L’incanto di Orfeo nell’arte di ogni tempo

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La struggente narrazione del mito di Orfeo ed Euridice ha ispirato innumerevoli autori attraverso i secoli, diventando un simbolo universale dell’amore, della perdita e del potere della poesia.

Da Apollonio Rodio, Platone, Euripide, Virgilio ed Ovidio nell’antichità a scrittori come Cesare Pavese, Cocteau, Dino Buzzati ed Edoardo Bufalino nella modernità, il mito ha continuato a riverberare nelle pagine della letteratura continuando a nutrire la creatività e la riflessione degli scrittori di ogni epoca.

I drammatici momenti di questa vicenda sono stati  catturati dall’Arte in ogni sua espressione rendendo ancora più toccante questo mito.

Si intitola “L’incanto di Orfeo” la grande mostra a cura di Sergio Risaliti e Valentina Zucchi, responsabile scientifico di Palazzo Medici Riccardi che, a partire dal 20 marzo e fino all'8 settembre 2024, vedrà Palazzo Medici Riccardi ospitare circa 60 opere d’arte dedicate ad una delle più importanti e immortali figure del mito classico.

L’esposizione nasce da un progetto del direttore artistico del Museo Novecento, è  promossa da Città Metropolitana di Firenze ed è  organizzata dal MUS.E.

ll mito di Orfeo ed Euridice è una storia tragica dell’antica mitologia greca. Orfeo, un abile musicista e poeta, si innamora di Euridice e la sposa. Tuttavia, poco dopo il loro matrimonio, Euridice muore a causa di un morso di serpente. Addolorato, Orfeo decide di scendere negli inferi per convincere Ade e Persefone, il re e la regina del mondo dei morti, a restituirgli Euridice. Con la sua musica toccante, Orfeo ammorbidisce il cuore della coppia infernale che acconsente a concedere il ritorno di Euridice ad una condizione: Orfeo deve guidarla fuori dagli inferi senza mai voltarsi a guardarla finché non sono tornati nel mondo dei vivi.

Tuttavia, a pochi passi dall’uscita, Orfeo, tormentato dalla paura  di aver perso Euridice, si volta a guardarla. Euridice svanisce, condannata a una definitiva morte.

Nell’esposizione a Firenze vedremo dipinti e sculture, disegni e manoscritti, installazioni e film che spaziano dall’antichità ai nostri giorni. A partire dallo splendido rilievo marmoreo neoattico con Orfeo, Euridice ed Hermes, proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che raffigura il secondo e definitivo distacco del cantore dalla sua amata, fonte d’ispirazione per il poeta Rainer Maria Rilke, autore dei ‘Sonetti a Orfeo’, fino alle opere di Tiziano, Parmigianino, van Honthorst, Bruegel il Vecchio, Rembrandt, Delacroix, Moreau, Redon, Feuerbach, De Chirico, Cocteau, Savinio, Melotti, Twombly e Paladino.

Sono opere  provenienti da prestigiose istituzioni culturali italiane e internazionali,  dalle Gallerie degli Uffizi al Musée du Louvre di Parigi, dal Mart di Trento e Rovereto al Kunsthistorisches Museum e al Belvedere di Vienna, dal MANN e dal Palazzo Reale di Napoli ai Musées de Beaux-arts di Blois e di Marsiglia, dal Museo Nazionale del Bargello all’Accademia Carrara di Bergamo, dal Museo di San Marco alle Biblioteche Laurenziana e Riccardiana di Firenze. Inoltre pezzi  giungono anche  da collezioni private e grazie ad una speciale collaborazione con l’Archivio del Teatro del Maggio Fiorentino.

“Questa mostra è un nuovo, importante progetto che valorizza le meraviglie custodite in Palazzo Medici Riccardi - spiega Valentina Zucchi, responsabile scientifico di Palazzo Medici Riccardi e curatrice della mostra -: è questa la volta del gruppo scultoreo di Orfeo che incanta Cerbero di Baccio Bandinelli, perno visivo del cortile del palazzo e di questa esposizione che da quest'opera prende avvio e che a lei ritorna, nel canto senza fine del poeta.

Il mito di Orfeo, in effetti, attraversa il tempo perché tocca le corde fondanti del nostro essere umano: il viaggio e il pericolo, l'amore e la perdita, il dolore e il coraggio, il desiderio e la paura, la morte, ciò che c'è oltre e ciò che le sopravvive.

 I mitemi di Orfeo sono gli elementi che accompagnano ciascuno di noi, in cui ritrovarci e su cui interrogarci. Ma sopra tutto questo, il racconto di Orfeo è un inno all'arte, capace di superare ogni ostacolo, di muovere ogni resistenza e di sublimare ogni fragilità: quando Orfeo canta, accompagnato dalla cetra, ammalia uomini e donne, animali selvatici e fiere, alberi di ogni specie, persino le rocce e i fiumi; la sua poesia lascia addirittura Cerbero con le sue tre bocche spalancate e fa inumidire le guance alle Furie.

In un gioco di specchi, è proprio ciò che avviene con questa mostra: le bellissime opere esposte che, spaziano dalla classicità all'oggi, dalla pittura al video-hanno il potere di incantare e di sedurre, conducendo nei meandri di una storia che è anche la nostra storia. I grandi capolavori dell'arte trovano qui il senso pieno del loro esserci; e anche noi, qui, possiamo trovare un po' di noi.

Patrizia Lazzarin, 20 marzo 2024

                                                                    Patrizia Lazzarin

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Bambole, peluche e spirito da pioniere

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Le donne hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo di alcuni dei giocattoli più noti e amati: dalle bambole classiche e dagli animali di peluche ai kit da costruzione e ai giochi da tavolo. La mostra in corso dall’otto marzo e che sarà visibile fino 27 ottobre, al Museo del Giocattolo di Basilea, presenta le donne pioniere che hanno avuto o hanno tutt’ora successo nel settore dei giocattoli e, al tempo stesso, rivela la loro lotta per l’uguaglianza dei diritti e l’attenzione alle riforme sociali.

Elizabeth Magie Phillips, nata a Macomb in Usa nel 1866, fu una femminista ante litteram e si occupò in senso critico del capitalismo. L’invenzione del suo gioco The Landlor’s Game che con il nome successivo di Monopoli avrebbe goduto di fama mondiale, metteva in evidenza le conseguenze del divario salariale e del capitalismo monopolistico. Nella versione successiva all’acquisto del brevetto, da parte del produttore di giocattoli Parker Brothers, venne falsato tuttavia il concetto visionario di denuncia delle ingiustizie sociali.

Alma Siedhoff Buscher da giovane seppe farsi strada nel Bauhaus: come tutte le donne alla scuola d’arte  venne assegnata al laboratorio di tessitura. Lei però, attratta dai lavori con il legno, riuscì ad essere spostata in quello di falegnameria. Per la Musterhaus am Horn progettò secondo i principi riformatori della pedagogia, un mondo per bambini che fosse fabbricabile in serie: mobili modulari che crescono insieme al bambino e possono essere trasformati in vari modi, ad esempio da fasciatoio a scrivania. Lavagne colorate e lavabili completano la cameretta. Alma ruppe con le convenzioni sociali che destinavano i mobili per adulti dismessi alle camerette dei bambini.

Caroline Märklin, nata nel 1826 a Ludwigsburg in Germania, fu la cofondatrice della omonima manifattura di trenini nota in tutto il mondo ed ebbe un ruolo decisivo nello sviluppo dell’impresa.

Fra le italiane,  Elena Scavini nata a Torino nel 1886, aveva studiato fotografia a Düsseldorf. Quando suo figlio morì nel 1916 d’influenza spagnola, iniziò nel 1919 a fabbricare bambole di feltro per elaborare la sua perdita. Fondò la ditta Ars Lenci – chiamata così dal suo nomignolo “Lenci”. I volti birichini delle sue bambole erano dipinti a mano. Quando negli anni Trenta l’azienda che aveva 600 collaboratrici e collaboratori ebbe una crisi finanziaria e venne venduta, Elena Scavini rimase la direttrice artistica fino al 1937. In seguito i nuovi proprietari nascosero il suo ruolo di creatrice, anche se le bambole furono realizzate secondo le sue direttive, fino alla liquidazione dell’impresa nel 2002.

Creatrici di bambole furono Käthe Kruse e Sasha Morgenthaler. Furono in primis due madri che ebbero l’idea di disegnare delle bambole per i propri figli poiché quelle che si acquistavano erano dure e si rompevano facilmente. Non erano quindi adatte alle coccole. Esse suscitarono interesse e furono così prodotte in serie. Lo stile delle bambole di Sasha Morgenthaler che aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti di Ginevra e la scuola privata di pittura di Simon Hollòsly a Monaco di Baviera, era particolare e possedeva un’asimmetria appena percettibile che conferiva loro un fascino proprio. I volti dipinti a mano, mai sorridenti, erano una loro caratteristica.

Cas Holman, nata nel 1975 in California,  promuove la creatività attraverso il gioco libero non strutturato. Senza idee predeterminate i suoi set di costruzioni permettono un’esperienza ludica al di là del vero e del falso. Holman crea spazi per il gioco nei quali i bambini possono inventare le loro storie  e dove si rafforza l’interazione sociale.

La ceca Libuše Niklová si distinse per l’invenzione di giocattoli pensati per i più piccoli, dai colori intensi e dalle forme semplici che possiedono profumo e suoni caratteristici. I suoi oggetti sono esposti anche al Museum of Modern Art di New York e fanno parte delle collezioni di tutto il mondo.

L’imprenditrice Renate Müller è nota per i suoi giocattoli terapeutici come ad esempio gli animali indistruttibili che incoraggiano i bambini con mobilità ridotta  a mettere alla prova la loro forza e ad alzarsi. Ha ideato  molti parchi giochi e realizzato con un gruppo di lavoro Kind-Umwelt (Bambino –Ambiente) molti progetti comuni.

Apollonia Margarete Steiff per costruire il suo impero industriale del giocattolo dovette superare le resistenze della famiglia e una menomazione fisica. Dopo aver contratto la poliomelite fu costretta sulla sedia a rotelle e solo a fatica muoveva la mano destra. Aprì comunque con la sorella una sartoria per signore. Cinque puntaspilli nel 1879 daranno inizio a un impero di animali di stoffa. Quindici anni dopo la sua ditta raggiunse un giro d’affari di 90.000 marchi diventando un’impresa internazionale.

Due anni prima della sua morte, avvenuta nel 1909,  vennero prodotti quasi un milione di orsacchiotti peluche. Da Margarete Steiff le lavoratrici avevano orari di lavoro piuttosto regolari  e una certa sicurezza di guadagno. Regnava un’atmosfera cordiale e durante l’attività si cantava. Anche le prestazioni sociali erano esemplari per l’epoca: le donne ricevevano buoni pasti da utilizzare nelle locande vicine. Tuttavia avevano bisogno del permesso del padre o del marito per lavorare: una legge rimasta in vigore fino agli anni Settanta.

Patrizia Lazzarin, 19 marzo 2024

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Bruno Munari, l’inventore fra arte e design

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Bruno Munari, artista poliedrico e creativo visionario che ha saputo annullare i confini tra arte e design, sarà dal 16 marzo il protagonista alla Fondazione Magnani-Rocca, della più grande mostra italiana che pone sotto la luce del riflettore,  una  delle più iconiche figure del design e della comunicazione visiva del XX secolo.

Nel panorama artistico italiano degli anni Cinquanta, gli artisti avevano tentato di liberare l’arte da ogni riferimento naturalistico o funzione sociale per fondare un linguaggio nuovo, autonomo e più vicino alle esperienze estetiche internazionali.

In questo clima di rinnovamento nasce il Movimento per l’Arte Concreta MAC, fondato a Milano nel 1948 da Bruno Munari, Gillo Dorfles, Gianni Monnet e Atanasio Soldati.  I fondatori del Mac, al di là del comune credo concretista che traeva ispirazione dal purismo di Mondrian e di Van Doesburg, erano differenti nel modo di operare. Munari si contraddistinse da subito per il grande rigore formale e per l’inesauribile curiosità che lo avrebbe di lì a poco condotto all’arte programmata.

In seguito il MAC si unì  al Group Espace, promotore di una fusione tra architettura, scultura e decorazione, finalizzata ad una più attiva partecipazione artistica nel contesto sociale.  Pierre Restany che fu una   delle ultime figure di critico militante e un po’ bohemien, sostenitore appassionato di movimenti di neoavanguardia, definì l’inventore Munari, il Leonardo e il Peter Pan del design italiano.

La scimmietta Zizì  rappresenta uno dei primi successi dell’artista  Munari come designer. Essa, “partorita” nel 1953, è un giocattolo costruito avvolgendo attorno a un filo di ferro, un materiale innovativo dell’inizio degli anni Cinquanta: il poliuretano. Il risultato  rappresenta anche l’attuazione della poetica  e del metodo didattico dell’artista, convinto che l’apprendimento dovesse avvenire attraverso il gioco.

Nel 1958 inventa le Forchette Parlanti, posate in acciaio inox a cui vengono piegate  rebbi e manici. Così facendo, dà vita a oggetti che perdono la loro funzione originale per lasciare spazio alla fantasia e alla sperimentazione. Sono una perfetta  sintesi tra design e arte, espressione della ricerca  di Munari in ogni sua creazione.

 “Munari – spiega Marco Meneguzzo insigne studioso munariano e curatore della mostra – è una figura molto attuale nella società liquida odierna, nella quale non ci sono limiti fra territori espressivi. È un esempio di flessibilità, di capacità di adattamento dell’uomo all’ambiente. Il suo metodo consiste nello scoprire il limite delle cose che ci circondano e di volerlo ogni volta superare”.

Nella mostra sono racchiusi settant’anni di idee e di lavori. Egli  aveva iniziato la propria attività durante il cosiddetto Secondo Futurismo, attorno al 1927. Spazierà poi  in tutti campi della creatività: dall’arte al design, dalla grafica alla pedagogia. Grafica, oggetti, opere d’arte, TUTTO risponde a un metodo progettuale che si definisce negli anni,  dai grandi corsi nelle università americane e con il progetto più ambizioso, che è quello dei laboratori per stimolare la creatività infantile, che dal 1977 sono tuttora all’avanguardia nella didattica dell’età prescolare e della prima età scolare.

Ripercorrendo l’arte di Munari,  a partire dalla fine degli anni Quaranta, riscopriamo il suo pensiero. Egli scriveva negli anni Ottanta, in occasione di una sua mostra: “Tutta l'arte è concreta, anzi si potrebbe dire che o è arte concreta o non è arte … Quando un normale pittore fa un ritratto ad una persona, è evidente che l'opera dell'artista è un’astrazione, anche se il ritratto è realizzato nel modo più verista possibile. Infatti il dipinto ci mostra solo una parte della realtà vera, di quella persona mancano una infinità di proprietà che sono il volume, il peso, il calore, l'odore e via dicendo. Senza contare che un ritratto olio su tela, dà solo un lato della persona … la Gioconda non ha le gambe, la figura che rappresenta la Primavera di Botticelli non ha la parte dietro.

Quindi quelle forme di arte chiamate verismo o arte figurativa sono infatti astrattismo come quelle pitture che prendono qualcosa dalla natura e ce lo mostrano col disegno, con i colori, con le forme. Ma allora se il verismo e l'astrattismo sono la stessa cosa, che cos'è l'arte concreta?

Prendiamo come esempio il teorema di Pitagora. Questa figura di due quadrati e un triangolo, prima era nella mente di Pitagora e nessuno la vedeva e la poteva conoscere. Disegnandolo su di una superficie piana, questo pensiero prende corpo, il suo corpo, diventa concreto, è lui, non «rappresenta» altro che sé stesso.

Questo vuol dire poter vedere un pensiero. Ora questo pensiero può essere scientifico, come quello di Pitagora o artistico come quello di Mondrian, di Arp, di Bill, di..., può essere a due dimensioni, a tre, a quattro, con colore o senza, con movimento per mostrare come una forma può trasformarsi in un'altra.

Arte concreta è quindi quella che fa vedere la natura interiore dell'uomo o della donna, il pensiero umano, la sensibilità, l'estetica, il senso dell'equilibrio e tutto ciò che fa parte della natura interiore ...

La rassegna BRUNO MUNARI. Tutto rimarrà aperta fino al  30 giugno. Il catalogo, a cura di Marco Meneguzzo e Stefano Roffi, viene pubblicato da Dario Cimorelli Editore. 

Patrizia Lazzarin, 13 marzo 2024

 

 

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