Il lessico della politica

  • Pubblicato in Esteri

       Che parole e nomi siano potenti, già lo sapevano fin dall’antichità più remota. Basta pensare agli effetti di termini come “eretico”, “scismatico”, “infedele” e simili. Naturalmente, lo sanno anche i moderni esperti di propaganda. Proprio per questo, stupisce come il peso e il ruolo del lessico adottato per definire i rapporti fra gli Stati e le ideologie che li legittimano sia così spesso trascurato e rimanga per così dire come un ombrello scontato e ovvio. Un suo rapido esame può mostrare fino a che punto la valanga di notizie che giornalmente cercano di descrivere i fatti obbedisce in realtà a dei potenti filtri simbolici costituiti appunto da dei nomi. Sono questi ultimi ad alimentare l’atmosfera emotiva, a legittimare la cornice ideologica, a definire innocenti e colpevoli. Dietro il loro aspetto innocente si annidano agenti insospettabili, scheletri di vario genere e tragicomiche mistificazioni. Il tutto è risaputo, ma trascurato.

     Alcuni cliché usati in particolare e con sempre maggiore e monotona frequenza a proposito dell’Ucraina, della Russia e della crisi in corso costituiscono esempi illuminanti di quali possano essere i riverberi emotivi e normativi dei nomi.

     Non è un caso che molti siano di ispirazione americana, da“Alleanza atlantica” a “Partners”, senza dimenticare “National Security,“patriot”o magari “mondo libero” o “diritti umani”. A tali termini, su cui aleggia una tacita aura positiva e salvifica, si oppongono termini sospettosi e palesemente accusatori come “dittatore” o “anti-NATO”. A quest’ultimo sono associati, come corollari e sinonimi - anche se non si sa perché - “anti-occidentale” e “filo-Russo”. Sembrerebbero sostantivi ed aggettivi auto-esplicativi e indiscutibili. In realtà, essi costituiscono dei filtri condizionanti difficilmente sottostimabili e tendenzialmente mistificanti.

     Iniziamo a prendere quello di “Alleanza atlantica”. Esso presuppone per definizione un nemico, mentre l’aggettivo “atlantica” ne tradisce per così dire l’anima e il motore, ubicati sulle opposte coste dell’Atlantico, insomma, negli Stati Uniti.  Come dire che il termine tradisce in modo inequivocabile un esplicito primato gerarchico, diplomaticamente abbellito come “Alleanza” ma in realtà corrispondente al meno nobile “vassallaggio”, che ovviamente non appare mai nelle dichiarazioni ufficiali.

     Ora, poiché non c’è alleanza senza possibili o reali avversari, chi sarebbe il nemico? Un tempo, costui era per eccellenza la Germania nazista, non solo allevatrice di fanatici di mezza tacca ma anche sciagurata persecutrice di Ebrei. In più, essa minacciava il primato di una Gran Bretagna ancora imperiale. Insomma, un pericoloso nemico, sconfitto grazie al fatale ingresso americano negli affari europei, ingresso poi diventato un’interminabile ipoteca. Liquidato dunque il suddetto nemico, l’Unione Sovietica si istallò nell’Europa orientale e gli Stati Uniti in quella occidentale. In entrambi i casi, un disastro. Anche se non sembra, l’infezione comunista fu la versione opposta dell’infiltrazione americana. I due fenomeni furono speculari. In ogni caso, nonostante le illusioni di Churchill, la Gran Bretagna finì per diventare una nazione di secondaria grandezza, anche se curiosamente essa continua ad occupare Gibilterra e a mantenere basi militari a Cipro, in Nepal, Oman, Bahrain, etc.

     Passata la II Guerra mondiale, quello che prima era stato un dubbio alleato, l’Unione Sovietica, divenne il nuovo nemico per definizione. Il mondo era allora bipolare. Dissoltasi fortunatamente l’Unione Sovietica nel 1990 e avvolta su sé stessa la Russia, in teoria veniva meno l’avversario, il nemico, ma il marchio non se ne andò, come il giglio sulle spalle della tenebrosa Milady dei Tre moschettieri... Scompare l’Unione Sovietica ma non si discioglie la NATO. Scompare il KGB, ma non viene smantellata la CIA.

      Nel frattempo, altri supposti “nemici” sparsi per il mondo, come vedremo più avanti, sarebbero stati colpiti in  varie forme. D’altra parte, in silenzio e nella distrazione generale (ovvero ossessione russo-fobica), nuovi poderosi protagonisti stavano emergendo, e cioè, India e Cina in particolare. Ma l’attenzione americana rimase soprattutto concentrata – un vero e proprio strabismo strategico – sulla Russia in quanto tale. Come gli Stati Uniti abbiano potuto trascurare la crescita esponenziale della Cina negli ultimi 30 anni rimarrà oggetto di perplessità e di studio per gli storici futuri. Risultato di tale sorprendente miopia è stata la ben nota ed insensata espansione di quel destabilizzante organismo chiamato NATO, il cui unico e vero scopo non è la difesa della pace ma semplicemente il contenimento dell’eterno nemico ad est e la legittimazione di operazioni pirata in giro per il mondo, effettuate coralmente. L’ultimo disastro provocato da questa parola di quattro lettere è l’attuale invasione dell’Ucraina, di cui la NATO è l’istigatrice, mentre la Russia ne è l’autrice materiale. Mentre è banale affermare che le aggressioni non sono mai una cosa giusta, è tuttavia scandalosa la prosopopea con cui  vengono oggi dimenticate aggressioni di gran lunga più letali e catastrofiche da parte degli stessi che oggi alimentano con armi e sanzioni la guerra in Ucraina. Quale che sia l’esito di questa guerra per procura, col falso capello NATO ma in realtà ostinatamente indirizzata dagli Stati Uniti nei confronti della Russia, gli unici a guadagnarne saranno solo i produttori di armi. I risultati sul piano umano e strategico saranno infatti un’Ucraina in macerie, una Russia incattivita, un’Europa ancora più asservita, una generalizzata crisi economica, milioni di profughi, la crescente diffidenza della Cina e dell’India e l’incrinarsi del vecchio regime valutario imperniato sul dollaro. Visti in prospettiva, i risultati sono fallimentari. Chi sostiene che la Russia ha fatto un regalo alla NATO con l’invasione soffre probabilmente di allucinazioni.

      Il fatto che proprio in questa situazione anche Finlandia e Svezia stiano decidendo di entrare nella suddetta organizzazione prova due cose: il potere ipnotico dei nomi  e la scarsa intelligenza delle classi dirigenti dei due rispettivi Paesi, analoga a quella della classe dirigente ucraina. Inutile dire che l’organizzazione in questione è una miniera d’oro per i carrieristi, i burocrati e parassiti di professione e soprattutto per la lobby americana delle armi. Ecco perché il suo stendardo continua a sventolare imperterrito, incurante dei disastri che sta seminando.

      Se ora prendiamo “Partners”, saremmo quasi nella logica, se non fosse per l’ipocrisia dell’attribuire un’analoga statura ai compagni di ventura, in questo caso, le nazioni aderenti alla NATO. Neanche le scimmie crederebbero che realmente gli Stati Uniti considerano in cuor loro i vari membri della suddetta organizzazione come alter-ego e colleghi paritari, ma il termine “Partner” cerca di dare quest’illusione.

      Veniamo ora  un termine ancora più contorto, rappresentato da “National Security”, nozione che fa capo al National Security Council, istituito nel 1947 da Truman assieme alla CIA, poi diventata il suo braccio destro. Le operazioni cosiddette “coperte “di quest’ultima dal 1947 ad oggi e miranti a provocare cambi di regime, tutte all’insegna della National Security, non si contano. Esse vanno dal colpo di Stato siriano del 1949 al colpo di Stato in Iran nel 1953 (esautorazione di Mossadeq), alla Baia dei Porci e alla Repubblica Dominicana nel 1961, al Ghana nel 1966 e alla Bolivia nel 1971, al Cile nel 1970-1973, all’Angola, al Nicaragua, al Chad, solo per citarne alcune e senza menzionare i più recenti e disastrosi interventi in Iraq, Liba e Serbia. Sono tutti fatti ben noti, ma stranamente assenti nelle coreografie ufficiali.

      L’estensione geografica di questi interventi, verosimilmente dettati dalla supposta difesa della sicurezza nazionale – unica possibile spiegazione - è sicuramente sbalorditiva e farebbe quasi credere che gli Stati Uniti siano stati minacciati da una marea di nemici in tutti i continenti. La sua improbabilità si commenta da sé. Le ultime nervose reazioni per la firma del patto di sicurezza fra Cina e Isole Salomone, sperdute nel Pacifico e quindi lontane migliaia di chilometri dalle coste americane, costituiscono l’ultimo curioso esempio del come la nozione di “sicurezza” serve in realtà a mascherare la pretesa di un’insindacabile egemonia. Rimane il fatto che il fantasma della sicurezza nazionale si è talmente radicato nell’immaginario collettivo americano da emergere ad ogni piè sospinto anche in produzioni cinematografiche, da Homeland ai vari Jason Bourne e ad una legione di film  con sfondi spionistico-internazionali.

      Corollario di “National Security” è ovviamente il termine “patriot”, regolarmente presente sulla bocca dei parlamentari americani che, al di là dei conflitti interni, mostrano una singolare compattezza quando invece si tratta di politica estera. Per definizione, tale termine presuppone nuovamente dei pericoli esterni e dei “nemici”. Il fatto inoltre che molti dei suddetti parlamentari ma anche presentatori televisivi usino compiaciuti il termine “Questo Grande Paese” per riferirsi agli Stati Uniti conforta ulteriormente l’idea che la classe dirigente americana soffra di una sorta di esaltazione congenita. Se escludiamo infatti Paesi come la Corea del Nord, l’espressione risulta assente anche nel lessico di nazioni tradizionalmente scioviniste come Francia, Inghilterra o Cina. Sarebbe come se un famoso musicista o pittore ripetesse continuamente: “Io, che sono un Grande Musicista” O “Io, che sono un grande pittore”.

      I suddetti termini sembrano insomma il prodotto di una singolare paranoia, dove convivono, assieme probabilmente alla buona fede, anche meno disinteressati rinforzi psicologici al servizio di un élite al potere, che Wright Mills aveva già a suo tempo descritto e che rimane sostanzialmente valida nonostante le sue colorature marxiste. Ogni volta infatti che entrano in azione le interpretazioni marxiste della storia, bisogna sempre usare delle lunghe pinze. Anche supponendo che si tratti solo di buona fede, quest’ossessione della sicurezza nazionale non cessa comunque di essere ridicola, data la conformazione geografica degli Stati Uniti. Chi mai potrebbe pensare di invadere una nazione circondata dagli oceani? L’impresa sarebbe ardua. Quando mai è stata invasa negli ultimi 200 anni, contrariamente a tante nazioni del pianeta? Certo, oggi iniziano ad esistere minacce sempre più consistenti di razzi ipersonici e dalle gittate infinite, ma l’ossessione e la giustificazione della sicurezza nazionale esistevano già ben prima e hanno influenzato tutta la politica estera americana dal 1947 in poi.

        Insomma, in particolare questa nozione di National Security, bastione ideologico della politica estera americana, costituisce una delle meno credibili falsificazioni coltivate nei corridoi di Washington e del Pentagono, il cui scopo reale è quello di legittimare  una nazione perennemente in armi e quindi i suoi giganteschi e crescenti budget militari annuali ma anche le 800 basi sparse nel mondo. Il fatto che gli altri, “gli avversari” possibili, futuri o anche solo immaginari, abbiano budget militari di gran lunga inferiori e non abbiano analoghe basi sparse nel mondo non intacca la nozione. Anzi, caso unico al mondo, si rende necessaria la presenza anche di uno speciale Consigliere per la Sicurezza Nazionale…

       Paradossalmente, proprio questa parossistica ansia per la propria sicurezza (leggi preminenza mondiale) costituisce il maggior pericolo per il futuro degli Stati Uniti. Il loro reale avversario, che sempre più emerge all’orizzonte, sia economicamente che militarmente, e cioè, la Cina, non è più quella delle guerre dell’oppio e di un decadente impero Manchù nel XIX secolo. Inoltre, essa, che nel 1939 contava 400 milioni di abitanti, oggi ne conta un miliardo in più. La tentazione di applicare con quest’ultima le ricette militari usate in altri Paesi potrebbe rivelarsi, se non letale, sicuramente devastante per una nazione che non ha mai conosciuto il trauma di un intervento armato nel suo territorio. Tutto ciò potrebbe sembrare pura fantapolitica, ma l’ostinazione con cui gli Stati Uniti sembrano rifiutare l’inarrestabile e più equilibrato scenario di un mondo bi- o multipolare rende il suddetto rischio non così improbabile.

       Veniamo ora agli altri termini, a quanto pare molto amati dagli Europei di questo periodo.

        Nonostante il conclamato (ma falso) regime di libertà di opinione oggi esistente nelle nazioni della famigerata “Alleanza”, le critiche alla NATO, quando non sono state soffocate all’origine, sono trattate come scandalose bestemmie o nel migliore de casi come eccentriche e poco encomiabili stranezze. La suddetta entità ha infatti conquistato una tale autorevolezza e legittimità nei gangli dell’Europa e nell’immaginario popolare (o in quello dei poveri di spirito) che il metterla in dubbio e criticarla fa scattare la cervellotica equazione di “anti-occidentale”oppure quella (fossile) di “esponente della sinistra”. Mentre la prima è un insulto alla ragione, la seconda puzza di rozzo fanatismo di bassa lega e ricorda gli anni bui delle contrapposizioni fasciste e marxiste-leniniste. Come oggi si possa ancora definire il mondo e gli orientamenti identitari in base a schemi logori come quelli di “destra” e “sinistra”, che così spesso hanno rivelato la loro patetica intercambiabilità caratteriale, tradisce la mancanza di fantasia e spirito critico della cultura dominante. Su questo piano inclinato delle violenze al buon senso è quasi naturale veder spuntare il fungo di un’altra equazione non meno pretestuosa, e cioè, quella di “filo-Russo”. In altre parole, chi considera la NATO un organismo inutile e destabilizzante, non solo viene tendenzialmente privato della cittadinanza europea, ma deve anche essere per forza dalla parte dei Russi! Una logica da ippopotami ma soprattutto una malsana confusione fra Europa e NATO. Un tragico equivoco, di cui gli attuali governanti e folle di malpensanti non sembrano rendersi conto.

       Nonostante l’Europa si sia sbarazzata dei totalitarismi nazi-fascisti e comunisti, essa non ha riguadagnato un’indipendenza geopolitica. Sotto molti aspetti, è caduta dalla padella alla brace. Là dove si ergevano guglie gotiche, per esempio, oggi si moltiplicano i minareti, e ciò non sarebbe un male, se vi fosse un’analoga crescita di chiese nei Paesi musulmani e se gli Europei godessero in essi delle stesse libertà di movimento e di pensiero di cui godono gli immigrati musulmani in Europa. L’afflusso indiscriminato, inoltre, di incerti profughi e di incerti migranti dal tasso di fecondità due o anche tre volte superiore alla media europea (che è dell’1,5) non potrà non alterare nel corso del tempo secolari identità nazionali. Contrariamente alle popolazioni germaniche di antica memoria, la tendenza, capacità o disponibilità all’integrazione culturale di molti dei suddetti profughi o immigrati sono dubbie o comunque molto parziali. Anche qui, entra in gioco nuovamente il lessico, dove il termine “diritti umani” viene utilizzato astrattamente, anzi, pappagallescamente, senza un’adeguata percezione delle implicazioni della sua applicazione pratica.

       Insomma un petulante verbalismo e mistificazioni a tutti i livelli, sia politico-militare che sociale, le cui ricadute materiali ma anche psicologiche sono assai meno gloriose e onorevoli di quanto non pretendano i relativi cliché accennati in precedenza. Il risultato sembra infatti essere un progressivo e inarrestabile degrado e sgretolamento dell’identità e delle eredità europee. Per chi o per che cosa?

Antonello Catani, 27 aprile 2022

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