L’uomo dal fiore in bocca

L’uomo dal fiore in bocca

Il bel viso espressivo di Lucrezia Lante della Rovere compare nella penombra del teatro. Al suo corpo stretto in un abito nero stringe un enorme mazzo di erbe di campo e l’eleganza del suo portamento fa da contralto alle piante selvatiche che sembrano essere state strappate ai terreni incolti di una vecchia stazione. Nel sottofondo, una voce dai toni duri e a volte irrisori,  spinge la protagonista in mondi immaginari e immaginati, mentre al tempo stesso le fornisce l’occasione di raccontare il suo dolore. La piece teatrale andata in scena, ieri sera, al Teatro Comunale della Città di Vicenza: L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, rappresentato per la prima volta al teatro Manzoni di Milano nel 1922 e diventato un caposaldo della drammaturgia pirandelliana, consegna alla nostra mente alcuni dei temi sempre scottanti del nostro esistere: il relativismo della realtà che viviamo e la difficile comunicazione fra gli esseri umani. Il testo teatrale che egli aveva tratto da una novella scritta anni prima, dal titolo La morte addosso, è andata ieri sera in scena nella versione di Francesco Zecca.

Nella scrittura originale del drammaturgo agrigentino, l’azione o meglio il dialogo si svolgeva in una stazione dei treni fra un uomo che sa che non gli rimane molto da vivere e una persona che ha perso la coincidenza del treno, ma non si preoccupa minimamente della fine della sua vita. Ecco che la quotidianità acquista un diverso sapore per chi sa di essere condannato a morire. La sua realtà ha caratteristiche  lontane dal comune “avventore” che si trova lì per caso, in quel momento, in attesa. Lo stesso treno, inteso come viaggio, possiede un significato differente per chi osserva o ancora meglio ascolta l’umano che è dentro di noi. Ma qui, nella trasposizione di Francesco Zecca, la protagonista è la moglie, ora vedova di quell’uomo che in Pirandello contava il tempo che lo separava  dall’infinito e da uno spazio  sconosciuto. Il dolore della perdita della vita per l’essere umano si colora ora, di quello intenso e forte di chi a quella persona è destinato a rinunciare per una ragione che non riesce a comprendere.

Sembra un ph acido, intensamente acido  che sulla cartina al tornasole gettata sull’umore della nostra esistenza ne misura il grado di difficoltà. Ricordare e riandare a quei momenti che precedono il momento della separazione diventa un modo di riafferrare gli ultimi brani di vita di quella persona che si è tanto amata. L’interpretazione commovente di Lucrezia che piantava le erbe di campo sullo spoglio giaciglio di terra del marito, durante il suo monologo, raccontava il dolore di chi non si rassegna per la perdita. Un sentimento che rende muta la voglia di vivere e irrigidisce le membra rendendole uguali ai mattoni con cui si costruiscono le case e che rimangono immobili e non “scappano”, mentre sanno che un terremoto è in procinto di accadere. Il desiderio di morire è grande..., ma anche l’istinto di sopravvivenza ogni tanto riaffiora e mostra i muscoli di un Maciste che sente brillare nella sua anima lo spirito della vita. Una corda a cui appigliarsi è l’immaginazione che porta a incontrare gli altri e a interrogarli sui dilemmi dell’esistenza. E ancora sofferenza … La sedia su cui sedeva il marito nella sala d’attesa del medico … Chi si era seduto dopo di lui, cosa aveva pensato, avrà o non avrà avuto una comunicazione senza speranza? Lui, il marito, principale protagonista, prima e dopo  la sua sentenza … Vite felici e tristi: quelle che si svolgono nei salotti eleganti delle case dei medici di successo, mentre vite si struggono sulle poltroncine delle sale d’attesa delle cliniche mediche e degli ospedali.  Ancora una voce risuona alla fine …  Essa, nei toni di una canzone spensierata, sembra suggerire un futuro  forse felice per chi rimarrà ancora a posare i suoi piedi sulla Terra.

Patrizia Lazzarin, 26 marzo 2023

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