Il fascino storico delle donne asolane

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Ad Asolo, candidata capitale della Cultura 2024, si inaugura il 3 ottobre all’interno delle sale del Museo cittadino, la mostra Divine Armonie. Il rinascimento in Tobia Ravà, rassegna sull’artista concettuale veneziano che ha ritratto per questa occasione le tre donne, la cui vita si è intrecciata alle vicende di  questa città, adagiata sui colli della Pedemontana: Caterina Cornaro, Eleonora Duse e Freya Stark.  Caterina Cornaro entra ufficialmente ad Asolo l’undici ottobre del 1489, accompagnata da molti esponenti della nobiltà cipriota.  La ricca veneziana   apparteneva ad una delle famiglie più influenti della città lagunare ed  aveva sposato Giacomo II Lusignano, re di Cipro, diventando "rejna de Jerusalem Cypri et Armeniae". Dopo la morte del marito avvenuta nel 1473 e del figlio di lì a poco, Caterina abdica  in seguito alle lunghe minacce e pressioni legate alle dinamiche di successione e ai grossi  interessi economici in gioco,  in questa che era una delle più ricche isole del Mediterraneo,  consegnando il suo regno a Venezia che le offrirà in cambio la cittadina asolana. Qui  Caterina riuscirà  a realizzare la corte ideale, non lontano dai luoghi simbolo del Rinascimento, come  Venezia, Mantova, Ferrara ed Urbino. Volle alla sua corte artisti e letterati, fra cui si annoverano  GiorgioneLorenzo LottoPietro Bembo  che in questi luoghi ambientò la sua opera: Gli Asolani. Ad Altivole farà realizzare un complesso all’orientale, affrescato da Giorgione,  su un’area di oltre cento ettari, tutto circondato da mura, adorno di statue, giardini, orti, peschiere e fontane. Ammiriamo la sovrana, nel quadro di Tobia, quasi  richiamata  da una forza evocatrice capace di ricondurla  fra noi,  mentre passeggia lungo i portici del borgo Asolano. Essa  ci ricorda l’opera  di Tiziano ora alla Galleria degli Uffizi a Firenze, dove appare  autorevole, ma solo in parte decifrabile. Del  volto di Caterina e delle sue espressioni e  pose  possiamo scoprire  nelle sale del museo le interpretazioni anche di pittori veneti del Seicento e dell’Ottocento, dove lei è giovane e  concentrata, cosi come nella lastra della matrice incisa, su suo disegno, da Samuele Levi Polacco che traduce un dipinto ritenuto di Tiziano della Collezione Manfrin a Venezia. L’eleganza delle sue vesti orientaleggianti, nell’opera di Ravà sembra rivestire di bellezza anche l’intero spazio che la circonda e trascolorare nell’aria e sulle pietre.  L’armonia ricercata nel Rinascimento diventa nel pittore veneziano metro di un’immagine offerta allo sguardo dello spettatore, dove alla misura dello spazio si lega la viva presenza umana, vicina,  percepibile al nostro educato sentire. Quale sarà il messaggio che Caterina consegna ai posteri? Numeri e lettere  si rincorrono nella grafica dell’artista  dove le forme e i colori  si legano in un’alchimia o caleidoscopio  di segni che esprimono valori e  sono veicolo di narrazioni, grazie anche ad una interpretazione ispirata alla ghematria. Continuando il nostro cammino fra le sale del museo, in un viaggio che si snoda nel tempo, incontriamo  Eleonora Duse che, quasi come la divina Sarah Siddons nelle interpretazioni dei pittori inglesi Joshua Reynolds e Thomas  Gainsborough, è immersa in una  luce che la avvolge pienamente, dopo che il sipario che si è chiuso per la fine dello spettacolo,  si è poi riaperto velocemente, per un successivo batter di mani di un pubblico entusiasta. Una silhouette che pare far parte di un teatro contemporaneo, e rimandarci al tempo stesso istantanee di vita,  come nella statuina in avorio che ritrae Eleonora Duse, opera di Ermete Zacconi, che ci coglie ammirati, nella sala dedicata a lei nel museo, mentre  si piega in un inchino. In Ravà la  luce che sembra nella sua opera così potente,  quasi uno strumento scappato dalle mani di un demiurgo, svela l’acume  dello sguardo intelligente dell’artista di teatro. L’atmosfera che sembra diventare pulviscolo, irrompe fuori del quadro, rileva il genio della Duse  che recitava con una grande capacità espressiva. Eleonora fu un’interprete straordinaria dei drammi di Ibsen che amava molto e anche delle prime opere drammatiche di Gabriele d’Annunzio. Acclamata in Italia e nel mondo, nel quadro di Ravà,  sembra porgere, attraverso l’orecchio  che risalta ai nostri occhi,  ascolto ai suoni del mondo contemporaneo, per rielaborarli in seguito, in una sua personale visione ricca di passioni contrastanti. L’ultimo piano del museo accanto alla Duse accoglie anche la memoria di Freya Stark, questa viaggiatrice instancabile, fotografa, cartografa, archeologa  e scrittrice che ha scritto più di trenta libri e che rimase sempre molto legata ad Asolo, dove riposano le sue spoglie. Freya Stark ha viaggiato molto, soprattutto in Medio Oriente, nei paesi del Libano, Siria, Iraq, Iran, Arabia Meridionale e Afghanistan.Il suo primo viaggio è in Siria nel 1927, l’ultimo a ottantotto anni, nel 1981, sulle vette dell’Himalaya, sul dorso di un mulo tibetano alla ricerca delle tracce degli asceti. L’immagine che ci consegna Ravà, mostra Freya  mentre si ferma  all’interno di quei portici che ci rimandano a città antiche, ma che ricordano anche Asolo. Il suo  turbante la trasporta  fra  le dune del deserto, in un tappeto grafico di lettere, numeri e radici che mirano alla ricerca dell’essenza dell’umano, ancora oggi, come ieri, lungo le  terre del Medio Oriente  dove si colgono i frammenti di un uomo “caduto” in guerre senza senso e  si raccolgono i pezzi di monumenti andati in frantumi a causa dell’odio, in un’eterna fuga dal Male che spesso l’essere umano ha dovuto sfidare per sopravvivere, un male spesso banale come scrisse la scrittrice Hannah Arendt raccontando dell’Olocausto. Nella mostra  che rimarrà aperta fino al 9 gennaio possiamo vedere  numerosi pezzi dell’arte di Tobia, dalle tele sulla creazione dell’Universo alle foreste di alberi, dalla città lagunare  alle antiche città orientali fino ai tanti animali scolpiti o dipinti che  rivestiti  di numeri e lettere, ci interrogano e ci  pongono come un antico filosofo quesiti su cui necessita fermarsi a riflettere per acquisire nuova consapevolezza. La rassegna è stata curata da Patrizia Lazzarin e Maria Luisa Trevisan.

Patrizia Lazzarin, 29 settembre 2021

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Vedova Shimamoto, Informale da Occidente a Oriente

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Una parola, un segno calligrafico, una chiazza rossa di sangue o una luce verde che lampeggia di fronte a noi, hanno un significato e traducono emozioni. Nel movimento della linea curva o longilinea che noi seguiamo con lo sguardo perché ci incuriosisce, anche se non individua una forma a noi nota, cerchiamo il filo di Arianna di una storia che vorremmo scoprire e che forse proviene da assai lontano, alle radici di quell’uomo o donna che siamo oggi, arrivando fino  a quelle figure propiziatorie tracciate dai nostri antenati sulle pareti delle caverne. La rassegna che ha aperto al pubblico nel Museo Civico del suggestivo borgo di Asolo il trenta agosto, dal titolo  Vedova  Shimamoto, Informale da Occidente a Oriente,  vuole tornare a parlare di quel movimento che aveva rivoluzionato i canoni espressivi dell’arte  fra gli anni Quaranta e Sessanta del 900’, alla luce di  quei cambiamenti dovuti alla seconda guerra mondiale che aveva mandato in frantumi la società del tempo, come accade a un vetro rotto da una forte esplosione. L’arte informale aveva rinunciato a raccontare con i canoni del Realismo, aveva abbandonato su una sedia rimasta intatta dai bombardamenti l’ultima spoglia della figura umana e aveva gettato sulla tela tutto il subbuglio del mondo interiore che anche gli artisti avevano vissuto, sia nei campi da battaglia sia in esilio. Cristina Mondin, responsabile del Museo Civico di Asolo, conferma il desiderio di conservare la memoria e di far conoscere questo movimento che è stato espressione di un particolare momento storico. Un movimento globale che dagli Stati Uniti all’Europa e all’Oriente ha avuto differenti declinazioni di espressione raccogliendo anche e non solo le lezioni del Surrealismo, nel gesto puro che allontana il pennello e getta il colore sulla tela, o del Futurismo, nel dinamismo delle linee e nella rottura voluta con la tradizione. I protagonisti principali della mostra sono Emilio Vedova, l’artista veneziano, che fu uno dei fondatori della Nuova secessione italiana, diventato poi Fronte nuovo delle arti  alla fine degli anni  Quaranta e Shozo Shimamoto, uno dei più importanti esponenti, e co-fondatore del Movimento artistico Gutai, che era nato nel 1954 in Giappone, nella regione del Kansai. Sono molti altri gli artisti che compongono questa carrellata che si articola nelle sale del museo grazie ad un  suggestivo allestimento che combina i rosa delle pareti, i bianchi delle sculture presenti, parte integrante dell’istituzione, e i rossi tendaggi alle finestre,  e crea uno scrigno dove le opere possono essere ammirate in tutto il senso di piacevolezza ed armonia che appartiene a loro. Carla Accardi, Afro, Renato Birolli, Alberto Burri, Lucio Fontana, George Mathieu, Ennio Morlotti, Sadamasa Motonaga, Nohara Motonari, Shuji Mukai, Achille Perilli, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Mark Tobey, Yasuo Sumi, Tancredi sono solo una parte dei pittori presenti a questa rassegna che ha  il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano e  la curatela di  Matteo Vanzan ed Enrica Feltracco. L’esposizione  prosegue il  racconto per immagini di alcuni dei principali movimenti artistici, culturali  ed esponenti del 900’, da Andy Wahrol  a Mario Schifano e poi Woodstock, che il Museo ha dedicato a loro negli ultimi anni. Una galleria pubblica che raccoglie al suo interno tanti brani di storia e di arte di molte persone che hanno amato questa cittadina che si arrocca fra i colli: dai reperti canoviani, alle tele del vedutista Bernardo Bellotto, dalle sale dedicate al periodo romano di Asolo allo  spazio destinato  a tre importanti  donne che qui hanno vissuto: la principessa veneziana Caterina Cornaro, l’attrice di teatro Eleonora Duse e la grande viaggiatrice britannica Freya Stark. E così quando in un pomeriggio domenicale, noi saliamo a piedi l’ampia e lunga salita che ci conduce dal parcheggio nella bella piazza centrale da cui si gode una delle caratteristiche viste panoramiche, i nostri polmoni non possono non respirare un’aria speciale che risuona  degli echi di una  storia vicina e lontana. Ora nel museo, il segno nero delle tele pittoriche di Emilio Vedova che vediamo  spiccare  nelle prime sale,  mostra tutto il magma racchiuso nell’anima dell’artista che egli riordina nella sua visione traducendo così il pathos dei grandi eventi. Quel nero emoziona non meno, anche se in maniera diversa, delle superfici bianche e nere di Edouard Manet  nella Colazione o nell’Atelier. Quel colore ci parla ora di energia, di movimento necessario e di scontro di linee e forse non solo di esse, di passione avvolgente e rotolante nel colore che s’impasta. Il suo collega giapponese, racconta in maniera diversa, quel sentire nuovo, specchio di un mondo che è stato segnato da una forte cesura. Tutto il Movimento Gutai, a cui appartiene Shimamoto, lancia un nuovo fare artistico: il proprio corpo o singolari strumenti come armi da fuoco, elicotteri, gru o abachi per trasportare il colore.  Shimamoto sparerà bottiglie di tinte diverse sulle tele: uno scoppio di macchie e filamenti che aprono nuovi spazi  luminosi che sembra possibile abitare. La ricerca di nuovi luoghi senza confini dove può regnare forse la felicità o forse no. Lucio Fontana taglia la sua tela verde, per guardare oltre quella che potrebbe essere una distesa prativa e Giuseppe Santomaso nella sua poeticità di cantore veneziano disegna geometrie invisibili di una Venezia sospesa fra cielo e mare.  L’abbandono del figurativo tradizionale non elude i significati dell’esistere ma li reinterpreta alla luce delle recenti esperienze. L’artista è diventato ora cartina al tornasole della qualità della vita, posata con noncuranza, sul piattino dell’ingresso. La rassegna rimarrà aperta fino al 15 novembre 2020.                

Patrizia Lazzarin, 1 settembre 2020                                                                      

 

 

 

 

 

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