Junker, molla la poltrona!

Lo scandalo che sta travolgendo il neo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Junker, è di dimensioni ciclopiche. Un uomo che ha sfacciatamente favorito il proprio Paese (il Lussemburgo) essendone stato premier e ministro dell'economia, coe ci racconta Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano, accordando vantaggi fiscali da sogno (come direbbe Flavio Briatore, versione Crozza) a tante grandi aziende. Certo che un'Unione Europea che tollera sperequazioni fiscali mostruose tra Paese e Paese non potrà fare molta strada. O i signori di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte si decidono a fare gli interessi di tutto il Vecchio Continente (o almeno dei 28 Stati facenti parte dell'Ue) o l'Europa sarà condannata ad essere la cenerentola delle economie mondiali. L'unione fa la forza, suggerisce un vecchio proverbio, ma in questo caso, l'Ue si sta scavando la fossa e ha in preparazione l'elogio funebre, il proprio, e quello della moneta unica. A meno che... le economie affacciantesi sul Mediterraneo non rinsaviscano e costringano Angela Merkel ad abbandonare un'assurda linea rigorista. Che ha generato tanti guai. Le riforme, in ogni caso, vanno fatte: quella sul lavoro, sulla giustizia, quelle istituzionali e quant'altro. Riforme a Roma promesse da vent'anni e mai attuate. Renzi ci sta, sinceramente, provando, ma le resistenze appaiono molto forti. In questo contesto si inserisce lo scambio di quasi invettive tra il nostro premier e Junker e la scoperta del comportamento non proprio commendevole del lussemurghese, assurto ad un ruolo che non gli compete per statura morale. Sarebbe gesto egregio se annunciasse le dimissioni da presidente della Commissione Ue. Cameron, Renzi e Hollande dovrebbero mettere sulla bilancia la proposta. Se la sentiranno? Io ho dei forti dubbi...

Marco Ilapi

L'articolo di Stefano Feltri

Commissione Ue, la colpa è tutta di Juncker: è l'ora delle dimissioni?

Il neopresidente della Commissione europea Jean Claude Juncker si deve dimettere? Guardiamo la situazione in astratto:documenti ufficiali dimostrano che il titolare di una delle più importanti cariche europee nella sua passata vita politica è stato responsabile di accordi segreti con grandi multinazionali che grazie a queste intese sono riuscite a sottrarre decine di miliardi ditasse ai Paesi in cui avrebbero dovuto pagarle. Questo è, in sintesi,il risultato dell'inchiesta del Consorzio Internazionale per il Giornalismo Investigativo: 340 aziende hanno spostato una parte delle loro sedi legali in Lussemburgo per fare "ottimizzazione fiscale", cioè per pagare meno tasse usando metodi quasi leciti.

Due di queste corporation – Amazon e Fiat – sono già sotto inchiesta dalla Commissione europea guidata proprio da Juncker. Se si guardano i numeri, probabilmente ha fatto più danni alle finanze pubbliche europee Juncker che qualunque evasore fiscale. Eppure non se ne possono pretendere le dimissioni, come fa per esempio ilMovimento Cinque Stelle. Perché era tutto noto: basta leggere la brochure promozionale del Luxembourg Stock Exchange, la Borsa del Granducato, per vedere che questo ricchissimo staterello non ha pudore nel presentarsi come uno snodo fondamentale per le imprese che devono eludere il fisco. Perfino Finmeccanica ha usato il Lussemburgo per pagare meno tasse allo Stato italiano, suo primo azionista (il nuovo management spiega che in futuro non succederà più).

Quando il Partito Popolare e poi il Consiglio e il Parlamento europeo hanno individuato in Jean Claude Juncker il successore di José Barroso alla Commissione, hanno applicato una specie dicondono fiscale. O almeno morale. L’Europa accetta al suo interno quello che gli economisti chiamano arbitraggio fiscale o, meglio, “beggar thy neighbour” (frega il tuo vicino). La prosperità di nazioni sempre pronte a criticare la bassa competitività dei Paesi mediterranei indebitati si fonda quasi esclusivamente sulle furbate fiscali: Olanda, Gran Bretagna e soprattutto Irlanda hanno fatto della bassa imposizione fiscale la fonte della crescita. Uno sviluppo ammirato e celebrato ma che è soltanto l’altra faccia della colossale imposizione fiscale lamentata altrove, soprattutto in Francia e Italia. Lo scandalo “LuxLeaks” non è una notizia. La sanzione morale che comincia a colpire le aziende che aggirano il fisco in Europa invece è una cosa nuova. Juncker dovrà tenerne conto.

Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano - 7 novembre 2014

Un articolo di Massimo Restelli su il Giornale

Così funziona l'eden delle tasse. Ma chi ci entra non è un evasore

Per staccare il biglietto di ingresso serve un consulente locale che può costare fino a 50mila euro. E i patti permettono di ridurre le aliquote al minimo

Ogni «club» che si rispetti ha una porta d'accesso e quella che devono varcare le aziende e i «paperoni» di tutto il mondo per godere della magnanimità del fisco del Lussemburgo, di fatto tra i meno esosi del Pianeta, è quella della Societè 6 al civico 18 di rue du Fort Wedell

È in questo bureau d'imposition , a due passi dalla stazione ferroviaria, che il funzionario preposto vaglia i decisivi tax ruling.

Si tratta dei «patti fiscali» tra la singola impresa (o privato cittadino) e l'Agenzia delle entrate del Granducato, in cui si stabilisce di comune accordo una tassazione in deroga all'aliquota formale del 29% in vigore nello piccolo Stato europeo. Un sistema ben oliato e che «non ha nulla di illegale», sottolinea Francesco Giuliani dello studio Fantozzi, ricordando come il Lussemburgo non sia un paradiso fiscale in senso classico.

La «generosità» del Granduca costa però molto cara agli altri Paesi del Vecchio Continente in termini di mancato gettito sugli utili e dividendi delle aziende che chiedono asilo nella cittadina. Come dimostrano in modo plastico le decine, a volte centinaia di targhe societarie che affollano i portoni del Granducato: sono 11mila le casseforti domiciliate tra le strade di Lussemburgo e 150 le banche.

Secondo alcune stime l'ammanco totale per gli altri condòmini dell'Eurozona arriva a 1.400 miliardi; da qui le vibrate proteste che gli altri Stati hanno inviato a Bruxelles, ipotizzando che il sistema nasconda aiuti di Stato. Non esistono comunque limiti di fatturato o di altra natura per inoltrare la domanda e sperare che rue du Fort Wedell apponga il timbro «lu et approv é» («letto ed approvato»).

Ogni porta, però, ha una serratura che si schiude soltanto se si ricorre alla giusta chiave. Ecco perché chi decide di prendere casa nel Granducato non può esimersi dallo stabilire un contatto (e pagare la relativa parcella) con uno degli esclusivi e gelosissimi consulenti locali, cui affidare appunto la stesura del tax ruling : i costi una tantum, secondo alcune stime, oscillano tra i 10mila e 50mila euro. Una cifra considerevole ma in un'ultima analisi trascurabile, se questo significa strappare il biglietto d'ingresso per un Paese dalle tasse ridotte all'osso e che non fa decine di successivi accertamenti fiscali.

La stesura dell'atto è preceduta da una serie di incontri tra i legali e il cliente, con una particolarità determinante: a differenza di quanto accade in altri Paesi, è lo stesso advisor di stanza nel Granducato «che redige materialmente il ruling da sottoporre al bureau d'imposition al fine di ottenerne l'approvazione», sottolinea l'avvocato Jean Paul Baroni dello studio Simonelli Associati. In sostanza un efficace lavoro di squadra, che contribuisce alla prosperità del Lussemburgo: i suoi 550mila sudditi sfoderano un reddito procapite di 110mila dollari, il più elevato al mondo, a fronte di un debito pubblico fermo al 23% del Pil. Il ruling è un atto «ispirato alla reciproca convenienza tra il contribuente e il Granducato, che ha così certezza delle entrate e favorisce l'occupazione», riassume Giuliani. Quanto alle tipologie societarie che trasclocano più di frequente, oltre naturalmente alle multinazionali e alle holding (come quella del papà di Luxottica, Leonardo Del Vecchio o della famiglia Ferrero, i proprietari della Nutella), ci sono marchi, brevetti e più in generale i «beni intangibili» o collegati alla proprietà intellettuale. Ecco perché hanno un indirizzo nel Granducato buona parte delle big company italiane.

La cittadina dove l'austerità dei palazzi nobiliari si mescola con la levità dell'architettura moderna, resta poi meta ambita per quanti vogliono schermare i propri averi con piramidi e matrioske: i meccanismi a disposizione sono diversi e possono contemplare scatole cinesi o trust di complessità crescente, ma - prosegue Baroni - i sistemi principali restano il «negozio fiduciario» e quello delle «azioni al portatore». Un modo pratico, per tenere i propri affari al riparo da sguardi indiscreti: la stessa Camera di commercio fornisce una parziale visura sui bilanci, ma difficilmente si lascia scappare informazioni dettagliate sul libro soci.

In attesa di capire quale piega prenderanno gli accertamenti avviati da Bruxelles sul Paese, quello che resta ad oggi è che il Granducato ha garantito la sua prosperità, con un raffinato sistema fiscale e burocratico in giacca e cravatta comunque lontano dagli eccessi dei paradisi fiscali d'elezione come le isole Cayman. Forse all'Italia, e al governo Renzi, converrebbe plasmare un fisco più giusto e meno nemico di chi risparmia o fa impresa. Così da chiudere il recinto prima che tutti i buoi siano irreparabilmente fuggiti.

Massimo Restelli - Giornale - 7 novembre 2014

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I colpevoli i ritardi dell'Europa

  • Pubblicato in Esteri

Si vota per l'Europa. Per un'Europa diversa. L'Italia, che si accinge ad assumere la presidenza del Consiglio dell'Unione, dovrebbe proporre una revisione per chiarire (almeno) le ambiguità del Trattato di Lisbona e per rilanciare la "Carta dei diritti fondamentali" della Ue, varata nel 2000 quando Prodi era presidente della Commissione, che non è stata poi adeguatamente valorizzata per rafforzare l'identità europea.

L'Unione Europea deve cambiare passo

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