Settembre andiamo, è tempo di migrare

“Marianeddu!”

Tuonò la voce del professor Sulas.

Marianeddu sobbalzò, aprì gli occhi e sollevò la fronte dal braccio abbandonato sopra il banco. Scattò in piedi e girò intorno uno sguardo stralunato, mentre le risate dei compagni rimbalzavano su di lui come palline sparate da trenta cerbottane.

“Zitti tutti!” tuonò nuovamente la voce.

Poi, con dolcezza, l’insegnante riprese:

“Marianeddu, un’altra volta ti sei addormentato?!”

Guardò con tenerezza quel ragazzetto con le gote arrossate dalla vergogna, gli occhi bassi, i riccioli neri che sapevano di ovile e paglia,scarmigliati e ispidi, i piedi nudi dentro un vecchio paio di scarpe troppo grandi e senza lacci.

“Si dorme di notte, Marianeddu. Tu, invece, che cosa hai fatto la notte scorsa?”

“L’ariete era fuggito e lo siamo dovuti cercare” farfugliò sommessamente.

“Non si dice: lo siamo dovuti cercare.”

“E invece sì, professore. Lo siamo dovuti cercare sennò non potevamo ingravidare le pecore”

“Abbiamo dovuto cercare, Marianeddu; abbiamo dovuto. Non: siamo dovuti”

“Si, professore: abbiamo dovuto cercare l’ariete.”

“Va bene Marianeddu. Adesso siedi, da bravo, apri il libro, rileggi i versi che abbiamo commentato insieme ieri e scrivi un tuo pensiero su quella poesia.”

“Si, professore. Prima leggo e poi scrivo.”

Una vocina pulita e dolce di bambina saputella richiamò l’attenzione:

“Professore, è vero che settembre è anche il mese della vendemmia e della migrazione, verso i paesi caldi, degli uccelli che perciò vengono chiamati migratori?”

“Sì, Beatrice. Brava. Però oggi devi solo scrivere ciò che pensi della poesia di Gabriele D’Annunzio.”

Antonio Sulas continuò per un po’ a passeggiare tra i banchi sbirciando qua e là i quaderni dei suoi alunni e poi andò a sedere in cattedra.

Le giornate erano ancora calde e, dalle finestre aperte, insieme a qualche fastidioso moscone ronzante, entrava il frinire dei grilli.

I ragazzi tenevano il capo chino. Alcuni seguivano con il dito le parole stampate, sillabando sottovoce con aria smarrita. Altri, sollevavano la testa e, con la coda della penna biro in bocca, scrutavano il muro o la campagna fuori dalla finestra, sperando di ricevere dal cielo qualche ispirazione.

Antonio Sulas li guardava, ma aveva smesso di vederli. Davanti agli occhi aveva il mare magico della sua Carloforte. Riusciva persino a sentirne il profumo insieme al canto delle onde. Che cosa ci faceva lui in quella campagna desolata?  Aveva accettato la sua prima supplenza con entusiasmo pronto a mettere in pratica gli insegnamenti di don Lorenzo Milani, il parroco di Barbiana di cui aveva appena finito di leggere Lettera a una professoressa, vademecum di tutti i docenti dell’epoca. Ora, dopo solo venti giorni, si sentiva assolutamente fuori posto, inadeguato. Non aveva idea di come affrontare quei piccoli selvaggi incolti. Provava per loro una grande tenerezza perché erano buoni, spontanei. Vedeva in loro l’innocenza di rousseauiana memoria. A parte Clotilde, Alfredo, Susanna e Beatrice, rispettivamente figli del farmacista, del sindaco, del medico e della levatrice, tutti gli altri erano macilenti, sempre stanchi e parlavano prevalentemente il dialetto. Più di una volta aveva chiamato i genitori per chiedere loro di non caricare i figli di fatiche e lavori tanto gravosi per dei bambini. Se desideravano che studiassero, dovevano assicurare loro le giuste ore di sonno.

“E come facciamo, signor professore? Non siamo signori noi. In casa serve il lavoro di tutti… tocca sacrificare tutti quanti. Kibolinti studiai, studiano lo stesso. Se vogliono studiare, professore.”

“Proprio no. – si ripeteva Antonio Sulas – Questo lavoro non fa per me. Anche la poesia di D’Annunzio… Ma come mi è venuto in mente di proporla a questi bambini. Troppo difficile. È vero che tratta un tema a loro familiare. Ma avrei potuto scegliere qualche altro testo più semplice. Magari anche un articolo di giornale. Cosa possono capire, di questi versi, loro che possiedono un lessico di tre, quattrocento parole?

No davvero, non sono adatto a fare l’insegnante. Meno male che sabato finisce questa supplenza. Questo supplizio. Tre giorni ancora.”

La voce di Fisina venne ad interrompere le sue divagazioni.

“Professore che cosa vuol dire “migrare”?

“Significa spostarsi con il gregge per la transumanza”

“Ah, Professore, sa tramuda…?!”

“Esatto, Carlo. Ma è importante che voi impariate anche le parole italiane: migrazione, transumanza…”

“O su professori – era intervenuto Gianni – A me non servono tutte queste parole difficili in italiano. Le nostre pecore capiscono solo ilsardo e poi, quando le devo chiamare, metto due dita in bocca e fischio.”

Marianeddu si avvicinò alla cattedra con il libro aperto in mano. Era scuro in viso e sembrava stesse per scoppiare in lacrime. Era chiaro che non voleva porre la sua domanda a voce alta, di fronte a tutti i compagni. Incespicando su ogni parola che si sforzava di leggere, quasi sussurrò all’orecchio del professore:

“Non capisco niente! Tutte queste parole…acquanatìa, verga d’avellano, pel tratturo antico,erbal fiume silente, le vestigia… lo so, che ieri lei ha spiegato tutto. Però io non ho sentito nulla. Forse dormivo anche ieri…”

“E come mai, Marianedu, dormivi anche ieri?”

“Perché la notte di prima una pecora si era incastrata, che se non riuscivamo a toglierla, adesso era morta.”

“Forse dovrei correggerlo” – pensò il professore – “Ma, no. E troppo tutto in una volta. Meglio lasciare che esprima i suoi pensieri. Alla grammatica ci arriverà pian pianino. Ci penserà qualcuno dopo di me”.

“Sentimi un po’, Marianeddu, tu hai capito di che cosa tratta la poesia?”

Il ragazzo annuì con un sorriso, senza riuscire a pronunciare una sola parola.

“Allora non preoccuparti delle parole difficili. Esprimi quello che pensi con parole tue.”

Marianeddu tornò al posto e senza più esitare, iniziò a scrivere.

“Mercoledì 20 ottobre 1970. Babbu mio è pastore. Pure mio nonno. Mio fratello non vuole farlo. Io, invece si. Che anche se studio e vaddo all’università voglio fare il veterinario come il dottor Poddighe. Così non lascio mai le mie pecore che non voglio piangere come il signor Gabriele alla fine della poesia.”

Antonietta sollevò la mano

“Dimmi Antonietta. Vuoi chiedermi qualche cosa

“Sì professore.Lo so che non c’entra niente, ma volevo sapere com’è il mare?”

“E bello, ragazzi. Io abito vicino al mare. E quando passeggio lungo il litorale, come scrive il poeta, cioè sulla spiaggia, sento i dolci rumori delle onde. Però, talvolta il mare si arrabbia e allora cambia colore. Da blu, diventa grigio e le onde si sollevano altissime e sbattono contro gli scogli con un gran fracasso. Fa quasi paura, ma a me piace tanto anche così.”

Trentuno paia di occhi affascinati erano puntati su di lui e nello sguardo di ciascuno, Antonio Sulas leggeva stupore, fantasie, sogni.

“Ragazzi, ma davvero, oltre Antonietta, c’è qualcuno di voi che non ha mai visto il mare?” – chiese –

Venticinque mani si sollevarono in un brusio di “io” ripetuti cento volte

“Non va bene per niente. La Sardegna è un’isola. Siamo circondati dal mare. Non possiamo ignorarlo. Mi è venuta un’idea. Ditemi se vi piace. Appena suona la campanella vado dal preside e gli chiedo il permesso di organizzare una gita a Cagliari, per vedere il mare, la settimana prossima”

L’entusiasmo fu incontenibile. Strilli di gioia, battimani, fischi.

“Quasi sicuramente non vi accompagnerò io, perché, lo sapete, sabato vado via. Però, una volta ottenuto il permesso, andrete comunque, con il nuovo professore a vedere il mare. E se sono libero, vi prometto che vi raggiungo a Cagliari. Così passiamo un’altra giornata insieme.”

“Ma professore, perché ci vuole lasciare? Siamo troppo cattivi? Troppo asinelli? Noi non vogliamo un altro insegnante vogliamo lei”

“Voi siete dei bravi ragazzi, ma il mio lavoro con voi finisce sabato”

“E se chiediamo al signor preside che non vogliamo che ci lascia?”

“Che ci lasci, ragazzi. Si dice: non vogliamo che ci lasci” li corresse Antnio Sulaslimitandosi al congiuntivo, consapevole del fatto che ci sarebbe stato da ridire anche sulla scelta di quel “chiediamo”

“Ma poi, come fate a dire che volete me? Ci conosciamo da così poco tempo!”

“Si. – disse Bastianeddu – ma anche ai miei agnellini quando sono nati da poco, io li voglio bene subito.”

“E va bene. Però vedrete che vorrete bene anche al nuovo insegnante.”

Poi, ridendo, aggiunse:

“E magari vi darà da leggere delle poesie più facili e più belle”

“Professore non importa se la poesia è difficile. Candu da liggifustei, è come una canzone.

“Si, come quelle canzoni in inglese della radio che non si capisce niente, però ci piace e la cantiamo lo stesso. Io voglio imparala a memoria e poi cantarla come ce la canta lei.”

Il suono della campanella mise fine a una discussione che, sul piano didattico si stava facendo davvero interessante.

Antonio Sulas si diresse verso la presidenza.

“Professore, buongiorno. La stavo giusto mandando a chiamare. Sono arrivate per lei due proposte di supplenza. Entrambe sono sino alla fine dell'anno scolastico. La prima le piacerà molto. È per la scuola media di Sant’Antioco, proprio vicino a casa sua. La seconda è la riconferma su questa cattedra.

Antonio Sulas rimase in silenzio.

Mille fuochi d’artificio esplosero nella sua testa. Poi, con suo immenso stupore e senza che potesse far nulla per bloccarle, sentì dalla sua bocca uscire le seguenti parole:

“Preside accetto la riconferma su questa cattedra. Ho promesso ai ragazzi di portarli a Cagliari a vedere il mare. Ovviamente, se lei e i colleghi del Consiglio di classenon avrete niente in contrario

Maria Cristina Carboni 2 dicembre 2019

Leggi tutto...

Parkinson, vivere, nonostante tutto

Si legge come un giallo, ma non è  un giallo anche se c'è un colpevole con la sua "vittima". Come un diario o un'autobiografia, ma non è  né l'uno  né  l'altra. In certi capitoli può sembrare una prosa poetica, dove il ritmo e le immagini avvolgono il lettore.
Tutto questo e molto altro è il libro di Maria Cristina Carboni "Ho infilato il mio Parkinson nello zaino"...
Il colpevole è lui, familiarmente chiamato Parky, il "mangiatore di dopamina" che distrugge neuroni, che invalida , contro cui la vittima, l'autrice, combatte ogni giorno da tre anni. Eppure Cristina può concludere la sua narrazione con un 'SI! Credo di essere ancora una donna felice!"
Tutto ciò attraverso un processo doloroso, faticoso, pieno di cadute e di ripartenze, di incontri e di ricordi, ma soprattutto di relazioni umane molto intense.
È un libro da leggere tutto d'un fiato. Non c'è un finale perché la vita continua. Un libro adatto non solo per chi è  malato di Parkinson e per i familiari, con tutti i suoi preziosi consigli -come i quattro pilastri del metodo ReGen - ma per chiunque voglia anche solo affacciarsi sull'abisso della malattia.  E non solo, perché tante sono le parole-chiave per affrontare semplicemente la vita, i suoi dolori e le sue gioie, con accettazione, coraggio, ironia, intensità.

Clara Manca, 3 ottobre 2018

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .