Internet non dev'essere sinonimo di giungla
- Scritto da Ugo Pilia

Si torna a discutere di nuove regole per Internet, addirittura di una sua "costituzione". Una serie di fattori tecnologici, politici e istituzionali hanno modificato un contesto considerato ormai stabile, spingendo più d'uno a sottolineare che siamo di fronte a una possibile svolta storica. Era sembrato che si fosse consolidata una impostazione che lasciava poco spazio ai diritti. Dalla brutale affermazione del 1999 di Scott McNealy - "Avete zero privacy. Rassegnatevi" - fino alla sbrigativa conclusione di Mark Zuckerberg sulla fine della privacy come "regola sociale", era emersa una linea caratterizzata dal congiungersi di due elementi: l'irresistibilità tecnologica e la preminenza della logica economica. Da una parte, infatti, si sottolineava come le innovazioni tecnologiche e le nuove pratiche sociali avessero reso sempre più difficile la tutela della sfera privata e dello spazio pubblico, legittimando raccolte di dati sempre più imponenti, soprattutto con la giustificazione della sicurezza; dall'altra, l'affermata "morte della privacy" diveniva l'argomento per affermare che i dati personali erano ormai divenuti proprietà assoluta di chi li aveva raccolti. Gli interessi della sicurezza e del mercato occupavano sempre di più l'orizzonte di Internet. Queste certezze sono state sfidate dalla forza delle cose. Il cosiddetto Datagate, le rivelazioni di Edward Snowden sulle schedature planetarie operate dalla National Security Agency, ha determinato una reazione diffusa, mettendo in discussione la legittimità di una sorveglianza di massa che non viola soltanto i diritti individuali, ma spinge verso una società del controllo. In questa stessa direzione si è mossa la Corte di Giustizia dell'Unione europea che, con una sentenza dell'8 aprile, ha cancellato una direttiva Ue sulla conservazione dei dati personali che, giustificata appunto con esigenze di sicurezza, violava la Carta europea dei diritti fondamentali sulla tutela dei dati personali. E poche settimane dopo, il 13 maggio, sempre la Corte di Giustizia ha pronunciato una sentenza, riguardante Google, nella quale si legge che i diritti fondamentali riconosciuti dagli articoli 7 e 8 della Carta, che sono norme vincolanti, "prevalgono sull'interesse economico degli operatori dei motori di ricerca". L'impostazione finora seguita appare capovolta. I diritti fondamentali, sacrificati in nome degli interessi della sicurezza e dell'economia, assumono valore prioritario, e così viene indicata una precisa gerarchia da rispettare quando si opera un bilanciamento tra quei diritti e interessi di altra natura. Viene così definito uno spazio costituzionale, riconoscendo alla Carta dei diritti fondamentali il ruolo che le compete, avendo lo stesso valore giuridico dei trattati. E questo cambio di passo è stato registrato dalla nuova Commissione europea, che ha attribuito al suo primo vice-presidente, Frans Timmermans, una esplicita competenza per l'attuazione della Carta. È questo il contesto mutato che spiega l'attenzione rinnovata per un "Internet Bill of Rights". Il "padre" della Rete, Tim Berners-Lee, sta lavorando proprio intorno a una Magna Carta per Internet. E una commissione istituita dalla Presidente della Camera dei deputati ha elaborato una Dichiarazione dei diritti di Internet, per la quale è aperta una consultazione, e che ha una caratteristica che la differenzia da tutte le altre iniziative in materia (il Berkman Center di Harvard ne aveva contate 87): siamo di fronte a un testo nato in una sede istituzionale e che, proprio per questa sua natura, sta destando grande interesse al di là dei nostri confini. Uno spazio costituzionale, dunque, si è aperto. Come riempirlo? Qui la partita si fa difficile e chiama in causa in primo luogo l'Unione europea, che da due anni discute un regolamento che vuole rinnovare la disciplina sulla tutela dei dati personali. Riusciranno le istituzioni europee a liberarsi da timidezze e pressioni e ad approdare a un regolamento pienamente coerente con i principi e i diritti che esse stesse hanno messo al centro dell'attenzione? La questione è essenziale, perché l'innovazione costituzionale è destinata ad incontrarsi sempre più direttamente con le incessanti innovazioni rese possibili dalla tecnologia. Ci si interroga intorno agli effetti dei "Big Data", espressione che non descrive soltanto la crescita quantitativa delle informazioni raccolte, ma nuove modalità della loro gestione, con effetti nelle più diverse dimensioni della vita sociale. Se non si vuole che qui si riproducano, persino ingigantiti, i rischi di concentrazioni incontrollabili di potere, di controlli sempre più capillari e diffusi, è indispensabile disporre dell'attrezzatura istituzionale necessaria che ribadisca la necessità che i Big Data vengano utilizzati in un ambiente che non perde il suo fondamento. Così Stefano Rodotà su la Repubblica.