Linguistica, una chiave di accesso alla complessità

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Chi fra di noi, poveri mortali, può essere interessato ad un “Congresso” di Linguistica? Ben pochi, se non studiosi e docenti dell’area linguistica. Eppure, spunti interessanti per tutti sono emersi dal Convegno Insegnare Linguistica svoltosi di recente a Como all’Università dell’Insubria.

Al di là delle riflessioni più tecniche su contenuti, modalità e presenza dell’insegnamento di Linguistica teorica nei corsi universitari, si sono affrontate questioni più generali.

            Innanzitutto: come è percepita tale disciplina? Dalle interviste (condotte da ricercatori dell’Insubria) risulta che per la maggior parte degli intervistati, la Linguistica si occupa della grammatica, delle regole e della correttezza dell’italiano, mostrando di ignorarne il vero significato più ampio: scienza che studia il linguaggio, le lingue e le loro strutture dal punto di vista teorico, storico e descrittivo. La ricaduta negativa di tale visione ristretta si registra nelle nostre scuole, dove per lo più si insegna una marea di regolette (con lo “stupidario” di esercizi al seguito!), che non si dimostrano efficaci per i nostri studenti (vd. i risultati dei test Invalsi e internazionali), invece di una riflessione sulla lingua e sui testi.

            E che dire dell’insegnamento delle lingue straniere? Si pensi che recenti studi neurologici hanno mostrato che la corteccia cerebrale dell’area uditiva si modifica nei migranti che imparano la nostra lingua, mentre fra gli adulti che abbiano compiuto un corso di studi classico, con l’insegnamento di una lingua straniera per ben dieci anni, tale mutamento non viene registrato, proprio come fra quelli che hanno interrotto gli studi dopo la terza media. Che succede? Certo, denunciano gli esperti, le ore settimanali a disposizione sono poche;  però, oltre a ciò, mancano gli insegnanti di madrelingua, i laboratori e, soprattutto, non vi è lo studio del sistema dei suoni (la Fonologia è una delle parti della Linguistica!), né la pratica conversazionale in classe o la visione di film nella lingua straniera; insomma, più che “addestramento” dovrebbe esserci un’ “educazione all’apprendimento fonologico”.

            Allora, si deve ripensare la formazione dei docenti, quella formazione su cui gli ultimi governi non sono più tornati ad investire. E non si pensi solo a quella iniziale, ma a quella in servizio: troppi docenti continuano ad ignorare le nuove modalità didattiche, basate sul problem solving, sulla scoperta delle regole della lingua (a partire dalla propria esperienza di parlanti) e del testo, sulla centralità dell’errore (si è parlato di “interlingua”) per il miglioramento della competenza linguistica (come, del resto, suggerito dalle indicazioni ministeriali). E insieme vanno ripensate le modalità di selezione e di accesso alla professione del corpo docente:

            Altro spunto di riflessione più generale è venuto dalla constatazione di un diffuso “analfabetismo di ritorno”, cioè dell’incapacità di comprendere messaggi un po’ complessi, specie quelli della nuova organizzazione della sfera pubblica (decisori, media, gruppi di interesse e gruppi di formazione dell’opinione pubblica). Si assiste, infatti, al collasso di tale sfera su di un’unica piattaforma (e trattasi di piattaforme private e commerciali); alla caduta dei filtri costituiti una volta dai ruoli; alla compressione dei tempi del dibattito pubblico (il che permette ai politici di manipolare, annullando resistenze culturali, analisi, ragionamenti); alla ricerca di visibilità e di sensazionalismo. Si creano, così, sfiducia ed emarginazione, specialmente fra i giovani, i quali vengono esclusi dal dibattito pubblico, nell’epoca delle post-verità.

            Che cosa può fare un insegnante di Linguistica oggi? Insegnare ad analizzare struttura e meccanismi linguistici dei diversi tipi di dibattito pubblico (dimostrazione, argomentazioni fallaci, referenze vaghe, presupposizioni, contraddizioni, decontestualizzazione, messaggi impliciti, ecc.), in particolare la peculiarità di quello on line, il più pervasiva e vincente.

            Forse, più in generale, si deve ripensare proprio l’insegnamento. Oggi, lo studente non è più una tabula rasa, ma un portatore di realtà sconosciute, non solo alla scuola, ma alla società civile stessa. Il “fuori” è entrato “dentro” la scuola, anche se l’”enciclopedia” dei ragazzi è spesso sconosciuta ai docenti. Per tutto ciò, si devono inventare strumenti nuovi (modi, mezzi, attrezzature); non può più essere solo il libro al centro, bensì la lingua e i linguaggi, per aprire altri mondi, altre “enciclopedie”, mediante un confronto dialogico con i ragazzi.

            E infine, un consiglio, che viene dall’esperienza decennale di insegnante e di dirigente scolastico: l’ascolto di qualche buona lettura in classe potrà essere per i ragazzi una cura ricostituente per tante ore trascorse davanti allo schermo!

Clara Manca, 26 ottobre 2019 

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