All’ombra del tatuaggio
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Cos’è il tatuaggio e perché oggi ci si tatua? E, soprattutto, quali storie si nascondono dietro un segno? Secondo le ultime ricerche l’Italia è al primo posto tra le nazioni con il numero più elevato di persone tatuate, con il 48% della popolazione adulta, seguita dalla Svezia (47%) e dagli Usa (46%). Si tratta di un fenomeno sociale e culturale recente, ma che possiede una tradizione antica che pochi conoscono. Da queste considerazioni di carattere sociale e culturale nasce la mostra “Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo” che il Museo delle Culture di Milano presenta al pubblico dal 28 marzo al 28 luglio 2024.
Essa che è prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE ed è promossa dal Comune di Milano-Cultura, ha la curatela di Luisa Gnecchi Ruscone e Guido Guerzoni.
“Non si sa esattamente perché il tatuaggio abbia da sempre suscitato tanto fascino sugli esseri umani, né si conoscono le origini e le radici dell'impulso che li attrae verso di esso – spiega la curatrice della mostra e massima esperta italiana di storia del tatuaggio Luisa Gnecchi Ruscone - ma è certo che il gesto di incidere sulla propria pelle un segno indelebile è indissolubilmente legato all'atto primario di fare arte, con qualunque strumento, e probabilmente questo mistero è ancora oggi parte integrante del suo fascino”.
Parimenti il curatore Guido Guerzoni sottolinea che "per la prima volta sono presentati i sorprendenti materiali italiani, che documentano la persistenza millenaria di una tradizione tricolore che dall’antichità è giunta intatta sino alla metà del Novecento, a dimostrazione del fatto che il tatuaggio non è un’esotica invenzione polinesiana, ma una pratica che non è mai scomparsa dal territorio europeo e dal bacino mediterraneo”.
Il tatuaggio, nell’accezione di modifica corporea permanente, ha una storia antica quasi quanto l’uomo e le prime testimonianze documentabili risalgono all’epoca preistorica. Il Mudec ripercorre in questa mostra alcune tappe fondamentali della storia del tatuaggio, dalle evidenze preistoriche ad oggi, concentrandosi in particolare sull’area mediterranea, ma esponendo anche materiali extra-europei che facilitano la comparazione di un fenomeno globale.
Il percorso accoglie il visitatore a partire dalla contemporaneità, in un suggestivo collage caleidoscopico di immagini, colori ed esperienze raccontate da tatuatori/tatuatrici di oggi che introducono il pubblico alla sfaccettata realtà del tatuaggio contemporaneo.
Nel corso dei millenni esso ha assunto forme, significati e funzioni differenti: ci si tatuava volontariamente per prevenire e curare malattie, dichiarare il proprio rango, esprimere la propria fede, celebrare riti di passaggio oppure si poteva essere tatuati “a forza”, in quanto schiavi, disertori o condannati, per recare indelebili marchi d’infamia.
Attraverso l’esposizione di reperti originali, riproduzioni e proiezioni di fotografie e filmati, la mostra percorre cinquemila anni di storia umana: a partire da Ötzi, il più antico uomo tatuato il cui corpo sia stato finora rinvenuto in stato di mummificazione naturale, fino agli antichi Egizi con la testimonianza fondamentale della mummia della donna tatuata di Deir El Medina.
La pratica del tatuaggio era infatti già nota e ampiamente diffusa nel mondo antico non solo presso gli Egizi, ma anche tra i Greci e i Romani, e sia la Bibbia che il Corano ne prevedevano l’esplicito divieto.
Tuttavia, a dispetto delle ripetute proibizioni ecclesiastiche, il tatuaggio devozionale è stato sempre praticato dai primi cristiani e dai più devoti pellegrini cattolici in Terra Santa, in Italia e nell’intera Europa, raggiungendo nel corso del Seicento e del Settecento una notevole diffusione. I principi polinesiani arrivati in Europa con Cook e Bouganville ispirarono anche la moda tra gli aristocratici del vecchio mondo. È con Cesare Lombroso, Alexandre Lacassagne e altri cosiddetti “antropologi criminali” che tra la metà del XIX e gli inizi del XX secolo il tatuaggio viene associato ai marginali, ai carcerati, ai ‘devianti’.
Nasce così il pregiudizio nei confronti di una pratica considerata “primitiva e atavica”, indegna dell’uomo “civilizzato”. Solamente negli ultimi decenni il tatuaggio ha subito un’evoluzione che lo ha reso una modifica del corpo socialmente accettata, nonché estremamente popolare.
Nel mondo occidentale, nella forma in cui lo conosciamo oggi, il “tatuaggio moderno” nacque quando il capitano James Cook (1728-1779), esploratore, navigatore e cartografo britannico, portò con sé dalla Polinesia il primo uomo dal corpo tatuato, il “principe Omai”, e lo presentò alla corte d’Inghilterra, impressionando gli spettatori ma anche affascinandoli, al punto da meritarsi il ritratto del celebre artista Joshua Reynolds. Ebbe così inizio la “frenesia per il tatuaggio”, che contagiò non solo tanti sovrani ma anche buona parte dell’alta società europea e americana.
Al tempo stesso, i marinai che si erano tatuati e avevano imparato a tatuare nelle isole del Pacifico, tornati in patria, aprivano i primi tattoo shop nei porti d’Europa e sull’altra sponda dell’Atlantico. Attraverso antichi documenti e immagini la mostra racconta la storia avventurosa di questi tre secoli di vita del tatuaggio moderno.
Sono presenti i “marchi” ambiti dai Crociati e dai viaggiatori in Terra Santa ed esposte centinaia di matrici lignee utilizzate per tatuare i pellegrini (anche donne e bambini) che giungevano al Santuario di Loreto. Si deve però al Lombroso e ai suoi discepoli la raccolta di materiali di straordinario interesse storico, testimoni di tradizioni che altrimenti sarebbero state perdute per sempre: in mostra sono esposti disegni, riproduzioni di fotografie e pelli tatuate provenienti dall’omonimo museo.
Un approfondimento racconta i tradizionali tatuaggi realizzati per scongiurare il pericolo di rapimento delle ragazze balcaniche di fede cristiana nei territori dell’Impero Ottomano. Con taglio rivolto anche all’attualità geopolitica sono stati poi studiati i tatuaggi delle berbere algerine, delle donne copte e delle rifugiate curde che vivono nei campi profughi di Suruc in Turchia.
Patrizia Lazzarin, 29 marzo 2024