di Antonello Catani
La conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453 ebbe il suo più simbolico e cocente completamento nella trasformazione in moschea della millenaria basilica bizantina di Hagia Sophia. Come dei Musulmani poterono sentirsi a loro agio pregando sotto le volte di un tempio dove per secoli erano echeggiate salmodie ortodosse rimane un mistero. L’unica possibile interpretazione è che l’arroganza della sanguinosa conquista abbia disinvoltamente prevalso in tale schizofrenia comportamentale.
Nel 1934, quando il salvatore della Turchia ex-ottomana dalla dissoluzione, e cioè, Kemal Ataturk, prese la straordinaria ma lungimirante decisione di trasformare Hagia Sophia in museo, egli stava in un certo senso cercando di eliminare il bruciore ideologico e nazionalistico della caduta di Costantinopoli e di porre una pietra sopra i disastri e i rancori del periodo successivo alla prima guerra mondiale. Non restituì una basilica al mondo ortodosso, ma pose fine all’usurpazione musulmana di un millenario tempio cristiano. Questo, il senso profondo e geniale del cambiamento. Quel gesto ebbe inoltre come corollario tutta una serie di ulteriori e non meno rivoluzionari cambiamenti che miravano ad avvicinare all’Europa una nazione sostanzialmente asiatica, a secolarizzare la società turca e ad istituire quindi una separazione fra sfera religiosa e quella politica.
La recente decisione di riconvertire Hagia Sophia in moschea ha inferto un colpo mortale alla visione kemalista di una società civile secolare. Essa è l’ultima di una serie di striscianti regressioni rispetto alle aperture e moderazioni di Ataturk, favorite o stimolate dalla sempre più autocratica gestione del potere di Recep Tayyip Erdogan.
Come noto, durante la sua presidenza, la Turchia ha imboccato una strada dove la suddetta visione laica e moderata è stata progressivamente erosa da una concezione integralista dell’Islàm, una delle cui più significative caratteristiche è la rigida sovrapposizione della sfera religiosa a quella politica. Parallelamente, le libertà individuali e di stampa sono state oggetto di imbavagliamenti e controlli sempre più pesanti. Inoltre, già nei decenni precedenti, dopo il genocidio degli Armeni e contrariamente agli impegni del Trattato di Losanna del 1923, lo status giuridico e le libertà delle sempre più decrescenti minoranze non musulmane (i Greci, gli Ebrei e gli Armeni rimasti) sono stati soggetti a vistose e spesso violente limitazioni. A ciò si aggiunge il sempre più aspro sospetto e repressione delle richieste di autonomia dei Kurdi, che rappresentano circa il 18% della popolazione.
Tradotto in altri termini, la Turchia ha da tempo imboccato una strada non molto dissimile da quella della Romania del defunto Ceausescu dal punto di vista delle libertà politiche. Come in tale scenario sia potuto esistere anche solo un progetto di eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea è inspiegabile, anche tenendo conto della sua qualità di membro della Nato. Le morbidezze diplomatiche sono pericolose e devastanti quando occultano inconcepibili cecità.
Come noto, allo stesso modo di altri Paesi emergenti, la Turchia ha inoltre avuto uno sfrenato incremento demografico, passando dai 19 milioni di abitanti del 1945 agli 84 milioni odierni. A questa quadruplicazione demografica non ha tuttavia corrisposto un analogo aumento produttivo ed energetico, col risultato che il Paese è da tempo sull’orlo della bancarotta allo stesso modo di nazioni come Venezuela, Argentina o Ucraina. Le crescenti velleità nazionaliste e aggressive, anch’esse acuitesi durante la presidenza di Recep Erdogan, dalle manovre espansioniste e bellicose in Siria, giustificate come difesa dalle spinte separatiste kurde, a quelle in Libia, vendute come protezione del regime di Tripoli, sono entrambe sorprendenti e nello stesso tempo un dejà vu. In realtà, dietro di esse aleggiano non sopite nostalgie imperiali ottomane, l’incubo dell’autonomismo kurdo e anche fame di petrolio, di cui la Turchia è sprovvista.
Questo, lo scenario in cui si inserisce la riconversione di Haghia Sofia in moschea, evento duramente condannato anche in ambienti arabi e conservatori come l’Arabia Saudita. Così, lo studioso saudita Talal al Torifi ha potuto scrivere su Arab News del 13 luglio che “Le vere intenzioni di tale mossa erano quelle di guadagnare il consenso degli estremisti musulmani, enfatizzando un’immagine che stimola le loro emozioni ma nasconde una realtà estranea allo spirito islamico.” A sua volta, anche l’influente Islamic Society of North America ha rilasciato una pubblica dichiarazione dove ammonisce che la conversione di un tempio cristiano in moschea, contraria anche a specifiche prescrizioni coraniche e alla tradizione islamica, “riaprirà le ferite dei Greci ortodossi, dei Russi ortodossi e delle comunità cristiane nel mondo” riguardo alla dissacrazione di Hagia Sophia come tempio ancestrale dell’ortodossia.
Curiosamente, questo tipico contrasto fra disperata situazione interna e velleità espansionistiche ricorda analoghe situazioni degli ultimi anni della Russia zarista, sconvolta da movimenti popolari e in preda a una profonda crisi economica ma ostinatamente impegnata in un’avanzata in Manciuria, poi vergognosamente naufragata per mano dei Giapponesi a Port Arthur nel 1907.
Tutto ciò rimanda al ruolo di questa nazione nel corso degli ultimi secoli e quindi alle premesse che oggi continuano a dare i loro frutti destabilizzanti. Di fatto, nonostante la loro spettacolare espansione sia nei Balcani che in Nord Africa e in Medio Oriente, gli Ottomani godettero di reale successo solo per un breve arco di tempo, dopo il quale il loro controllo di molte regioni fu puramente nominale. Da notare che mai gli Ottomani si avvalsero di popolazioni o gruppi etnici arabi, ricorrendo paradossalmente a Greci, Ebrei e Armeni nell’amministrazione civile e ad Albanesi e Bosniaci islamizzati in quella militare.
Nonostante gli ossessivi tentativi di avanzare fin nel cuore dell’Europa (i falliti assedi di Vienna) e la turchizzazione di vaste regioni con popolazione ortodossa nel nord dei Balcani, il cui ricordo ed effetti non si sono mai spenti e sono la causa di ricorrenti tragici eccidi da entrambe le parti, la sopravvivenza dell’Impero ottomano dal 1700 in poi fu dovuta unicamente alla protezione della Gran Bretagna, che ostacolò in tutti i modi i tentativi russi di sbocco verso il Bosforo. La guerra di Crimea (1853-1856) fu un sanguinoso esempio di tale rivalità. Nuovamente, dopo la seconda guerra mondiale la Turchia godette di un insperato innalzamento di status strategico-politico, diventando il bastione sud della Nato, ancora una volta per ostacolare dei Russi!
In altre parole, miopie anglo-americane vecchie e presenti hanno incoraggiato e legittimato un’entità socio-politica profondamente estranea allo sviluppo culturale e alle visioni laiche e libertarie dell’Europa attuale. A quelle miopie se ne sono aggiunte altre, quali l’elevazione a Stati sovrani di minoranze lillipuziane dell’ex Jugoslalavia, come Kossovo e Montenegro, mentre nessun dito si è mosso per favorire riconoscere l’indipendenza della ben più numerosa e antica minoranza kurda (circa 35 milioni individui). Il fatto che i Kurdi siano dispersi in ben tre stati (Turchia, Iran e Siria), rendendo quindi triplici le resistenze alla loro riunione in uno Stato autonomo, non diminuisce la poca saggezza di un divide et impera che ha fatto dei Balcani una fungaia di Staterelli dall’inesistente autonomia economico-militare.
E’ dunque in questo ancora più ampio contesto che bisogna leggere l’infelice decisione (di fatto, una colossale stupidità e un esempio di protervia) di mutare lo stato giuridico di Hagia Sophia. L’erosione del favore popolare, acuita dalla crisi economica e ora dall’epidemia, si prestavano a un gesto mirato a galvanizzare almeno la parte più estremista e fanatica dell’elettorato. Quasi a rafforzare l’entusiasmo dei suoi sostenitori ultra-nazionalisti, vi sono poi le dichiarazioni dello stesso Recep Erdogan, riportate con preoccupazione dal settimanale israeliano Jerusalem Post del 15 luglio, secondo cui “dopo Hagia Sofia sarà la volta di al-Aqsa”. In altre parole, una minaccia nei confronti di Gerusalemme, luogo dove si erge la moschea più venerata dai Musulmani dopo quella della Mecca. Infine, nel sito Haber 7, vicino al presidente, è comparso un delirante messaggio che suona: ”Con Hagia Sophia è fatta. Adesso sarà la volta di Atene!” Dato il ferreo controllo della stampa e dei siti sociali, ben difficilmente un annuncio simile è estraneo a una orchestrata linea politica del regime.
L’analogia di delirio nazionalista sotto un conveniente manto religioso delle due dichiarazioni non è insomma una coincidenza ed è allineata alla riconversione di Hagia Sophia in moschea. Supposto che le suddette dichiarazioni corrispondano solo a una tattica retorica, spesso i discorsi incendiari provocano incendi reali e non controllabili.
I fenomeni storici obbediscono a un meccanismo di onde lunghe. E’ ancora presto per valutare la magnitudine degli effetti negativi di una decisione dall’oggetto solo in apparenza religioso. Tuttavia, le bellicose e arroganti affermazioni riguardo all’insindacabile “proprietà turca” di Hagia Sophia – definizione che suona come la spavalda difesa di un bottino bellico e mette a nudo assurde e patetiche protervie da invasori orientali – renderanno magri servigi alla Turchia nel prossimo futuro.
Questa è una certezza.
9 maggio 2025