, non sembra trovare conferma nelle pagine (Nel crepuscolo di un mondo) di un Franz Werfel, che non era affatto austriaco ma ebreo di nascita e boemo di stirpe. Al contrario, quello che emerge dai suoi giudizi è un ordine di cose assai più tollerante e civile dell’immagine propagata dalle Scolastiche nazionalistiche di vari Paesi. E’ certo che una buona parte degli ex-possedimenti austro-ungarici non conobbe mai più i periodi di estesa pace e prosperità di quando essi erano parte del Commonwealth Austro-Ungarico. Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte per molti ex-possedimenti britannici, francesi e olandesi.

       Un altro esempio significativo è poi quello dell’ex-Impero Ottomano, la cui amministrazione e il cui esercito, con buona pace delle declamazioni e scalpiti nazionalisti di Recep Erdogan, non erano turchi ma “balcanici”. Tanto il famigerato esercito dei Giannizzeri (Yeni Ceri, o nuovo esercito) quanto i funzionari imperiali erano attinti nella stragrande maggioranza dalle province balcaniche col sistema del Devshirmé (o esazione forzata di ragazzi). Se gli Ottomani non affidavano la gestione e difesa dell’Impero ai rozzi contadini turchi, i Bizantini non gli erano da meno: anche per costoro il nerbo degli eserciti poteva essere varangio, armeno, anatolico, ma non certo greco e la stessa penisola ellenica era solo una delle tante province imperiali.

       Va inoltre aggiunto che, in genere, a parte situazioni isolate, la tolleranza religiosa e sociale mostrata dagli Ottomani nei confronti delle “Genti del Libro” (e cioè, Cristiani e Ebrei) fu immensamente superiore a quella mostrata durante i secoli dai Cristiani di ogni stirpe e denominazione e ora dai vari Stati musulmani tipo Arabia Saudita, Pakistan, Bangladesh, etc. Non pare un caso che l’intolleranza e l’oppressione delle altre fedi e minoranze etniche nacquero o si accrebbero durante il nadir dell’Impero Ottomano, che assistette all’ascesa del nazionalismo dei Giovani Turchi e, fra le altre cose, ai massacri di armeni da essi perpetrati. Nessun Solimano il Magnifico fu autore di genocidi di armeni, ma gli accaniti nazionalisti del Comitato di Unione e Progresso nel 1915 ne sterminarono almeno mezzo milione. Mentre bisogna riconoscere al padre della Turchia moderna, Kemal Ataturk, il merito di aver abolito il turbante e di aver drasticamente diminuito l’influenza della religione sul potere secolare, le tendenze degli ultimi governi turchi rappresentano una lamentevole e pericolosa regressione verso i veli oscurantisti e contribuiscono a rafforzare la convinzione che sarebbe un tragico errore accogliere in seno all’UE, laica e secolare, un Paese che ogni giorno che passa elimina sempre più i confini fra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. L’ultima gaffe (?) turca, ovvero l’abbattimento del jet russo, mostra l’audacia con cui Ankara persegue la sua ambigua politica nei confronti dell’IS e le sue contorsioni nei confronti della Siria. Il vero nemico che ossessiona i Turchi è lo spettro di un Curdistan indipendente.

       Se dunque il nazionalismo turco fu il responsabile dello sterminio degli Armeni e della violenta espulsione di un milione e mezzo di Greci durante la prima guerra mondiale, i risultati di altri nazionalismi non furono meno catastrofici. Quello italiano, per esempio, sempre durante la prima guerra mondiale ebbe i seguenti risultati: il prezzo in vite umane per la sovranità del Trentino e della Venezia Giulia (circa 2,3 milioni di abitanti) fu di almeno 1,2 milioni, fra militari e civili. Come dire che il costo fu insensatamente alto. Fra l’altro, gli obiettori di coscienza allora non erano tollerati: questi avrebbero dovuto attendere il lontano 1972. Ne discende che uno dei corollari del nazionalismo, almeno fino a non molto tempo fa, era che i patrioti tiepidi o scettici meritano pene più o meno drastiche…

        Proseguendo ulteriormente nelle nostre comparazioni, la struttura demografica ed economica di molte recenti creazioni statali europee mostra dati di questo tenore: la popolazione della Slovenia, per esempio, è di due milioni di abitanti, e il suo PNL di circa 42 miliardi di euro; quella della Bosnia Erzegovina è di 3.8 milioni, e il PNL di circa 15.5 miliardi; quella della Macedonia è di 2 milioni, e il PNL di 22 miliardi; quella di Malta è di neanche mezzo milione di abitanti, e il PNL di circa 12 miliardi; etc.

       Si tratta di dimensioni e valori tipici di molte regioni provinciali di altri Stati o di certi Stati americani minori. Qualcuno potrebbe obiettare che la Catalogna, da cui siamo partiti, mostra valori ben superiori (circa 7,5 milioni di abitanti e un PNL di circa 217 miliardi di euro nel 2012) e tali da giustificare un’esistenza indipendente. Lo stesso potrebbe dirsi in teoria per la Scozia, con i suoi 5, 3 milioni di abitanti e un PNL di circa 225 miliardi (2013).

       In realtà, esistono ulteriori elementi e tendenze su cui vale la pena di riflettere e che rendono assai relative queste grandezze apparentemente soddisfacenti.

       Se proviamo ora a dare un’occhiata al numero dei dipendenti di alcune delle maggiori società in giro per il mondo, la loro per così dire “popolazione” mostra quantità a dir poco impressionanti:  mentre Walmart marcia in testa, con i suoi 2,1 milioni di dipendenti, Sinopec può comunque vantarne ben 1,1 milioni. Vi sono poi Tesco, Tata e G4S con i loro circa 600.000 dipendenti ognuna, la Nestlé con 340.000, Hutchison Wampoa Ltd. con 300.000, la Fiat con circa 225. 000, l’insospettabile Walt Disney con 180.000, l’Unilever 170.000, la TNT 155.000, e così via.

       In quanto alle dimensioni e raggio di azione di molte società cosiddette “multinazionali”, questi non hanno praticamente confini. I loro nomi sono ben noti al pubblico e non vale la pena di farne qui un elenco. Del resto, anche i Negritos o gli Eskimesi sanno che esistono la Coca Cola, la Mac Donald’s e verosimilmente hanno visto vetture Ford o Fiat o hanno consumato qualche prodotto Unilever. E questi nomi sono solo uno sparuto drappello della folta schiera delle società che, grazie all’abolizione delle barriere doganali, alla scomparsa dei monopoli nazionali e alla libera circolazione delle merci, si sono insediate ai quattro angoli del globo con le loro filiali, succursali, società collegate, etc. Tanto per fare un esempio, una di quelle menzionate in precedenza, Hutchison Wampoa Ltd., il colosso cinese di Li Ka-shing, opera in ben cinquantaquattro nazioni.

       Il fenomeno ha preso il nome feticistico di “globalizzazione”, le cui implicazioni sono di fatto più sottili di quanto il suo distratto uso non lasci presupporre. Elasticità e porosità economica dei confini nazionali, facilità di spostamento di merci e servizi nonché dei loro gestori, sfruttamento di risorse energetiche e di materie prime a distanza. Ora, non erano questi gli aspetti strutturali più significativi dei famigerati Imperi coloniali e anche di quelli antichi? Forse che i Fenici non esercitavano attività multinazionali, visto che, dal Libano, sfruttavano, trasportavano e vendevano, il piombo sardo, l’argento spagnolo e lo stagno inglese? E i Romani non sfruttavano, trasportavano e commerciavano i prodotti e le materie prime delle province o luoghi confinanti, dall’ambra del Baltico, alle pellicce delle steppe russe, al grano egiziano al vino e all’olio della Grecia, etc. ?

       Anche nel loro caso, non esistevano confini nazionali che arginassero in qualche modo la penetrazione economica. Gli unici ostacoli erano la presenza di popolazioni ostili e, soprattutto, le distanze, più efficaci mezzi di comunicazione e il cruciale problema della conservazione delle derrate, tutti vincoli sostanzialmente risolti in epoca moderna.

       Il lettore ha probabilmente colto la direzione ineluttabile a cui portano le annotazioni precedenti e la digressione ahimè non evitabile. Si possono cambiare i termini, ma sarebbe difficile contestare una tendenza ormai sempre più appariscente: entità assai simili a quelle degli antichi Imperi politico-militari si stanno ricostituendo sub specie economica in maniera strisciante ma inarrestabile. Inarrestabile, proprio perché la facilità dei trasporti e la mancanza di barriere doganali o di ostacoli militari fanno di immense aree del pianeta delle altrettanto enormi zone di produzione e di scambio gestite da entità individuali, poco importa se si tratta di società private o di società per azioni. Il fatto che nel bagaglio verbale delle ideologie di sinistra abbondino i termini “imperialismo economico”e “il grande capitale” sembrerebbe suggerire che in fondo il fenomeno non sia nuovo. Ma sarebbe un errore. La tendenza in atto non ha niente a che fare col braccio economico di nazioni imperialiste o col potere manovriero della ricchezza. L’unico esempio di impero economico analogo a ciò di cui stiamo parlando furono le varie potentissime Compagnie delle Indie Orientali che operarono in Asia tra gli inizi del XVII e XIX secolo con quasi assoluta indipendenza e con flotte ed eserciti propri, finendo  per essere poi assorbite dai rispettivi governi. A differenza delle odierne multinazionali, esse operavano grazie a delle patenti. La loro legalità derivava insomma dalla benevolenza sovrana, che poteva in qualsiasi momento venire a mancare.

        Non è probabilmente un caso che la più famosa e importante, quella britannica – quella olandese era già stata acquistata dal proprio governo ai primi del XIX secolo – cessasse di operare dopo i moti indiani nel 1857. Tutti i suoi giganteschi possedimenti (ovvero l’India, la Birmania, Singapore, Hong Kong, le Filippine e Giava) passarono sotto il diretto controllo del Parlamento. Stava per iniziare il tempo dell’Impero Britannico nel suo massimo momento di splendore. Una delle ragioni più sottili e profonde, a parte le difficoltà finanziarie della Compagnia e i disordini indiani, era in realtà che i due imperialismi non potevano convivere.

        Il tempo degli Imperi doveva cessare agli inizi del XX secolo. L’ultimo sopravissuto, quello britannico sarebbe stato paradossalmente travolto dalla sua stessa vittoria sulla Germania hitleriana, pagata a un carissimo prezzo: la sostituzione del primato britannico con quello Americano. In realtà, quest’ultimo cambiamento di guardia sanciva una volta per tutte il consolidarsi e il progressivo rafforzarsi dell’ideologia nazionalistica e in teoria democratica che nella propaganda americana del dopoguerra si identificava con un fascinoso nome: “il mondo libero”. Non è probabilmente un caso che anche l’edizione marxista dell’Imperialismo, l’Unione Sovietica, non sarebbe riuscita neppure lei a frenare il riaffermarsi dei nazionalismi nella miriade di repubbliche che ne facevano parte. La struttura politica dell’odierna confederazione russa assomiglia paradossalmente più a quella federale americana che non all’Impero zarista o al centralismo sovietico.

        Insomma, sia pure con misure e composizioni diverse, dal punto di vista politico e ideologico i Grandi Imperi sono morti e defunti, e chi parla d’imperialismo americano o cinese usa le parole a sproposito. L’elemento essenziale di qualsiasi imperialismo, come del resto di qualsiasi nazionalismo, è la colla ideologica che li sostiene e li giustifica. Oggi, neanche le nazioni più potenti o sfacciate possono più permettersi colle ideologiche di tipo imperiale come facevano la Gran Bretagna o la Francia a suo tempo. Questo tipo di colla è oggi inapplicabile. Al suo posto opera, anche se con dubbia credibilità, quella democratico-libertaria col blasone nazionale.

        I risorgenti Imperi economici non hanno affatto bisogno di colle ideologiche, giustificando la loro esistenza e rafforzamento semplicemente col successo ed espansione delle loro attività. In questo senso, essi hanno degli enormi vantaggi rispetto alle sia pur ambiziose cosiddette Grandi Potenze: gli strumenti di gestione, le tattiche e le strategie non devono passare per le forche caudine di Parlamenti, opinion pubbliche, etc. In tal modo, essi possono essere molto più cinicamente efficaci. Anche se (solo) formalmente i loro margini di manovra sono ancorati alla legalità e dipendenti dal potere politico, molti elementi concorrono nel suggerire che per esempio l’influenza sui governi, sotterranea e non, delle aziende di armamenti, energia e materie prime strategiche sia di gran lunga più forte di quanto tutti non vorrebbero ammettere.,    

        Qualsiasi progetto di tipo nazionalistico non può sottrarsi allo scenario sommariamente prima delineato. In realtà, gli accaniti e angusti nazionalismi sono oleografici e anacronistici come gli imperialismi del XIX secolo. L’evoluzione geo-politica dal dopoguerra in poi ne mette impietosamente in evidenza i limiti e i rischi. Per definizione, piccolo appare sempre più insicuro, fragile e incerto e le conclamate indipendenze e autonomie solo una patetica velleità. Fra l’altro, le inarrestabili folle di migranti che stanno attualmente invadendo l’Europa, infiltrandosi più facilmente proprio nelle nazioni più piccolo o meno organizzativamente efficienti (vedi Grecia o sud dell’Italia) mostrano come la porosità dei confini nazionali sia superiore a qualsiasi orgoglio e gelosia autonomistica. Se l’inarrestabile infiltrazione di migranti segnala la fragilità dei confine nazionali, è poi ancora più ovvio che i margini di effettiva autonomia e indipendenza o anche solo di prosperità economica si restringano drammaticamente di fronte ai fattori economici o militari gestiti da poche nazioni realmente forti.

         Con tutta la simpatia e il rispetto per l’entusiasmo autonomistico dei cittadini della Catalogna o della Scozia, il realismo suggerisce che le loro eventuali indipendenze nazionali, a parte solleticare le ambizioni di ristrette cricche dirigenti, non renderebbero le relative popolazioni necessariamente più ricche, più invulnerabili e più sicure. Caso mai, diventerebbero più deboli. Il vecchio detto che “l’unione fa la forza” rimane sempre valido. Per questo motivo, il buon senso vorrebbe che le varie parti in causa, sia in Gran Bretagna che in Spagna, trasformino le attuali tensioni in più efficaci ed equilibate visioni federali. Sotto questo punto di vista, USA e Svizzera costituiscono un esempio istruttivo. Molti dei pseudo Stati-fungo europei degli ultimi decenni dovrebbero rendersene conto, così come gli USA, che hanno sostenuto o favorito tali fungaie, dovrebbero rendersi conto che il mondo sta cambiando e che esistono oggi pericoli e sfide (vedi il fondamentalismo islamico) ben più insidiosi e barbari degli antipatici Russi. 

Antonello Catani, Atene, 6 dicembre 2015

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Grecia, occorre mostrarsi saggi

  • Pubblicato in Esteri

Negli anni Ottanta gli Stati Uniti furono un cattivo creditore quando pretesero pagamenti eccessivi dai Paesi dell'America Latina e dell'Africa; negli anni Novanta e oltre si sono fatti più furbi, mettendo sul piatto l'alleggerimento del debito. Le pretese tedesche hanno portato la Grecia quasi al collasso, con conseguenze potenzialmente disastrose per la reputazione globale della Grecia, dell'Europa e della Germania. È l'ora di mostrarsi saggi, non rigidi. E saggezza non vuol dire mollezza. Conservare la pace e la prosperità dell'Europa è la responsabilità primaria della Germania: ma di sicuro è anche il suo interesse nazionale primario. Un articolo di Jeffrey Sachs su Il Sole 24 Ore. 

Atene, gli errori dei creditori

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