Assassinio nella cattedrale al Teatro Olimpico di Vicenza

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Lo scenario profondo del Teatro Olimpico di Vicenza con le sue scultoree architetture è divenuto il luogo del sacro in Assassinio nella Cattedrale. La tragedia  consumatasi nel lontano Medioevo e, trasformatasi in  poesia nell’opera di Thomas Stearns Eliot, è stata trasposta in sentimento nello spettacolo di  Moni Ovadia e Marianella Bargilli, in questi giorni a Vicenza. Protagonista esemplare, l’artista di cultura ebraica Ovadia assieme a Bargilli, ma tutto il cast della rappresentazione nelle voci e negli animi che facevano da cassa di risonanza alla violenza del potere,  hanno saputo restituirci le sfaccettature complesse dell’animo umano. Ovadia vestiva le spoglie di Thomas Becket, vescovo di Canterbury, assassinato dai sicari di Enrico II nel 1170. Il luogo scenografico fornisce un prezioso ausilio all’incantesimo del momento storico, grazie alla sensazione prodotta dalle altezze degli eleganti palazzi in prospettiva che ci  convincono  di essere proprio giunti sulla soglia di una cattedrale inglese che, nella sua tipicità di costruzione gotica si innalza solenne  verso il cielo. Dentro la chiesa Becket venne ucciso perché non accettava le interferenze da parte del re nella sfera religiosa del suo ministero. Potere dei sovrani e governo dei vescovi, potere laico e sacro affilano le loro diverse armi negli anni più tormentati del Medioevo. Il concordato di Worms, noto anche come Pactum Calixtinum, stabilì dopo molte contese il riconoscimento dell'autonomia del papato nei confronti del potere imperiale e fu stipulato a Worms in Germania, il 23 settembre 1122, fra il sovrano del Sacro Romano ImperoEnrico V di Franconia e il papa Callisto II. Si poneva così  fine alla lotta per le investiture iniziata trent’anni prima tra Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV. Da allora l’anello e il bastone pastorale, emblemi del potere spirituale sarebbero stati conferiti dal Papa. Poco meno di cinquant’anni separano questo evento di cruciale importanza storica, da quello violento che è stato in messo scena in questi giorni, ma ancora meno tempo, solo cinque anni, dividono la prima rappresentazione del dramma di Eliot, nel 1935 nella sala capitolare della stessa Cattedrale di Canterbury, dalla seconda guerra mondiale causata dalla follia nazista  indifferente alla libertà dei popoli. Le voci del coro provenienti da un pio gruppo di donne, tra cui si riconosceva Marianella Bargilli, condensavano il senso tragico della vita e la percezione dell’imminenza della catastrofe che sembrava in ogni momento togliere la tranquillità del vivere. La violenza in agguato, il timore dell’ignoto e poi la fragilità dell’essere umano che si sente a volte oppresso e non sempre amato da qualcosa che è più grande di lui o, ancora dal vicino prepotente che gli strappa ciò che più gli è caro o serve alla sua sopravvivenza. Siamo nel Medioevo, ma in alcuni luoghi del mondo e in scenari non molto distanti da noi,  il più forte per mezzi spesso schiaccia l’uomo qualunque, il cui  maggiore anelito è vivere. Torniamo sulle scene, fra le voci della gente. Cosa sarà delle loro vite nello scontro fra i baroni, il re e il vescovo quando quest’ultimo tornerà? L’arrivo del cardinale a Canterbury, dopo un lungo viaggio in Francia, è seguito immediatamente da quello di tre uomini che fanno le veci dei Tentatori. Essi  ricordano a Becket i piaceri della vita, il suo ruolo politico quando era cancelliere del monarca e uno  di loro gli propone la ribellione.  Gli chiede “di unirsi a loro, i baroni”, in funzione antimonarchica. L’arcivescovo, ma anche uomo, allontana queste possibilità. Egli è tentato soprattutto dal martirio che lo avvicina all’esempio di Gesù, figlio del Dio Onnipotente. Peccato d’orgoglio … Le pie donne e lui si interrogano su agire e soffrire, sulla relazione fra azione e sofferenza e il binomio si fortifica e non si spezza nel dialogo. Nel sermone di Natale Thomas Becket ribadisce questo concetto e aggiunge che “il martirio fa parte del disegno di Dio e non è espressione della volontà dell’uomo”. Il ritorno dei Tentatori, diventati ora sicari mandati dal re, provoca la difesa da parte dell’arcivescovo del suo operato di fronte a un invisibile monarca ed è un’affermazione, al tempo stesso, dell’indipendenza del potere spirituale.  Si trasforma  in una  ricerca dentro il suo animo  nella consapevolezza dell’imminente epilogo del suo viaggio umano. Dopo la sua tragica fine, le donne esprimono il loro dolore unito al semplice desiderio  di rimanere gente comune e a non diventare delle eroine. Sull’altra riva del fiume dell’esistenza che scorre ininterrottamente, gli uccisori giustificano la loro azione con la superiore Ragion di Stato. La tragedia che ha aperto la stagione del Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, è stata eseguita ieri sera e lo sarà il 2 ottobre alle ore 18 da Romeo e Giulietta  e il 29, 30 settembre e il 1 ottobre, alle 21, da Prometeo con Gabriele Vacis e Pem. Il programma degli spettacoli, la cui direzione artistica è di Giancarlo Marinelli, proseguirà con varie date fino a oltre la metà di ottobre. Un accenno ad essi solo con i titoli: Filottete dimenticato, Milk Wood, Histoire du Soldat, la Voix humaine e poi Assassinio nella Cattedralea Vicenza di cui tutte informazioni sono reperibili nel sito http://www.classiciolimpicovicenza.it/

Patrizia Lazzarin, 26 settembre 2022

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Siamo arrivati al punto di liquidare ciò che dice la letteratura quando ci disturba

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“The Waste Land”, autore l’americano Thomas Stearns Eliot, è il testo poetico non dico più bello, ma certo il più famoso, influente, rivelatore del Novecento. Uscì nel 1922, circa un secolo fa, e il suo titolo tematico, “La terra desolata”, era così scandalosamente ammonitore, profetico e sintomatico perfino nella sua ovvietà, che diventò subito un mito irrinunciabile nell’interpretazione che il XX secolo dava e avrebbe continuato a dare di se stesso. Naturalmente la fama del poemetto e gli studi che sono stati dedicati alla sua interpretazione hanno finito per neutralizzarne, per disinnescarne l’esplosiva energia, insieme visionaria e critica. Eliot era e sarebbe sempre più diventato anche uno dei tre o quattro maggiori critici letterari internazionalmente noti del suo secolo (nel presente secolo dov’è la critica?). Parlando della realtà di primo Novecento come di una “terra desolata”, Eliot inventò la forma più adeguata a esprimerla. La guerra del 1914-’18, la rivoluzione russa del 1917, il flagello battezzato allora influenza “spagnola”, avevano trasformato il mondo in un luogo spaventosamente desertificato e caotico, sia angoscioso che ridicolo, in cui la cultura e i suoi conforti si erano ridotti a un mucchio di frantumi e di rovine. Da tempo l’accademizzazione della critica letteraria e degli studi umanistici hanno creato intorno al poemetto di Eliot un cordone sanitario che ci immunizza dalle sue radiazioni. C’è ancora qualcuno che prenda sul serio “La terra desolata”? Siamo arrivati al punto di riderci sopra e liquidare con scetticismo da persone mature quello che dice la letteratura quando ci disturba, anche la letteratura più famosa e canonizzata, o soprattutto quella. Tanto per sostare un momento in territorio Benjamin-Adorno, si potrebbe dire che la cultura come amministrazione si è data proprio questo compito: neutralizzare il “contenuto di verità” delle opere d’arte. Costringiamo i nostri figli a studiarle, quelle opere, per superare gli esami, per guadagnarsi dei titoli professionali e fare buona figura in società. Ma guai a crederci, non serve e non sta bene. Il “vero studioso” non si lascia turbare da quello che studia: la sua corazza professionale è anche una corazza caratteriale, fatta apposta per evitargli il contagio psicomentale che può venire dai libri dei poeti, dei romanzieri, dei filosofi, tutta gente che concede troppo ai sogni, alle fantasie e alle speculazioni teoretiche prive di scopi pratici. Negli ambienti politico-giornalistici la letteratura incontra difficoltà di ascolto diverse ma non minori: resta qualcosa di ornamentale e di strumentale, tutt’al più una risorsa retorica da usare a sostegno delle idee che sono al momento politicamente più utili. Quando per esempio uno Scalfari, principe del giornalismo politico, ci dice che ha letto Proust, non importa sapere se è vero, basta capire che ha, per dirlo, ragioni che non hanno niente a che fare con quello che c’è scritto nella “Recherche”. La mentalità dello studioso e quella del politico in questo si somigliano: non accetterebbero mai di essere trascinati da un’opera letteraria o filosofica oltre i ragionevoli confini del loro mestiere. Tanto per usare concetti assai tradizionali ma anche inevitabili, direi che dalla “bellezza” delle opere d’arte bisogna farsi sedurre e magnetizzare se si vuole essere anche contagiati seriamente dalla loro “verità”. Nel caso di un poemetto arduo come “La terra desolata”, sarebbe il caso di presentarsi alla sua lettura disarmati e spogli di preconcetti, di idee e convinzioni dal cui possesso ci si sente del tutto appagati. Questo perché, credo, anche se ci si mette a cercare una cosa, è bene essere disposti a trovarne inaspettatamente un’altra e a cambiare punto di vista. Gli uomini di scienza e ogni vero ricercatore sanno fare questo. In effetti non sono il primo a notare che il poemetto di Eliot oggi attira subito l’attenzione. Si apre con una sezione intitolata “La sepoltura dei morti” e i suoi primi versi suonano così: “Aprile è il mese più crudele, genera / Lillà dalla terra morta, confondendo / memoria e desiderio (…)”. In questa prima sezione, alla quale di solito ci si ferma, si succedono e si mescolano molte cose. La crudeltà della natura primaverile che rinasce dalla morte invernale e crea un subbuglio cieco e inatteso. Segue un breve dialogo, un po’ frivolo e un po’ snob, fra due ignoti personaggi. Ma al primo stacco il tono cambia e si entra bruscamente in un’atmosfera da profetismo biblico. Noi umani non vediamo altro che “un cumulo di immagini infrante, dove batte il sole” e la nostra ombra che al mattino ci segue e la sera ci viene incontro. La verità che ci verrà mostrata è altra. La voce solennemente anonima annuncia: “In una manciata di polvere vi mostrerò lo sgomento”. Altro stacco: e fra due citazioni in tedesco dal “Tristano” di Wagner, compare il poco decifrabile resoconto di un infelice incontro amoroso. Ancora uno stacco ed entra in scena una certa “madame Sosostris” che illude e truffa la gente con il suo malefico mazzo di Tarocchi. Ma ecco l’esito della prima sezione: “Città irreale, / Sotto la nebbia buia di un’alba d’inverno, / Una folla fluiva sul London Bridge, così tanta / Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta ne avesse disfatta”. Qui Eliot echeggia sia Baudelaire che Dante per introdurre un dialogo grottesco e agghiacciante fra un individuo di oggi e uno che gli fu compagno nella battaglia navale di Milazzo fra romani e cartaginesi, nel terzo secolo avanti Cristo, al quale così si rivolge beffardamente: “Quel cadavere che l’anno scorso hai piantato in giardino, / Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno? (…)”. Ma lo choc arriva qualche verso dopo, quando la sezione si conclude in francese con lo stesso verso con cui nei “Fiori del male” Baudelaire aveva concluso il suo prologo: “Tu, ipocrita lettore! – mio simile, – fratello mio!”. Forse in un nostro giardino quale che sia abbiamo sepolto anche noi qualcosa. Siamo invitati a cercare e riconoscere quale comune ipocrisia ci scambiamo da secoli… Ma non fateci caso, è solo una poesia.

Alfonso Berardinelli – Il Foglio - 17 aprile 2020

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