I Cavalieri del Corona

Si riparte. Lentamente, a scaglioni, con grandi difficoltà anche organizzative, ma si riparte. L’Italia è più lenta, tuttavia è anche la più colpita e ha praticato una chiusura integrale a differenza da altri paesi. La via cinese seguita dal governo era inevitabile (forse), certo non ha dato i risultati sperati e annunciati; adesso dimostra che riaprire le porte è ben più difficile che sbarrarle. Chi è pronto e chi no? Quali sono i punti di forza sui quali far leva? Il Fondo monetario internazionale ha fotografato un crollo senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale: il prodotto lordo scenderà quest’anno del tre per cento su scala globale e l’Italia sarà il paese più colpito con una caduta di ben nove punti percentuali. La Banca d’Italia stima un tonfo della produzione industriale pari al 15 per cento. Tuttavia, le medie statistiche coprono una situazione molto variegata; la crisi si presenta a macchie di leopardo sia geograficamente sia economicamente e simile sarà la morfologia della ripresa.

Bisogna ricordare innanzitutto chi non ha mai chiuso e compie, sotto uno stress indicibile, questo lungo viaggio attraverso la notte. I medici, gli ospedali, l’intera filiera della sanità naturalmente, ma non solo. In queste settimane di cattività che cosa abbiamo fatto? Ci siamo collegati in teleconferenza per lavorare, studiare e contattare parenti e amici lontani. Abbiamo usato il telefono, la rete internet e la tv come mai prima per quantità e qualità, per quote del nostro tempo, ma anche con modalità nuove e che prima erano marginali. Abbiamo assaltato i supermercati finché non è stata imposta la lunga coda distanziata, abbiamo mangiato pizza e cibo consegnato a domicilio, abbiamo utilizzato i corrieri per scambiarci posta, pacchi e pacchettini, abbiamo tenuto accesi i riscaldamenti per molte più ore del giorno e della notte, siamo andati in farmacia più spesso per comprare prodotti una volta considerati non indispensabili (si pensi ai gel disinfettanti, non solo alle mascherine o ai guanti), né di prima necessità; è scomparsa la vitamina C somministrata in pillole, in confetti, in bustine, c’è stata la corsa alla carta igienica, ai fazzoletti di carta, alle salviettine igienizzanti. Insomma, se analizziamo momento per momento la nostra quotidianità stravolta, troviamo che la pandemia non ha fatto il vuoto, ma ha premiato alcuni e punito altri.

Sopravvivenza, adattamento, selezione, sembra la rivincita di Charles Darwin e la ripresa prenderà le mosse proprio da qui. Sappiamo chi sono i vinti: viaggi, linee aeree (il salvataggio pubblico americano è emblematico), turismo, abbigliamento, piccole imprese, commercio al dettaglio, manifattura tradizionale, è un lungo elenco di produttori e consumatori; soffriranno a lungo e molti non si riprenderanno. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, un miliardo e 250 mila persone rischia di perdere il posto nel mondo intero, circa il 38 per cento degli occupati. Cifre da brivido che campeggiano sui giornali. Ma poco si parla dei cavalieri rimasti in campo sfidando la forza oscura.

Amazon che assume 175 mila dipendenti è l’immagine simbolica dei vincitori. In un mese il suo titolo in Borsa è salito del 35 per cento ed è stato il mese peggiore degli ultimi dieci anni sui mercati azionari. Jeff Bezos ha guadagnato 24 miliardi dall’inizio dell’anno. Zoom è cresciuta del 30 per cento e il fondatore Eric Yan ha raddoppiato il suo patrimonio che ammonta a 7,4 miliardi di dollari; Equinix, Citrix, le imprese specializzate in connessioni internet hanno partecipato al ricco banchetto che ha rimpinzato sia pure in modo diverso tutte le compagnie di software non solo americane (il valore della tedesca Sap è cresciuto in un mese del 19,42 per cento), per non parlare dei giganti come Apple, Facebook, Alphabet. La clausura all’insegna del digitale ha dato una spinta ulteriore a processi già in corso ed è proprio la caratteristica, secondo l’Economist, della presente congiuntura a differenza da altre recessioni. Il capitalismo aveva messo in moto processi economici e sociali che il coronavirus non ha represso, anzi sta accelerando, al contrario da quel che ripetono i profeti del declinismo. Nessuno può sapere come finirà, ogni determinismo storico è bugiardo, tuttavia è quel che vediamo con i nostri occhi se solo li liberiamo dalle accecanti cisposità ideologiche.

Anche le imprese di telecomunicazioni vivono un boom della domanda al quale cercano di dare risposta accelerando la convergenza tra contenuti e contenitori. La crisi, tuttavia, ha aperto un buco nei loro bilanci perché si sono ridimensionati gli introiti che derivano dal roaming mentre l’atteggiamento prudente degli utenti ha ridotto i nuovi contratti. E’ probabile che rallenti il passaggio al 5G, un salto tecnologico che, complottisti a parte, appare a questo punto essenziale. La caduta dei redditi pubblicitari accomuna l’intero mondo dell’informazione, il quale, però, è stato sollecitato come non mai dalla pandemia. I giornali tirano, in particolare i loro siti online, la tv, anche quella tradizionale, accompagna e scandisce le giornate; il canale televisivo o radiofonico è il nostro canale con la vita. Secondo la Nielsen nelle prime tre settimane di marzo gli americani hanno trascorso 400 miliardi di minuti collegati per vedere programmi via internet, con un balzo dell’85 per cento. Netflix, con 68 milioni di sottoscrittori, ne ha assorbiti un terzo, seguita da YouTube.

La rete elettrica si è rivelata più che mai il sistema nervoso della società e dell’economia; ha retto bene, in Italia come ovunque, alla maggiore pressione anche perché si è bloccata la domanda industriale, ma l’accelerazione digitale ha reso ancor più strategica l’infrastruttura elettrica. Lo stesso si può dire della rete internet che ha tenuto sia pure a velocità bassa in gran parte dell’Italia, rispetto alle esigenze, mostrando tutte le sue smagliature. E’ una delle priorità da affrontare, superando i conflitti che ancora impediscono di mettere in piedi una copertura adeguata, veloce e affidabile, in tutto il paese. Il divario tecnologico, non solo geografico o generazionale, è apparso più chiaramente come una delle zavorre più pesanti che bloccano l’Italia.

Debito, deficit, bonus, fondo salva stati, erogazioni assistenziali, tutto importante, anzi decisivo nel breve periodo, ma diventa ormai prioritario favorire quella riconversione che l’economia italiana non è stata in grado di compiere negli ultimi dieci anni. E’ il modello in sé, basato sulla piccola impresa fornitrice dei grandi gruppi multinazionali europei e mondiali, a rivelare le sue debolezze, cominciando dal nord est. La catena produttiva spezzata dalla pandemia sarà ricostruita, ma non come prima. L’export italiano è forte nella meccanica rimessa in discussione da una industria destinata a elettrificarsi sempre più e a contare sempre meno su carbone e petrolio i cui prezzi restano bassi nonostante i tagli alla produzione. Si pensi all’automobile, uno dei comparti messi a terra. Si riprenderà e quasi certamente il mondo ancora infestato di coronavirus vedrà il trasporto privato prevalere su quello pubblico, con un balzo dell’inquinamento. Ciò sarà una spinta ulteriore verso motori a basso consumo e basse emissioni, verso l’ibrido, l’elettrico, o l’alimentazione a idrogeno. Elon Musk s’è riempito le tasche in questi mesi e non solo grazie alla sua astuzia. La filiera italiana dei fornitori, quindi, dovrà cambiare. E bisognerà incentivare il consolidamento, la fusione, la crescita di imprese oggi troppo piccole e fragili per resistere.

La ripresa dovrebbe potenziare la farmaceutica anche in Italia (l’amuchina del gruppo Angelini è diventata un marchio mondiale). Ci sono piccole imprese di assoluta eccellenza come la Advent-Irbm che lavora a un vaccino con la Oxford University, c’è un polo a Pomezia, a sud di Roma, ci sono gruppi di taglia media. Menarini, Chiesi, Bracco, Recordati, Alfasigma nata dalla fusione tra Alfa Wasserman e Sigma Tau, sono i primi cinque, hanno ciascuno un fatturato di oltre mille miliardi di euro, ma nessuno di loro raggiunge i duemila miliardi. La britannica Glaxo supera i 30 miliardi, la tedesca Bayer arriva a quasi il doppio, grosso modo come l’americana Pfizer. Il sogno di creare un campione internazionale con la Farmitalia Carlo Erba è finito nella polvere (venduta dalla Montedison nel 1993, è passata attraverso la Pharmacia, la Upjohn, la Monsanto, la Pfizer, la Johnson & Johnson); ma l’Italia può restare ai margini di Big Pharma? L’industria della salute è ormai una filiera integrata, ricerca e produzione di farmaci sono collegate al comparto biomedico, agli ospedali, alle farmacie, alla ricerca, quindi alle università. Questa pandemia mette in evidenza la necessità di coordinare e riorganizzare l’intero sistema. La sanità come la banca avrà bisogno di un cuscinetto che la metta al riparo dall’emergenza, di scorte strategiche per un settore strategico non meno del petrolio o della Difesa.

La riconversione non attraversa solo la manifattura e i servizi avanzati. Si pensi all’agricoltura: oggi soffre per la mancanza di braccia; in realtà è inconcepibile senza il suo doppio legame con l’industria i trasformazione e con la distribuzione. Nulla di nuovo sotto il sole, di nuovo c’è l’espansione dell’ecommerce e qui il rapporto tra produttore e consumatore può diventare più stretto. Ciò mette in crisi sia il piccolo negozio all’angolo sia il supermercato se l’uno e l’altro non entrano in questo campo. Sta già avvenendo per stato di necessità, può diventare una forma importante, anche se complementare, che amplia il mercato e crea nuove occasioni di lavoro. Quando si legge che la ripresa avverrà con più macchine e meno lavoratori, si ripete un luogo comune almeno bicentenario, e si dimentica che all’anno di disgrazia 2020, gli Stati Uniti, la Germania, il nord Europa come il nord America erano arrivati con una sostanziale piena occupazione.

Un discorso a sé va fatto per le aziende che intermediano il risparmio. Alle banche è affidato un compito arduo, che può rivelarsi persino superiore alle loro forze. Un po’ ovunque, dagli Stati Uniti all’Italia i banchieri fanno da ufficiali pagatori del principe, sono loro a distribuire aiuti, sostegni, prestiti garantiti. La moneta non arriva dagli elicotteri, ma dagli sportelli più o meno virtuali. Nello stesso tempo, toccherà a loro finanziare la ripresa per tutta quella parte, e sarà amplissima se non prevalente, che non può far conto solo sul sostegno statale. Questo aumenta i rischi: quanti crediti concessi non torneranno mai indietro; quanti marciranno per sempre tra i bidoni della recessione? Non tutti potranno essere coperti da debiti pubblici destinati a schizzare in alto di venti-trenta punti rispetto al prodotto lordo (gli Stati Uniti arriveranno al 135 per cento, l’Italia salirà almeno a quota 155 con un deficit superiore all’8 per cento). La Banca centrale europea che le rifornisce di denaro liquido, ha invitato le banche a non distribuire i dividendi per quest’anno in modo da rafforzare il capitale. Chissà se sarà sufficiente. Al contrario, le Assicurazioni Generali hanno deciso di remunerare gli azionisti in due tranche (0,50 centesimi per azione a maggio e 0,45 a fine anno “soggetta a verifica consiliare sulla sussistenza di requisiti patrimoniali e regolamentari”). Le assicurazioni non sfuggono alla crisi (meno incidenti, ma anche meno circolazione, meno impiego dei risparmi a lungo termine, interessi schiacciati verso il basso), e la sfida sanitaria è enorme; tuttavia il loro è un mestiere diverso da quello bancario. Il Leone di Trieste vanta la sua solidità patrimoniale e i buoni risultati ottenuti. La compagnia ha 190 mila azionisti, un quarto sono individui, il 38 per cento fondi e investitori istituzionali; distribuire i guadagni non è un regalo ai grandi soci, ma una scommessa sulla ripresa perché fornisce liquidità a una gran massa di persone. Questo è il messaggio, anch’esso “soggetto a verifica”.

Il ritorno al lavoro non sarà un ritorno al solito tran tran. I guru con un grande futuro dietro le spalle, come Jeremy Rifkind, sostengono che “l’èra del progresso finisce ed entriamo nell’era della resilienza”. Le campane suonano a morto per la globalizzazione da destra come da sinistra. A ogni crisi gli stessi rintocchi, questa volta con tono più grave. Per quel che si può capire (e non è molto) il capitalismo digitale ne uscirà più forte; la svolta nella gestione delle imprese e nei loro obiettivi sarà più netta; la riconversione energetica segnerà, per un lungo periodo, il primato elettrico. Vincerà la corsa chi è più allenato, chi avrà preparato i propri muscoli economici e sociali avendo capito la prova alla quale va incontro. Ciò vale per i comparti dell’economia come abbiamo visto, ma anche per paesi e blocchi economici.

Il coronavirus ha scosso il triangolo delle grandi potenze (Usa, Cina, Ue). L’Europa anseatica, quella che va dall’Olanda fino al Baltico attraversando la Germania, appare oggi più solida e gonfia il petto fino a rasentare l’arroganza. Tuttavia è avvinta all’altra Europa, quella latina, in un groviglio difficilmente districabile. Gli Stati Uniti mostrano una debolezza dell’apparato industriale e dell’economia interna occultata in questi anni dalla frenetica corsa di Wall Street, dall’irrefrenabile espansione delle multinazionali a stelle e strisce, da una classe media che si era ripresa dopo lo choc del 2008-2010. L’America, però, conserva tre leadership indiscusse: quella tecnologica, quella militare e quella monetaria. E quando oggi si parla di stampare moneta per sostenere l’economia mondiale si parla soprattutto di verdi dollaroni. La Cina sta facendo sforzi per farsi perdonare, ma difficilmente si potrà dimenticare la colpa originaria, quella di aver nascosto a lungo il Covid-19, mentre il peso dei debiti occultati finora da una continua e consistente crescita, fa scricchiolare grandi conglomerati. Lo stesso Xi Jinping, che vuole essere l’ultimo imperatore, è apparso debole e incerto. Pechino rischia di perdere la sua storica occasione, altro che Via della seta. Ma ci stiamo spingendo troppo in là e non è davvero tempo di profezie.

Stefano Cingolani – Il Foglio - 18 aprile 2020

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Dr. Fauci e mr. Trump

  • Pubblicato in Esteri

Un’influenza” è stato a lungo il ritornello del presidente degli Stati Uniti Donald Trump), ha messo la lotta al Covid-19 nelle mani espertissime di un luminare della immunologia come Anthony Fauci, 79 anni, italoamericano di Brooklyn, scienziato e funzionario pubblico. E’ lui il Colin Powell, tanto per assecondare la nostra metafora bellica. Suo aiutante di campo, Deborah “Debbie” Birx, distaccata dal dipartimento di Stato dove ha lo status di ambasciatrice, medico militare, sotto le armi dal 1980 al 1994 fino a raggiungere il grado di colonnello, grande esperta, anche sul campo, di virus ed epidemie. Nel 2014 è stato Barack Obama a nominarla alla testa del piano di emergenza per la lotta all’Aids da lui voluto. Ciò poteva renderla sospetta a Donald Trump, ma per lei ha garantito il vicepresidente Mike Pence che l’ha introdotta alla Casa Bianca per coordinare la task force messa in piedi allo scopo di combattere il Covid-19.

Fauci-Birx, il generale e il colonnello, una coppia solida, esperta, affiatata, eppure ha dovuto sudare sette camicie prima di convincere il presidente che la faccenda si stava facendo davvero seria. Tanto da non evitare gli errori iniziali (messaggi pubblici contraddittori, ritardi persistenti nei test e nelle forniture sanitarie necessarie), per colpa dei quali gli Stati Uniti sono precipitati nell’inferno della pandemia e battono giorno dopo giorno ogni record di vittime tra infetti, malati e morti. Ancor oggi il team di scienziati si trova in contrasto con il primo cerchio dei consiglieri politici ed economici che hanno messo in discussione l’accuratezza dei loro modelli, fino al punto da negare l’evidenza, lamentandosi in privato della loro enorme influenza.

Il gioco del potere non si ferma davanti alla morte. E l’entourage trumpiano è perennemente diviso tra i lealisti e gli esperti sui quali viene gettata l’ombra del sospetto. L’ultimo caso riguarda il rimedio miracoloso, l’idrossiclorochina utilizzata, tra le altre cose, contro la malaria. Trump ci crede in base a quelli che egli stesso chiama “aneddoti”. Fauci è contrario: non si fida, non ci sono risultati clinici validi. In realtà, anche qui è in atto un braccio di ferro per ottenere le grazie del sovrano, perché a insufflare il presidente è il cerchio magico formato da fedelissimi come Rudy Giuliani, Larry Ellison e Laura Ingraham, tutte personalità di valore, ma digiuni di immunologia: il primo è un avvocato ed ex magistrato, campione della lotta alla mafia; il secondo, fondatore di Oracle è un guru high tech; la terza non sa nulla di preciso e di tutto un po’, è una conduttrice di Fox News la rete televisiva conservatrice, e proprio lei ha più degli altri l’orecchio di Trump. La settimana scorsa, racconta il Washington Post, ha accompagnato alla Casa Bianca due medici ospiti abituali della sua rubrica in tv, ferventi adoratori della colorochina.

Forse hanno ragione, però Fauci non si piega e non esita a contraddire Trump anche in pubblico, durante i briefing per la stampa. Lo scienziato riprende il presidente il quale trattiene a stento la sua irritazione. Il primo dice che il vaccino è ancora lontano e la situazione non può che peggiorare, il secondo sostiene che ci siamo quasi e a Pasqua sarà tutto finito. Il battibecco tra i due è diventato una situation comedy televisiva, anche se bisogna dire che Trump, impaurito e incerto, è pronto a cambiare rapidamente idea, più presto del solito. “Abbiamo discusso vigorosamente con il presidente di non ritirare queste linee guida dopo 15 giorni, ma di estenderle e ascoltarle”, ha raccontato Fauci alla Galileus Web: “Il dottor Birx e io siamo entrati insieme nell’ufficio ovale, ci siamo chinati sulla scrivania e abbiamo detto: ecco i dati, diamo un’occhiata. Il presidente li ha guardati, ha capito, e ha semplicemente scosso la testa replicando: ‘Credo che abbiamo da fare’”. Il vantaggio è che The Donald, sebbene detesti essere contraddetto (fin da quando era piccolo sostengono i suoi biografi), apprezza l’approccio diretto e chi gli tiene testa lealmente. Una volta ha ricordato l’abilità di Fauci come giocatore di basket, definendo lui e la Birx “grandi geni”, un po’ per celia un po’ per sincerità. La dottoressa colonnello ha un approccio meno frontale, forse perché, sostengono le malelingue, essendo di nomina politica può essere cacciata in ogni momento. In realtà, è proprio la sua formazione militare a spiegare un atteggiamento ispirato a disciplina e obbedienza alla catena di comando, diverso da quello scanzonato e irriverente del proprio mentore.

Il tono è certamente meno terra terra alla corte di sua maestà britannica, ma le tensioni tra politica e scienza non sono minori, anzi sono aggravate dal conflitto interno allo stesso mondo della medicina. All’ombra della “immunità di gregge” che aveva conquistato il primo ministro Boris Johnson desideroso di mostrarsi ancora una volta degno del suo mito Winston Churchill, si svolge lo scontro tra gli scienziati di Oxford e quelli londinesi dell’Imperial College. I primi, guidati dalla professoressa Sunetra Gupta, sostengono, cifre alla mano, che la mortalità del Covid-19 è inferiore rispetto alle stime ufficiali e il visus, il Sars-Cov-2, è meno aggressivo di quel che sembra. Gli altri, guidati da Roy Anderson e sostenuti dal suo protetto Neil Ferguson, hanno rigettato lo studio oxoniense considerandolo “fondamentalmente speculativo”. E mentre gli esperti si schiaffeggiavano a suon di rapporti e contro-rapporti, il governo esitava, gli ospedali si riempivano di malati, la pandemia colpiva a ritmo accelerato, come in Italia, come in Spagna, forse anche di più. C’è chi insinua che dietro lo scontro tra Oxford e l’Imperial College ci siano antiche rivalità: il trait-d’union sarebbe Anderson il quale vent’anni fa, quando era a Oxford, fece pesanti apprezzamenti sull’allora giovane collega Sunetra Gupta, arrivando a sostenere che aveva ottenuto la cattedra perché andava a letto con il capo dipartimento. Ne seguì uno scandalo, Anderson ci rimise il posto e si trasferì a Londra. Non sappiamo se abbia perdonato, certo non ha dimenticato. In ogni caso, alla fine, anche BoJo si è convinto a seguire l’Imperial College, pagando personalmente il prezzo della hybris. La politica al primo posto, ma quando la politica non è in grado di conoscere la realtà, quando in politica prevale l’incompetenza e quando vince la presunzione? Che fare allora, una volta delegittimato chi è in grado di sapere? “Conoscere per deliberare”, il monito platonico di Luigi Einaudi risuona in questi giorni, ovunque, e naturalmente anche in Italia.

Una volta scoppiata la crisi del 2008, la regina Elisabetta con il candore che solo una sovrana può permettersi, chiese ai massimi esponenti della London School of Economics perché mai non avessero capito quel che stava accadendo. Ricevette una risposta compita e contrita, piena di spiegazioni razionali e di una conclusione anch’essa candida, cioè sincera: non abbiamo capito, ci siamo sbagliati. L’episodio torna attuale ora che si scatenano le polemiche sul collasso dei sistemi sanitari e proprio nei loro punti più alti: Milano, Londra, New York. Ci vorrebbe qualcuno altrettanto sincero da porre la stessa domanda e qualcun altro così onesto da rispondere “ci siamo sbagliati”. Invece è tutto un rimpallo di responsabilità: la regione Lombardia, alla quale spetta la gestione della sanità, se la prende con Palazzo Chigi il quale replica elencando giorno dopo giorno le incongruenze e i ritardi di Milano. Intanto, il Veneto gonfia il petto arrogandosi un modello più efficace. Bella forza, replicano i lombardi, da voi si è abbattuto un temporale, su di noi un uragano. E sì che anche il governo giallorosso si è affidato a un quartetto di esperti: Walter Ricciardi, consulente numero uno, proviene dall’Università cattolica e dal policlinico Gemelli, attore per diletto, politicamente vicino a Luca Cordero di Montezemolo ai tempi di Italia Futura; accanto a lui Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità; Angelo Borrelli, un funzionario pubblico, capo della Protezione civile, è il controllore supremo; Domenico Arcuri, sceso in campo per ultimo, fa il commissario straordinario. Insomma, due medici e due amministratori. Nemmeno loro si trovano sempre d’accordo, le dichiarazioni televisive sono talvolta contraddittorie, i messaggi confusi, ma bisogna capire che Fauci-Birx, il generale e il colonnello, hanno dovuto sudare per convincere il presidente che la faccenda si stava facendo seria.

La politica al primo posto, ma quando in politica prevale l’incompetenza oppure quando vince la presunzione, come si fa?

Anche in Italia, ora che appaiono barlumi di speranza e serve una road map per la fase due, sono tornati gli scontri tra politica e scienziati nessuno possiede la ricetta, finché non ci sarà (se ci sarà) il vaccino o finché non verrà trovato un cocktail di farmaci efficace, come per l’Aids.

L’idea di mettersi nelle mani di personalità super partes è senza dubbio corretta. Tuttavia questo continuo ripetere “lo dicono gli scienziati, ci affidiamo alle loro decisioni” può sembrare un modo per diluire le responsabilità ultime che sono di chi decide sullo stato d’eccezione. Ora che appaiono barlumi di speranza ed è arrivato il momento di scegliere se e quando riaprire le gabbie in cui siamo rinchiusi da un mese, politica e scienza tornano a dividersi. Prima è cominciata la cacofonia. Poi il dissenso. Ricciardi è netto: “Sconsiglio l’apertura di fabbriche e scuole”. Conte replica: “Non siamo in Cina, la gente non può stare troppo a lungo in casa”. Gli industriali premono: “L’economia deve ripartire”. I sindacati frenano: “La salute innanzitutto”. Gli unici a tacere, sconfitti dalla falce nera del Covid-19 sono i no vax. Ma non per molto, siamo pronti a scommetterlo.

La gestione del dopo, la riapertura progressiva, è ancora più difficile. Passare dalla strategia della soppressione a quella del contenimento flessibile è rischioso (a Singapore siamo alla terza ondata, a Hong Kong alla seconda, in Cina il virus si sposta da un distretto all’altro) e soprattutto estremamente complesso, richiede controlli a tappeto e la mobilitazione di una struttura sanitaria oggi sotto stress e in pieno collasso nelle regioni più colpite, dalla Lombardia all’Emilia. Affinché riesca occorre una collaborazione stretta tra tutte le istituzioni e la politica, ci vuole soprattutto fiducia negli amministratori e negli esperti. Torniamo così a Clemenceau. Si potrebbe replicare che la pace è troppo seria per lasciarla ai governi, del resto il vecchio radicale francese fu tra i protagonisti del rovinoso trattato di Versailles che nel 1919 emarginò l’Italia vincitrice e aprì la strada a Mussolini, ma soprattutto umiliò la Germania, innescando quel sentimento di rivalsa cavalcato dai nazionalisti e da Hitler. Allora, attenti al primato della politica, che ha le sue ragioni anche se la ragione talvolta non riesce a comprenderle.

Stefano Cingolani  - Il Foglio – 13 aprile 2020

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Gli eserciti della salvezza

Le Idi di marzo nell’anno di disgrazia 2020, saranno ricordate come il giorno in cui il mondo intero si è bloccato, messo sotto sequestro per difendersi dalle forze del male. E’ stato nel fine settimana tra il 14 e il 15 del mese, infatti, che tutti, anche i più riluttanti, hanno sbarrato le porte e alzato i ponti levatoi. Che altro si poteva fare? Siamo in guerra e bisogna mettere sacchetti di sabbia alle finestre. Ma in guerra non basta difendersi, per vincere bisogna contrattaccare, quindi ci vogliono grandi eserciti ben preparati. Il primo fronte è quello sanitario il secondo quello economico perché alla pandemia non segua una carestia. Le Banche centrali hanno cominciato a stampare moneta a più non posso, i governi la distribuiscono e si indebitano. Non ci sono scappatoie, lo ha scritto Mario Draghi sul Financial Times: “Fronteggiamo una guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza… Livelli di debito pubblico molto più alti diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato… l’alternativa sarebbe una distruzione permanente della capacità produttiva e della base fiscale”. L’ex presidente della Bce chiede “forza e rapidità” di intervento da parte dei governi e delle banche che debbono concedere crediti anche senza interessi garantiti dallo stato, quanto all’Europa deve sostenere una causa comune. Soprattutto invita a “cambiare mentalità”, l’armamentario ideologico e dottrinario del passato oggi non serve. L’articolo colloca Draghi in testa all’esercito della salvezza che si affanna a scongiurare la peggiore sconfitta del mondo civilizzato; è un altro “whatever it takes” destinato ad avere un effetto politico anche in Italia. La Ue ha sospeso il patto di stabilità, ma a questo punto bisogna chiedersi se serve così com’è. Il Meccanismo europeo di stabilità è davvero efficace e a quali condizioni? Occorre creare nuovi strumenti per indebitarsi ancora e indebitarsi meglio. Salvati dai debiti, sembra un paradosso, ma tutte le guerre sono state finanziate così. I governi non si sono mossi per primi. A far da avanguardie, ancora una volta, le Banche centrali, in Cina, in Giappone. L’Occidente ha perso tempo, poi si è svegliata la Federal Reserve seguita dalla Banca d’Inghilterra e dalla Banca centrale europea. Il costo del denaro è stato portato vicino allo zero, la Federal Reserve ha deciso di acquistare titoli pubblici e privati senza alcun limite, più timida la Bce ha messo sul tappeto mille miliardi di euro, poi si è corretta seguendo l’esempio americano. I banchieri centrali hanno abbastanza munizioni? Philipp Hildebrand, vicepresidente di BlackRock il più grande fondo di investimento al mondo, ed ex presidente della Swiss National Bank chiede “un approccio coordinato in cui i governi forniscono i fondi necessari a famiglie e imprese, mentre le Banche centrali saranno chiamate ad assicurare che i tassi di interesse non crescano in modo incontrollato. Parte di questo compito riguarda l’acquisto di titoli su larga scala direttamente dal mercato”. Christine Lagarde ha sbagliato nel dire “non siamo qui per combattere lo spread”, non solo per la sua ruvidezza e perché ha fatto uno sgarbo all’Italia, ma anche perché la presidente della Bce non ha colto la sostanza del problema: un aumento dei rendimenti e dei tassi di mercato, crea una stretta creditizia mai vista perché le imprese e le famiglie non sono in grado di restituire i prestiti né di ripagare immediatamente le imposte sospese. “Il mestiere di banchiere centrale deve essere reinventato in modo radicale”, insiste Hildebrand, “è tempo di coordinarsi con i governi di fronte a una espansione senza precedenti del debito pubblico”. Questo significa garantire direttamente i buoni del Tesoro. La Fed lo ha già annunciato e si sta muovendo, sulla scia della Banca centrale giapponese, verso un controllo della curva dei rendimenti. Secondo molti analisti “in sostanza sta nazionalizzando i mercati”. E la Bce che cosa farà? E’ la fine del divorzio come è stato chiamato in Italia? Il ritorno alla normalità richiede che i debiti vadano ridotti e i titoli rimessi sul mercato, ma la ritirata potrà avvenire una volta vinta la battaglia. La moneta serve per non far restare a secco le famiglie che perdono i loro redditi e le imprese che perdono le loro entrate. E’ lo choc da domanda, ma attenzione, siamo in presenza di un secondo choc che è la vera causa del primo: si è spezzata la catena della produzione, quella internazionale ormai essenziale, e di conseguenza quelle nazionali. Dunque, la crisi viene anche dal lato dell’offerta e contro questa bisogna far scendere in campo truppe diverse con armi diverse. Le Borse non hanno creduto alle Banche centrali, aspettando che scendesse in campo l’artiglieria e tuonassero i cannoni dei governi. Ancora una volta i mercati finanziari anticipano i movimenti profondi non perché manovrate da pochi lupi di Wall Street o dagli gnomi di Zurigo, ma perché mosse dalle aspettative, dagli interessi, dai desideri e dalle paure di milioni e milioni di persone, dal tolstoiano “movimento dei popoli” sia pur dentro la cornice del capitalismo. Gli americani hanno fatto partire gli elicotteri per gettare moneta non bombe al napalm come in “Apocalypse now”, rispolverando un’idea enunciata da Milton Friedman nel 1969 e rilanciata nel 2002 da Ben Bernanke anche lui convinto che la politica monetaria abbia una chance quando le politiche convenzionali falliscono. In realtà ha anticipato tutti Hong Kong fin da febbraio: diecimila dollari equivalenti a 1,270 dollari americani, a chiunque sia affetto da virus. Donald Trump per non restare indietro ha proposto di dare a ciascun americano almeno 1.200 dollari più 500 ogni figlio, in contanti, da spendere come si vuole. La misura è entrata in un mega pacchetto di spesa pubblica, il più massiccio mai fatto: ben duemila miliardi di dollari. Il Congresso, dopo qualche giorno di manfrina tenendo d’occhio le elezioni presidenziali, ha dato via libera. Il comandante in capo, recalcitrante, inebriato da tweet contraddittori e grotteschi, alla fine si è arreso alla evidenza. Il dubbio è se basterà. L’Economist dice di no, in fondo rappresenta solo il 10 per cento del prodotto lordo americano e secondo molti analisti ce ne vorrà il doppio se la crisi non si ferma. La scorsa settimana ben tre milioni e trecentomila lavoratori hanno chiesto l’indennità di disoccupazione, mai così tanti dal 1967.

Gli eserciti europei della salvezza hanno il loro avamposto a Bruxelles. Dovrebbe essere lì il quartier generale. Ursula von der Leyen ha dato buona prova: tenuta, stile, capacità diplomatica e senso della realtà, è la presidente della commissione europea ad aver anticipato la sospensione del patto di stabilità. Ma a decidere sono sempre i governi nazionali e la Ue è divisa sulle scelte di fondo: mutualizzare i debiti, emettere titoli speciali, i cosiddetti corona bonds (come chiedono Italia, Francia, Spagna e altri sei paesi), aprire il portafoglio del Mes, il meccanismo europeo di stabilità, che mette a disposizione mezzo miliardo di euro, ma alle sue condizioni: troppo rigide secondo l’Italia, troppo lasche secondo l’Olanda spalleggiata da Austria e Finlandia. Angela Merkel media tra nord e sud, tra est ed ovest, ma a lei tocca scegliere. La chiave di tutto, come dice Draghi, è il debito: la Germania sosterrà quello italiano e degli altri paesi in sofferenza? Intanto il governo tedesco si è mosso e come. Berlino ha deciso di investire 350 miliardi di euro, pari al 10 per cento del prodotto lordo (la stessa quota americana) per le misure d’emergenza e rifinanziare con 100 miliardi la Banca di stato, KfW; più un fondo per salvare le imprese pari a 650 miliardi, in grado anche di intervenire nella proprietà, ma il ministro delle finanze Olaf Scholz si dice pronto a estendere le garanzie dello stato per mettere al sicuro la metà del pil, circa 1.500 miliardi di euro.

L’Italia finora non ha speso molto, anche se quando è scoppiata la pandemia si trovava già in recessione. I vincoli europei sono troppo stretti, si dice, ma anche ora che il patto di stabilità è stato sospeso siamo bloccati da un debito pari a duemila e rotti miliardi di euro, il 135 per cento del prodotto lordo. Si stima che i paesi esposti pesantemente al virus tra spesa pubblica diretta e prestiti garantiti dovranno mettere in conto il 20 per cento del loro prodotto lordo in pochi mesi, il che vuol dire 340 miliardi e rotti nel caso italiano. Il debito sta già salendo verso il 150 per cento, dove potrà arrivare e chi comprerà i nuovi buoni del tesoro, sotto qualsiasi forma e in quantità necessaria? La Bce ha messo in campo mille miliardi di euro, poi ha allargato i cordoni non ponendo più limiti. La quota dell’Italia nel capitale è pari al 17 per cento complessivo, i nuovi buoni del Tesoro per quest’anno superano i 300 miliardi, ma cresceranno ancora. Quanta parte delle nuove emissioni sarà assorbita dalla banca centrale? L’Italia, sostenuta da Francia e Spagna, chiede di introdurre titoli europei, i cosiddetti corona bonds, e potrebbe ricorrere alla linea precauzionale prevista dal fondo salva stati: pro quota si tratta di 70 miliardi di euro. Lo scontro è sulle condizioni: spingeranno l’economia verso un’altra lunga recessione quando l’emergenza sarà finita? L’Italia è solvibile, lo ha detto la Banca d’Italia che se ne intende, lo ripetono tutti a cominciare dalle società che danno i voti ai debiti pubblici e privati. Ma non sappiamo fino a quando.

L’intervento dello stato è fondamentale in caso di calamità. Ciò vuol dire che il Leviatano risorge dalle acque profonde? Calma ragazzi, perché la doppia crisi, sanitaria ed economica, mette sotto pressione l’intero sistema pubblico, proprio quello che dovrebbe salvarci. Prendiamo la Sanità, in sofferenza proprio nei suoi punti più alti. Colpa dei tagli? Secondo Francesco Longo, osservatorio della spesa sanitaria dell’università Bocconi, l’Italia spende 115 miliardi l’anno, 1.850 euro per abitante. L’Inghilterra con un sistema sanitario simile al nostro spende 2.500 euro pro capite, la Francia 2.800, la Germania 3.200. Spendiamo meno e nei ranking mondiale di efficacia in rapporto ai costi siamo tra i migliori. Non manca la qualità, ma semmai la quantità. Intendiamoci, lo choc è stato improvviso e inatteso: i ricoveri medi mensili in terapia intensiva in Lombardia sono stati circa 680 tra il 2013 e il 2017, mentre solo per Covid- 19, sono ricoverati due volte tanto. Tuttavia il numero di posti letto ospedalieri ogni mille abitanti in Italia è più basso rispetto a Francia e Germania, vicino al Regno Unito e alla Spagna, molto lontano dal Giappone e dalla Corea del sud. Quattro ricercatori – Marta Angelici, Paolo Berta, Francesco Moscone e Gilberto Turati – hanno calcolato che tra il 2010 e il 2018 la riduzione media complessiva delle dotazioni di posti letto dei dipartimenti medici è stata di poco inferiore rispetto a quella registrata nei dipartimenti chirurgici: 11,4 per cento contro 12,8 per cento. Sono aumentati, però, i posti letto in terapia intensiva. Forse anche per questo il sistema ospedaliero per il momento continua a garantire cure a tutti.

C’è un’altra questione sollevata da Laurie Garrett, che da decenni scrive sulla nostra eterna vulnerabilità ai microbi: nel suo ultimo libro Betrayal of Trust: Collapse of Global Public Health, spiega che in un’èra in cui la minaccia percepita viene dalle malattie non trasmissibili (cancro, ipertensione arteriosa, diabete) ci si è concentrati su queste, trascurando la minaccia collettiva proveniente dalle epidemie che mettono in primo piano la necessità di antibiotici e vaccini. Anche gli ospedali, come le imprese manifatturiere hanno ragionato con il come le imprese manifatturiere, svuotando i magazzini, riducendo al minimo indispensabile le scorte, scommettendo sulla efficienza della catena produttiva globale. Adesso lo stato deve far fronte, ma nessuno stato è in grado di assicurare la protezione totale contro la pandemia. Raghuram Rajan, influente economista che dopo il Fondo monetario internazionale è diventato governatore della Banca centrale indiana sottolinea la necessità di coinvolgere il settore privato per aumentare la capacità della filiera sanitaria, la domanda c’è non devono mancare i finanziamenti.

Qui entrano in gioco le imprese ed è la loro sorte a rendere incerte le Borse che pure sono sobbalzate di fronte alla potenza di fuoco americana. I mercati finanziari non sono terrorizzati dal fallimento degli stati, ma dalla catena di fallimenti privati. Le fabbriche si stanno riconvertendo a una economia di guerra: quelle tessili fanno mascherine, quelle meccaniche ventilatori, la Michelin distribuisce cibo, le aziende farmaceutiche non ce la fanno a tener testa agli ordini, i laboratori di Big Pharma come delle start up lottano per trovare un vaccino; il mondo digitale è sotto pressione perché è attraverso di esso che tutti noi possiamo tenerci in contatto con il mondo reale. E’ fondamentale che dove si può il lavoro prosegua senza interruzione, ma è essenziale che venga fornita la liquidità necessaria e le banche facciano credito a costo zero, come propone Draghi. Finora, a parte poche eccezioni, il sistema bancario è rimasto alla finestra. Il bollettino di guerra ci dice che i generali hanno tentennato, gli eserciti si sono mossi in ritardo anche se stanno combattendo con tutte le loro forze, le armi attuali non sono sufficienti. Non bastano quelle monetarie, non bastano quelle economiche, non bastano quelle sanitarie. Ogni conflitto fa compiere un salto al complesso militar-industriale, alla ricerca, alla scienza e alla tecnica, ma sono tecnologie che portano la morte. Anche questa guerra può far compiere un balzo, ma saranno tecnologie che portano la vita. just in time

Stefano Cingolani - Il Foglio - 28 marzo 2020

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