Fra le voci del nostro Novecento

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Appuntamento con la cultura, il secondo, per calarci nella temperie del pensiero e dell’arte del  secolo scorso  e lo facciamo nuovamente,  attraverso la mostra allestita  nei Saloni delle Feste di Palazzo Imperiale, a Genova: “I Profeti inascoltati del Novecento”, promossa dall’Associazione Domus Cultura, il cui presidente è Rodolfo Vivaldi. I loro  volti sono quelli disegnati da Dionisio di Francescantonio, Sergio Massone, Vittorio Morandi e Lenka Vassallo. Rughe segnano in maniera decisa la sua bella fronte e  profonde occhiaie cerchiano gli occhi  dello scrittore  Albert Camus che ora incontriamo per primo. Saggista, novellista, romanziere, drammaturgo a quarantaquattro  anni ricevette il premio Nobel per la letteratura. Il suo famoso romanzo la Peste è una potente riflessione sul Male, attraverso l’allegoria del contagio, attualissima proprio nella nostra contemporaneità. Come il male anche la peste rimane latente aspettando l’ambiente propizio per una nuova esplosione. Il dottor Rieux, il narratore, è un uomo in rivolta, che nella lotta all’epidemia trova un’occasione per combattere l’assurdo della vita. L’uomo diventa un eroe, l’uomo in generale è chiamato a lottare e a non cedere alla rassegnazione. La Peste è un classico della letteratura internazionale e antitotalitaria. La scelta del romanziere francese  fu infatti quella dell’impegno, dentro un percorso di vita dove si scontravano il ricordo della bellezza dei luoghi dell’infanzia, invasi dal sole mediterraneo, e la durezza e la violenza delle guerre del ventesimo secolo.  Louis Ferdinand Celine, espressione del romanzo francese degli anni 30’ e 40’, è stato invece un autore controverso, perché se da un lato abbiamo la sua potente critica alle guerre e la consapevolezza della rottura di uno sviluppo lineare della storia, come  nel suo romanzo Viaggio al termine della notte, dall’altro sostenne anche posizioni antisemite. Una sua frase  spiega in maniera essenziale parte del suo pensiero:  “La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire”. Essa  racchiude in parte la coscienza del fallimento dell’essere umano. Alla fine ciò che ci guida dentro le trincee di guerra,  sono gli odori quelli peggiori, quelli più bassi che ci caratterizzano. Ferdinand Bardamu, proiezione dell’autore nel libro,  dirà:  ce qui guide encore le mieux c'est l'odeur de la merde. Un fiore rosso spicca all’occhiello della giacca bianca di Gabriele D’annunzio, il principe del Decadentismo italiano a cui anche il recente film Il Cattivo Poeta del regista Gianluca Iodice ha cercato di dare una lettura ed una interpretazione. Ricche di spunti di riflessione  sono le parole che troviamo nel catalogo della mostra al suo riguardo:  Il Vate inventò parole che sarebbero entrate nel lessico comune, anticipò con la Carta del Carnaro, la Costituzione promulgata a Fiume, un modello di democrazia all’avanguardia, rese il gesto bellico spettacolare con il volo su Vienna, innovò il ruolo dell’intellettuale nei confronti delle masse e ne cambiò radicalmente i metodi di comunicazione, a mo’ di un influencer ante litteram, e pensò a un testamento duraturo e condiviso come il Vittoriale, il suo ultimo capolavoro fatto di pietre e non di parole, non tanto una casa-museo per se stesso, quanto un lascito di bellezza per tutta la nazione. La rassegna è stata curata nei testi da numerosi  studiosi che mi sembra corretto citare: Gianfranco Andorno, Giorgio Ballario, Simonetta Bartolini, Davide Brullo, Pietrangelo Buttafuoco, Riccardo De Benedetti, Gianfranco de Turris, Dionisio di Francescantonio, Fabrizio Fratus, Luca Gallesi, Alessandro Gnocchi, Luigi Iannone, Andrea Lombardi, Adriano Monti Buzzetti Colella, Miriam Pastorino, Guido Pautasso, Roberto Pecchioli, Alex Pietrogiacomi, Emanuele Ricucci, Alberto Rosselli, Andrea Scarabelli, Adriano Scianca, Simonetta Scotto, Luca Siniscalco, Stenio Solinas, Manlio Triggiani, Gianluca Veneziani e Rodolfo Vivaldi. Concludiamo questo secondo sguardo alla cultura del nostro Novecento con l’artista  Giorgio De Chirico,  Pictor Classicus e Pictor Optimus, come egli stesso amò definirsi.L’arte in De Chirico fu una ricerca sapiente che si svolse durante tutta la sua vita. Fu un voler guardare oltre, al di là del visibile. Una vena di provocazione più o meno sottile attraversa l’intera sua  opera  che presenta  ai nostri occhi piazze vuote popolate da architetture, misura   esse stesse dello spazio, geometrie in primis che recuperano il significato originario di questa scienza: misura della terra, ossia del luogo in cui viviamo. O forse non viviamo più. La piazza simbolo di socialità ribalta il suo significato di momento d’incontro. Nessuno, o solo qualche statua e manichino riempiono di nuovi significati quegli spazi. Sono i luoghi ancora una volta della nostra contemporaneità appena trascorsa, dei mesi che ci hanno visti all’interno delle case, come rifugio contro la nuova epidemia. De Chirico, l’inventore della Metafisica, l’amico dei Surrealisti,  non ha mai smesso di richiamare l’importanza dell’inestimabile valore della nostra tradizione artistica e soprattutto del “mestiere”. Anche oggi, in cui da più parti si levano critiche all’operare degli artisti moderni,  la riproposta di De Chirico diventa una maniera di metterci discussione. Leggendo il catalogo della rassegna ci viene suggerito proprio questo dilemma: Egli con i suoi ripetuti rappel à l’ordre e il suo esempio di ritorno allo studio di tecniche e modi del Rinascimento, il cui frutto è il suo Piccolo trattato di tecnica pittorica (uscito a Parigi nel 1928),diventa il nemico giurato del modernismo con tutte le sue ricadute di perdita di qualità e di impegno, fino a scadere decisamente nell’impostura e nell’esaltazione del futile, dell’inutile, del brutto e perfino dell’orrido, ciò che continuiamo ad osservare e a patire anche ai nostri giorni.

Patrizia Lazzarin,  28 dicembre 2021 

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Oro e colore nel cuore dell’Appennino

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Allegretto Nuzi e il ‘300 a Fabriano. Oro e colore dentro il sacro, sui volti e sulle vesti delle Madonne e dei Santi, per restituirci la poesia del misticismo della pittura trecentesca, ma anche la temperie culturale di quel momento storico. In questi giorni in cui si rinnova la magia dell'epifania del divino, è interessante ricordare l'esposizione dedicata ad Allegretto Nuzi e all'arte del 300' nell'area di Fabriano, nelle Marche, che continuerà ad essere aperta fino al 30 gennaio 2022. Dopo sette anni dalla mostra "Da Giotto a Gentile", si è tornati a poggiare lo sguardo sul Trecento, come secolo d'oro dell'arte fabrianese. L'occasione di studio ha preso avvio da alcuni dipinti "nascosti", come la Madonna firmata da Allegretto Nuzi nel 1358, e presente in una collezione privata, e un'altra che si trova in un luogo remoto della campagna inglese, allo Stonyhurst College, ma anche opere come il più noto trittico agostiniano della locale Pinacoteca civica sono state fonti di nuove scoperte. Molto si è discusso e scritto su questo pittore che fu a contatto con molti artisti noti di quel periodo ricco di fermenti, e che operò a Fabriano dal 1347 fino alla sua morte avvenuta nel 1373. L'artista esercitò una grande influenza fra Umbria e Marche, avvalendosi di un linguaggio maturato sulla lezione toscana, che rileggeva gli insegnamenti dei Lorenzetti a Siena e dei giotteschi fiorentini, come Maso di Banco e Bernardo Daddi. Egli con una linea morbida chiude i contorni delle sue figure imponenti ed i suoi volumi torniti possono spiegare benissimo una sua educazione nella Siena di Pietro e Ambrogio Lorenzetti negli anni precedenti al 1346, anno in cui egli compare fra gli iscritti a Firenze all'Arte dei medici e speziali, come "Allegrettus Nuccii de Senis, giustificando così, nell'appellativo de Senis, una sua precedente presenza nella città senese. Nella letteratura d'argomento artistico il pittore è citato tradizionalmente per la ricchezza delle decorazioni, in gran parte realizzate "con la granitura e la punzonatura delle foglie metalliche e con lo sgraffio", come scrive Lucia Biondi nel catalogo a proposito delle sue tecniche pittoriche. La stessa restauratrice è autrice anche del libro Elogio del Trecento fabrianese, dedicato all'opera di restauro del Polittico raffigurante la Madonna col Bambino e Santi del nostro autore, da cui è nata anche l'idea nel 2018 di questa mostra. Con Nuzi si diffonde nell'area adriatica l'iconografia della Madonna dell'Umiltà e la figura del Cristo sulla Croce tocca nuovi vertici di umanità e di commozione. La sua capacità inventiva si tradusse anche nella proposizione di nuovi modelli di piccoli altaroli e polittici per la devozione privata. I suoi tessuti operati, popolati da tartarughe e fantasie di uccelli, con cui abbiglia le sue figure sacre, come nella veste rossa bordata d'oro del San Venanzio del trittico del 1358 del Museo Diocesano di Fabriano, ci raccontano di un pittore eclettico. La sfida per molti artisti di quel tempo diventava quella di riprodurre gli effetti materici di tessuti ed oggetti che dipingevano. Come lui altri pittori, dai primi del Trecento, si distinsero per questi effetti luministici e coloristici come Simone Martini, Bernardo Daddi e poi Giovanni del Biondo e i fratelli Orcagna. Fra i motivi decorativi abbiamo visto la tartaruga, che richiama la tradizione orientale ed era nella simbologia cinese espressione di saggezza e longevità, mentre nella concezione cristiana diventava un animale sporco di fango, simile a colui che vive nel peccato, come leggiamo anche negli scritti di Sant'Agostino e di Santa Brigida di Svezia. Per il committente poteva così diventare simbolo dell'aspirazione dell'anima alla redenzione attraverso la sconfitta del Male. Le lacche cremisi sul rosso delle partiture cromatiche di trittici e polittici dovevano poi far sembrare la pittura di Nuzi simile ad uno smalto. Si avvalse anche della collaborazione di pittori fiorentini come Puccio di Simone che lavorò con lui per un anno, fra il 1353 e il 1354, e si confrontò sicuramente con i fratelli Andrea e Nardo di Cione, più noti con il nome di Orcagna. Accanto alle sue opere su tavola, a Fabriano possiamo ancora ammirare i cicli di affreschi nella tribuna della chiesa di San Venanzio e in Santa Lucia Novella, in cui si coniugano il respiro monumentale delle costruzioni grandiose, anche se semplificate, con il gusto per il dettaglio. Il piacere della ricca decorazione nei dipinti di Nuti si alterna anche ad estese campiture, dove i colori sfumano uno sull'altro con delicatezza, accordandosi nelle cromie ben studiate, e producono idealmente un suono che diventa melodia che ispira l'anima sensibile dello spettatore. Fra i suoi colori l'azzurrite e i lapislazzuli di cui riveste i manti delle Madonne, l'ocra dorata e luminosa, il rosso ricavato dal cinabro intensificato dalla lacca cremisi, i verdi campiti con verderame, ma anche mescolando azzurro e giallo, e poi il violetto che fa da contraltare spesso al giallo. La sua capacità di armonizzare le tinte, come quando accosta il rosa al verde tenerissimo, si completa con le dorature finali a mordente, colorate spesso con il bianco e rese dense per creare un effetto a rilievo, come osserviamo nelle stelle che trapuntano la veste della Madonna del pentittico della Pinacoteca Civica "Bruno Molajoli", a Fabriano. Alla rassegna a cura di Andrea De Marchi e Matteo Mazzalupi si collega anche l'esposizione su Ottaviano Nelli a Gubbio, a cura dello stesso Andrea De Marchi e Maria Rita Silvestrelli. "Un percorso che unisce Gubbio con Fabriano grazie alle opere e alle ispirazioni di due artisti protagonisti ognuno a proprio modo della storia dell'arte del '300 e del '400 delle due parti dell'Appennino: Nuzi e Nelli. Un Appennino che finalmente unisce anziché dividere", ha voluto spiegare il sindaco di Fabriano, Gabriele Santarelli.

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I profeti inascoltati del Novecento

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Il secolo appena trascorso con la sua straordinaria effervescenza in molti campi dello scibile umano, con la sua carica di novità che ha saputo introdurre e sperimentare e, con il verificarsi di avvenimenti epocali che hanno cambiato la fisionomia del mondo, è il Tempo di una rappresentazione, di un teatro vorremmo dire quasi, che ha come soggetti principali, come illustra anche il titolo della mostra che è visibile da questo fine settimana, nei Saloni delle Feste di Palazzo Imperiale, a Genova: “I Profeti inascoltati del Novecento”. Arte e letteratura si stringono insieme per tornare a discutere sul pensiero e sull’umanità di quasi cinquanta poeti, filosofi, artisti, scrittori e giornalisti, la cui mente critica ha permesso anche a noi di rileggere il mondo e la nostra esperienza di vita alla luce di ulteriori conoscenze. Miriam Pastorino, vicepresidente dell’associazione Domus Cultura che ha promosso la rassegna, spiega e scrive nel catalogo edito da Italia Nostra: abbiamo scelto, senza presunzione alcuna di essere esaurienti, di selezionare un numero abbastanza significativo di personaggi: filosofi, saggisti, scrittori e rappresentanti delle maggiori arti, soffermandoci su un messaggio o un particolare delle loro opere che può tornarci utile a guardare in faccia la realtà con cui dobbiamo confrontarci. Il catalogo che reca anche una prefazione di Vittorio Sgarbi ci mostra i visi che potremmo meglio ammirare nelle sale del palazzo genovese, di questi protagonisti del Novecento, dipinti e disegnati da Dionisio di Francescantonio, Sergio Massone, Vittorio Morandi e Lenka Vassallo, che ci permettono quasi di interloquire con il loro sguardi. Il progetto editoriale appartiene ad Andrea Lombardi. Gli autori meritano tutti un momento di attenzione e si è scelto quindi di non ometterne nessuno. Inizierò a raccontare di alcuni di essi prendendo spunto dalle loro storie, e ci ritroveremo con cadenza settimanale a fare focus sugli altri per non dimenticare un pensiero che potremmo anche non condividere, ma che rimane espressione della capacità di ricerca e del bisogno di conoscenza della mente umana. Proprio ragionando sul Male, in questa nostra terra afflitta dal Covid, ma anche dalle tante incertezze che ne sono derivate, diventano una risposta le parole di una di questi eminenti pensatori del Novecento: Hannah Arendt. Lei scrive: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, … che non possegga né la profondità, né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo; esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici e, nel momento in cui cerca il male, rimane frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere integrale”. Ognuna di queste riflessioni, ponderata per cercare di capire l’Olocausto, rimane efficace per spiegare la superficialità delle azioni malvagie e in apparenza non comprensibili. Un’altra donna la cui sensibilità ha superato i confini delle nazioni è sicuramente Anna Andreevna Achmatova. “Volle condividere sino in fondo il destino del suo popolo, le stesse ferite sulla carne: il dramma del primo, amatissimo marito, le vicissitudini del figlio lungamente imprigionato, il forzato silenzio imposto dal regime. Scrisse “no, non sotto un cielo straniero / non al riparo di ali straniere; / io ero allora con il mio popolo. / Là dove per sventura, il mio popolo era”. La Cvetaeva la chiamava “Anna di tutte le Russie” e davvero fu la regina della poesia della sua immensa Patria sofferente”. Vissuta anche nei tempi della dittatura sovietica di cui sperimentò la brutalità, questa donna, appassionata di Dante e della cultura italiana, seppe conservare la sua identità spirituale e tradurla nei suoi versi. Vediamo poi, lo sguardo acuto e al tempo stesso la smorfia di un sorriso che diventa ironia, di uno dei più grandi registi non solo del Novecento, ma anche del cinema internazionale: Ingmar Bergmann. Una lezione cinematografica, la sua, che tiene in considerazione i grandi autori letterari della modernità da Marcel Proust a Thomas Mann, da August Strindberg a Luigi Pirandello. Nelle sue storie “l’amore, pur con le sue delusioni, è l’unico antidoto contro la solitudine e l’aridità dell’anima, quell’aridità che deriva dagli steccati che erigiamo tra noi e gli altri e che finisce per privarci della nostra umanità. Compare così la nostalgia per la gioia non più provata verso ogni quotidiana avventura, la paura della morte e del buio oltre la morte e l’attenzione verso l’animo femminile a cui l’uomo, nei momenti privilegiati di autentica comunicazione, può chiedere soccorso per lenire le sue amarezze e i suoi timori”.

Lo scrittore Georges Bernanos  nato a Parigi il 20 febbraio 1888 e morto a  Neuilly-sur-Seine  il  5 luglio 1948 è  forse l’autore cattolico esemplare, forse il più grande tra francesi ed europei.  I personaggi dei suoi romanzi sono impegnati in una strenua lotta interiore fra il Bene e il Male. “Le insufficienze, i tradimenti, le perversioni del pensiero e delle azioni degli uomini europei sono scandagliate e indagate senza alcuna paura di apparire a volte ingiuste, scandalose, anche arrischiate e improvvide. Quello che gli sta a cuore è la sorte dell’anima, prima francese, poi europea e, infine, umana.” Una delle voci poetiche più alte del nostro Novecento: Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo, fu anche traduttrice e critica, strinse amicizie con intellettuali europei di grande spessore e fece conoscere Simone Weil in Italia. Le sue Lettere a Mita, sono uno degli epistolari  più affascinanti della letteratura italiana, dove comprendiamo la storia di un’anima che soffre per la meraviglia e al tempo stesso il dolore della vita. Chiudiamo questo primo confronto con i grandi del Novecento con Jorge Luis Borges, lo scrittore di nazionalità argentina,  considerato il fondatore  del realismo magico. “La sua fu letteratura filosofica, nutrita di una cultura sterminata, trasfusa nei racconti con leggerezza, in dosi successive. L’effetto è un’invenzione continua, un viaggio ardente intorno a temi universali trattati con un’eleganza, un rigore formale, una classicità unici: il tempo, l’eternità, la morte, la personalità e lo sdoppiamento, la pazzia, il dolore, il destino, fusi nel sentimento dell’unicità dell’esperienza individuale e nel labirinto inestricabile dell’immaginazione”. Molti sono gli scrittori, o cantanti come Vecchioni e Guccini che si sono ispirati alle sue opere, come anche filosofi, tra cui Michael Foucault che nel suo saggio Le parole e le cose cerca  l’origine delle scienze umane.

Patrizia Lazzarin, 19 dicembre 2021

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