Quotidiano online

Racconti

Se. 3

di Agostino Roncallo

Già da qualche tempo i nomi di comandanti partigiani come Moscatelli, Di Dio e Superti, erano sulla bocca di tutti. Vogliono liberare l’Ossola, si diceva. E così è avvenuto. Quel giorno fu come se un messaggio elettrizzante attraversasse l’etere. Tedeschi e fascisti se ne vanno! Se ne sono andati! Siamo liberi! Che bello.

Era come respirare un’aria nuova, pura, si poteva circolare liberamente senza più sparatorie, senza più rappresaglie. A Domodossola circolavano facce allegre, la cittadina tornava a vivere e per strada le auto, che erano state nascoste per non essere requisite, erano piene di partigiani, tutti tenenti o capitani. Mi chiesi se non esistessero soldati semplici. Anche quell’euforia tuttavia passò e la realtà apparve, purtroppo, meno bella di quanto sperassimo. Era arrivata la fame. La mensa della Rumianca  venne chiusa, a casa si aprirono le dispense alla ricerca delle scorte. Iniziò, di fatto, una vera e propria caccia all’uovo, o a una carota, o a una patata. Non sapevo, allora, cosa volesse dire avere fame. Sinora con gli amici si parlava di dolci, di cioccolata, di leccornie varie: ora, solo di pastasciutta, di cotolette, di arrosti. In casa eravamo in quattro, più la Lina e due gatti. Anche questi ultimi avevano il coprifuoco: uscire di casa significava per certo finire in una padella.

Un giorno mamma rientrò in casa con fare misterioso e, una volta accertatasi che fossimo soli, tirò fuori dalla borsa due minuscoli pacchetti. Pane! Erano due piccoli panini di farina bianca che  le suore dell’asilo avevano preparato per lei. In passato, quando non c’erano problemi di approvvigionamento,  lei aveva sempre portato dei biscotti per i bambini durante le sue visite e, oggi, quelle suore, avevano desiderato ricambiare quei doni. Grazie, suore! Dividemmo quei piccoli panini in quattro parti e ognuno di noi inumidì le dita per far sì che non andasse persa neppure una briciola. Quelle briciole, le assaporammo così come si assapora il più prelibato dei cibi. E prelibate lo erano davvero quelle briciole. E lo sarebbero tuttora se, solo, avessimo memoria.

Arrivò il giorno in cui dal fronte arrivarono notizie poco rassicuranti, i fascisti attaccavano in forze, i nostri resistevano. Poi si diffuse un grido: via tutti, hanno sfondato, stanno arrivando.  In valle ci fu allora un tam tam, un treno era pronto per portare in salvo coloro che erano compromessi e fu così che, nel buio della notte, ombre cariche di fagotti si avviarono verso la stazione. Il treno fischiò. Fu un fischio lungo, lacerante, seguito da due o tre fischi brevi, pressanti. Quel treno aveva fretta di partire, tante tappe doveva ancora fare, tante persone ancora da raccogliere. Ancora un fischio di commiato e poi passò, sbuffando laggiù in fondo al grande prato, davanti a casa. Arrivederci, arrivederci a tutti voi, a tutti i volti noti e ai tanti ignoti. Tornate presto, se sarà possibile.

La mattina seguente regnava una calma irreale e per la strada non si vedeva anima viva. Il tempo era come sospeso. Noi eravamo con le facce incollate alle finestre ma non c’era nulla, sotto quel sole abbagliante. Fino a quando si avvertì un leggero tremore. Proveniva da terra o era, piuttosto,  la paura che avvertivo dentro di me? Proveniva da terra. Quel tremore si trasformò presto in rumore, era il rombo dei motori di una camionetta e di un mezzo pesante trainante un grande cannone. Erano tedeschi. Finiva così un sogno, il sogno di vivere in un paese libero, privo di quel senso di oppressione che invadeva il cuore, e la mente.

           Fu quando dissi agli amici di Vogogna che quel pomeriggio li avrei aspettati  a casa per giocare a ping pong. Fu, quello, il giorno in cui conobbi la guerra.

3. Continua

LEAVE A RESPONSE

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *