Il governo Meloni zoppica e non lo sa

Il governo Meloni non passerà certo alla storia come l'esecutivo del cambiamento epocale, nonostante i tanti, forse troppi, proclami. Di seguito ripropongo un editoriale dell'ex direttore de Il Resto del Carlino, Andrea Cangini, che ha pubblicato sul sito Formiche. Cangini parte da una premessa. Lui non è un uomo a cui si può appiciccare l'etichetta di sinistra. È un osservatore che dice pane al pane e vino al vino. E non è un comunista. Perchè in questa maggioranza il coro unanime contro le opposizioni è di essere, appunto, di sinistra, comunisti. Fratelli d'Italia e Lega sappiano che i veri comunisti sono in Cina, Corea del Nord, Venezuela e Cuba. Questo, nel nostro Paese, può essere vero, anzi certamente lo è, per personaggi coe Marco Rizzo, Fausto Bertinotti, Attilio Lombardo, ecc. Andrea Cangini è un uomo di idee e principi liberali.

Da premettere che tante sono le scelte che questa maggioranza si ostina pervicacemente a non fare. Il problema fiscale è drammatico. Non se ne fa assolutamente cenno. Secondo autorevoli commentatori all'erario manca gettito fiscale per non meno di un centinaio di miliardi di euro l'anno. Anzichè gettare la croce sui precedenti governi (che chiaramente portano la responsabilità di avere fatto ben poco per risanare il bilancio pubblico) l'esecutivo a guida Fratelli d'Italia avrebbe dovuto evitare di continuare a fare l'occhiolino a categorie che, assai probabilmente, di tasse ne pagano ben poche. Alludo a tassisti, balneari e molte partite Iva. C'è chi le imposte chiaramente ha grandi difficoltà a non pagare (lavoratori dipendenti e pensionati in primis), ma le altre categorie? Poi c'è un debito pubblico colossale che ci vuole sicuramente del tempo ad abbassare a livelli europei. Nel prossimo anno varcherà la soglia dei 3 mila miliardi di euro. Un moloch inscalfibile. Almeno fino ad oggi. Peggio di noi solo la Grecia. Che, però, vede i suoi titoli di Stato apprezzati dai mercati più che quelli del Belpaese. Tra le riforme da fare ci sarebbe quella della pessima legge elettorale che ha consentito a Fratelli d'Italia di avere un consenso enorme (tra l'altro il Rosatellum Meloni non lo voleva, aveva votato contro la sua introduzione). Anzichè parlare di riforme costtituzionaii peregrine, sarebbe opportuno mettere mano a questo scempio, reintrodurre un sistema elettorale proporzionale con scelta dei candidati da restituire all'elettore che ne è stato arbitrariamente privato. Questi i suggerimenti di Andrea Cangini:.

''Cosa dovrebbe fare Giancarlo Giorgetti?gli altri? Semplice, non mollare. E nei momenti più neri uscire a piedi dal retro del ministero dell’Economia per trovare ispirazione osservando la statua bronzea di Quintino Sella, così come i ritratti di Marco Minghetti e di Luigi Einaudi di cui certo nel Palazzo che occupa vi è traccia. Tre predecessori di Giorgetti al ministero un tempo detto delle Finanze: tre modelli cui ispirarsi per affrontare con responsabilità e cognizione di causa le traversie del tempo presente.

Lo spread era a 550, nel decennio successivo all’Unità d’Italia la spesa pubblica era cresciuta del 50%. Dopo aver fondato la Banca d’Italia e l’omonima banca privata, trovandosi a ricoprire la funzione di ministro delle Finanze Sella fece quel che era doveroso fare nell’interesse del Paese: introdusse una tassa sul macinato che nell’immediato lo rese bersaglio della satira e della piazza, ma che poi lo consacrò a vita come uomo delle Istituzioni. Quintino Sella riuscì così a pareggiare il bilancio del Regno. Un mito.

Di Marco Minghetti, altro nobile esponente della Destra storica, si ricorda l’abitudine di segnare ogni sera a matita il livello di petrolio nelle lampade del ministero delle Finanze per evitare che nella notte qualche inserviente ne taccheggiasse il contenuto. Quanto a Luigi Einaudi, già governatore della Banca d’Italia, ministro delle Finanze, del Tesoro e del Bilancio, primo presidente della Repubblica eletto e faro del pensiero liberale italiano ed internazionale, si rammenta in particolare un aneddoto. Quando, nel 1970, invitò a colazione al Quirinale alcuni giornalisti di vaglia tra cui Ennio Flaiano.

Arrivati alla frutta, il Presidente prese dal vassoio una grande pera e ritenendola esorbitante rispetto al proprio appetito chiese ai commensali chi la volesse spartire con lui. Flaiano fu lesto ad alzare la mano. Ne seguì un articolo sul Corriere della Sera che, sotto il titolo “La Repubblica della pera indivisa”, consacrò il mito di Einaudi come uomo di Stato attento ai conti, contrario agli sprechi, dedito alla parsimonia. Detto in un unico concetto oggi apparentemente tornato di moda: sensibile all’interesse nazionale.

C’è chi rammenta un’impossibile caccia agli spilli che le erano caduti sul prato innanzi alla residenza presidenziale da parte della signora Ida, moglie di Einaudi. E chi ricorda i cartelli vergati a mano dal Presidente e affissi nei bagni della tenuta piemontese di Dogliani. Era scritto: “Prima di aprire il rubinetto, chiudere il tappo. Lavarsi nell’acqua corrente è uno spreco inutile. Ci si lava altrettanto bene in poca come in molta acqua“.

Ora, senza fare della facile demagogia a contrario, è chiaro a tutti che i tempi sono cambiati, che la politica è oggi la più precaria delle carriere e che del conio umano di quei tre grandi liberali si è ormai rotto lo stampo. Resta, tuttavia, il problema di uno Stato gravato da un debito pubblico senza precedenti e di una classe politica naturalmente incline all’irresponsabilità sia rispetto agli impegni europei (leggi Mes) sia rispetto ai conti pubblici (leggi superbonus) sia rispetto alle clientele (leggi balneari).

In tali circostanze, il ministro dell’Economia è tra gli uomini di governo quello che ricopre la posizione più scomoda. Se cede alle pressioni dei partiti danneggia lo Stato, se privilegia l’interesse dello Stato danneggia i partiti. E dunque se stesso. Se poi, come gli è stato chiesto da alcuni esponenti delle opposizioni, si dimettesse, salverebbe la propria coscienza, ma distruggerebbe la propria carriera, e, presumibilmente, consentirebbe ad un qualche manutengolo di partito di occupare il suo posto avendo come unico faro la propria, personale, ascesa politica.

Giancarlo Giorgetti sapeva cosa lo aspettava quanto ha accettato la nomina. Tenga la schiena dritta e faccia il possibile per onorare la memoria dei suoi tre illustri predecessori. Fare il massimo del possibile è un concetto relativo. Ma in politica è l’unico parametro che può fare di un uomo un uomo di Stato. I cialtroni non mancano, di idealisti sono piene le fosse''.

Marco Ilapi, 30 dicembre 2023

Leggi tutto...

Questi dicono una cosa all’Ue e fanno il contrario in Italia

Il governo Meloni, ovvero dell'ambiguità con due facce

Un uomo senza volto si è presentato alla Commissione Bilancio della Camera per parlare della manovra finanziaria ma alle opposizioni interessava solo incalzarlo sul Meccanismo europeo di stabilità che Lega e Fratelli d’Italia hanno bocciato. Lui, il ministro dell’Economia senza volto, lo avrebbe approvato volentieri dando seguito a quello che aveva assicurato ai suoi colleghi europei. Cosa che ieri ha però negato. Ma Giancarlo Giorgetti la faccia l’ha persa comunque: così lo ha rappresentato Giannelli, in una vignetta sul Corriere della Sera, mentre passa davanti a una perplessa Ursula von der Leyen. Il ministro sintetizza l’incognita che è diventata l’Italia: senza volto oppure un Giano bifronte.Il commento di Amedeo La Mattina su Linkiesta.

Leggi tutto...

Quel “chiarimento” d’obbligo tra Meloni e Draghi

Cipollone alla Bce e Franco alla Bei?

Sulla designazione di Piero Cipollone – vicedirettore generale della Banca d’Italia – a membro del comitato esecutivo Bce si è certamente consumato un chiarimento tra poteri, neppure troppo soft. Ma sarebbe scorretto e fuorviante ridurlo a schermaglia personale o partitocratica fra il premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Andrebbe perduta gran parte della complessità del passaggio, fra Italia ed Europa. Questo è parso essenzialmente un ennesimo (e per molti versi fisiologico) aggiustamento dei rapporti di forza – interni ed esterni al sistema-Paese – sul futuro delle grandi scelte di politica e diplomazia economica. E ciò durante uno specifico cambio di stagione: dopo un trentennio in cui – forse non troppo diversamente rispetto ai magistrati – i “banchieri centrali” italiani hanno visto aumentare fortemente la loro pervasività nella governance del Paese. Il commento di Nicola Berti su il Sussidiario.

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .