L'Asia di sciagure e di cure
- Scritto da Ugo Pilia
A oriente tutti aspettavano un’altra epidemia. Come si aspetta un tifone o un terremoto, cioè facendosi trovare pronti. Attrezzati. Negli anni sono nati protocolli, sistemi d’allerta e d’emergenza. Un viaggio nei luoghi dove tutto è iniziato, e dove cercare anche le soluzioni. Tutti si aspettavano un’altra epidemia, in Asia. Come si aspetta un tifone, un terremoto, oppure uno tsunami. Prima di questa pandemia, noi invece conoscevamo i nomi dei virus che erano apparsi sporadicamente da queste parti, quelli che ci hanno fatto paura e che anche i nostri medici e infermieri hanno dovuto affrontare. Sars, Mers, H1N1: erano sempre virus di un altro mondo, estranei in casa nostra. E invece in quel mondo, viaggiando verso est, epidemia è una parola che si usa frequentemente. Come anche mascherina, isolamento, quarantena, contagio, igienizzante, spillover, focolaio, tracciamento, incubazione, asintomatici, distanza sociale. Parole che sono entrate nel nostro linguaggio, solo adesso che il nuovo coronavirus è anche nostro. E ora che tutti cercano regole, modelli e protocolli da seguire, perché nessuno si salva da solo in una pandemia, di nuovo si guarda a oriente, dove tutto è iniziato. Una delle ricerche più frequenti su Google è “why do flu virus start in asia”, perché i virus influenzali si diffondo in Asia. Così nelle prime settimane di questa pandemia – prima ancora che la riconoscessimo come una pandemia – anche dalle nostre parti si sentiva dire spesso: “Mica è un caso, che arrivano tutti da lì”. C’è stato un momento in cui il legittimo giudizio sulla gestione di un’epidemia da parte di un governo straniero e sulle sue responsabilità politiche scivolava pericolosamente su un altro giudizio – o meglio, un pregiudizio. Di cui si è fatto portavoce il presidente della Regione Veneto Luca Zaia. Perché l’ormai arcinota frase “li abbiamo visti tutti i cinesi mangiare i topi vivi” è solo una parte del più articolato discorso, per il quale Zaia si è già scusato, e che però svela un punto fondamentale di questa storia: dell’Asia vogliamo giudicare tutto, ma non ne sappiamo niente. Nel corso di un’intervista alla televisione Antenna Tre-Nord Est, a fine febbraio, quando in Veneto i casi positivi al coronavirus erano solo 116, Zaia sembrava certo di essere al sicuro contando sul fatto che i veneti si fanno la doccia: “L’igiene che ha il nostro popolo, la formazione culturale che abbiamo, è quella di farsi la doccia, di lavarsi. Un regime di pulizia personale particolare, anche l’alimentazione, la pulizia, le norme igieniche, il frigorifero, la scadenza degli alimenti. E’ un fatto culturale”. Neanche un mese dopo queste parole, l’Italia è diventata il paese con più casi di Covid al mondo dopo la Cina (almeno ufficialmente). Le norme igieniche, gli standard sanitari cinesi – in generale asiatici – secondo molti erano la prova del delitto colposo non solo della Cina, ma di un intero continente. Avevamo bisogno di un colpevole, ma stavamo sbagliando mira. E quel che è peggio è che mentre cercavamo di colpirlo abbiamo perso tempo. Ci siamo dimenticati di capire, di prendere precauzioni e di essere pronti ad affrontare la peggiore epidemia di una sindrome simil-influenzale degli ultimi cento anni.
E quindi perché le epidemie iniziano in Asia?, si domanda la gente su internet. E la prima risposta che bisognerebbe dare, che è anche quella più scontata, è che non è vero. Ci sono periodicamente terribili epidemie in Africa, focolai di malattie virali in Sud America, per non parlare dei rischi che nei paesi più sviluppati sono stati fatti esplodere dai gruppi antivaccinisti. Il 2019 è stato l’anno nero del morbillo. In America si è registrato il più alto numero di casi da venticinque anni, con conseguenze locali enormi. Negli stati di New York, Washington, Maine è stata modificata la legge che permetteva alle persone di essere esentate dalla vaccinazione per motivi religiosi. In Congo il morbillo ha fatto almeno cinquemila morti. Nell’agosto del 2019 un passeggero infetto partito da Auckland, in Nuova Zelanda, e arrivato nello stato di Samoa, ha probabilmente acceso un focolaio di morbillo così grave che il governo è stato costretto al lockdown. Per il morbillo, una malattia infettiva esantematica altamente contagiosa causata dal morbillivirus, abbiamo un vaccino efficace. Eppure il messaggio antivaccinista – condito dalle solite teorie infondate, complottiste e antiscientiste – è passato, e ha messo in pericolo tutti. Di certe epidemie però parliamo di meno, e ci sono varie ragioni. Da una parte una malattia come il morbillo, una volta contratta, conferisce un’immunizzazione definitiva: chi l’ha avuta è al sicuro e questo fa meno paura. Per altre epidemie il motivo è più geografico, cioè difficilmente escono dai confini in cui si crea il focolaio. L’Asia ha alcune caratteristiche particolari, che aiutano soprattutto la diffusione di virus simil-influenzali, e la parola chiave da conoscere in questo caso è “zoonosi”. “Si definisce zoonosi ogni infezione animale trasmissibile agli esseri umani. Ne esistono molte più di quanto si potrebbe pensare”, scriveva nel lontanissimo 2012 lo scrittore e divulgatore scientifico David Quammen. “Spillover” (tradotto in italiano da Adelphi) è una specie di enciclopedia delle cose da sapere sulle epidemie. “L’Aids ne è un esempio, le varie versioni dell’influenza pure”. Le città asiatiche hanno alcune caratteristiche ideali per lo spillover, cioè il salto dall’animale all’uomo del virus. Un’altissima densità abitativa che convive con una ampia varietà di animali.
Con l’urbanizzazione e la crescita economica, è cresciuta anche la domanda da parte dei consumatori nei confronti degli allevatori. All’inizio degli anni Duemila i piccoli allevamenti di pollame si sono man mano trasformati in allevamenti intensivi – è così che, secondo gli scienziati, ha avuto origine l’influenza aviaria. Che colpisce soprattutto gli uccelli selvatici e domestici, ma in alcuni casi può essere trasmessa all’uomo. Nell’ultimo anno si sono registrati focolai in Slovacchia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, e la scorsa settimana un allevamento in Sassonia, in Germania, è stato messo in quarantena e tutti i polli sono stati macellati per un focolaio di virus H5N8. Lo stesso virus che in Arabia Saudita un mese fa ha ucciso 22.700 volatili, e quasi quattrocentomila sono stati eliminati. Le autorità saudite, ancora oggi che per noi l’emergenza è un’altra, continuano a sensibilizzare la popolazione, con manifesti e messaggi sui social network: lavatevi le mani spesso, mantenete la distanza sociale, e non toccate i polli. Perché ovunque ci sia un contatto persistente tra uomo e animale aumentano le possibilità di uno spillover, di un virus che fa il salto. La popolazione e la densità abitativa fanno il resto. Se un focolaio si accende in un villaggio africano è più facile da controllare, se parte dai mercati di Canton o Shenzhen, tra i più frequentati del mondo, sarà impossibile fermarlo. “Le malattie del futuro, ovviamente, sono motivo di grande preoccupazione per scienziati ed esperti di sanità pubblica. Non c’è alcun motivo di credere che l’Aids rimarrà l’unico disastro globale della nostra epoca causato da uno strano microbo saltato fuori da un animale”, scriveva sempre otto anni fa Quammen. “Qualche Cassandra bene informata parla addirittura del Next Big One, il prossimo grande evento, come di un fatto inevitabile (per i sismologi californiani il Big One è il terremoto che farà sprofondare in mare San Francisco, ma in questo contesto è un’epidemia letale di dimensioni catastrofiche). Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale? Farà trenta, quaranta milioni di vittime?”.
Non conosciamo ancora che tipo di salto abbia fatto il nuovo coronavirus. Uno dei motivi per cui fa così tanta paura il Sars-CoV-2 – e il Covid, la malattia provocata dal virus, che è particolarmente aggressiva – è che ne sappiamo molto poco: “I virus sono quelli che danno più problemi”, scrive Quammen, “Si evolvono con rapidità, non sono sensibili agli antibiotici, sono a volte difficili da trovare, possono essere molto versatili e portare tassi di mortalità altissimi”. Come funziona, come si diffonde, come sopravvive il nuovo coronavirus ancora non lo sappiamo. Gli scienziati vanno per esclusione. Una delle poche cose certe è che il virus non è stato creato in laboratorio. Lo dice la sua struttura genetica, e non un complottista con una connessione internet. Un’altra cosa che possiamo solo ipotizzare è la responsabilità dei pipistrelli oppure dei pangolini, quegli adorabili mammiferi, simili ai formichieri ma ricoperti di squame, che sono tra gli animali più trafficati illegalmente al mondo. Anche qui, secondo gli scienziati, non abbiamo ancora sufficienti prove. Il virus potrebbe essere saltato dal pipistrello direttamente all’uomo oppure aver usato un animale “ospite”, un intermediario (il pangolino, appunto). La struttura del Sars-CoV-2 è comunque simile quasi del tutto allo stesso tipo di virus trovato nei pipistrelli. Ci sono molte incognite ancora, ma c’è una cosa che a distanza di tre mesi di certo sappiamo: l’effetto che questa infezione virale provoca sulla popolazione e sui nostri sistemi sanitari. E abbiamo qualche indizio anche sul come gestirla, perché le epidemie virali – da coronavirus, da influenzavirus A, perfino da morbillivirus – le abbiamo già vissute. La scienza ci dice che un’epidemia virale può nascere ovunque, a fronte di determinate condizioni naturali. Poi c’è la politica, perché la risposta del governo – a seconda del suo sistema, della tenuta del suo sistema sanitario, dei protocolli di cui si è dotato un paese – è il primo argine al diffondersi di un’epidemia. Cominciamo a capire soltanto adesso quello che è successo in Cina, dove un governo autoritario e un macchinoso e burocratico sistema di comunicazione tra funzionari del Partito locali hanno provocato una catastrofe. Dicevamo che la maggior parte dei paesi asiatici aspetta la nuova epidemia mortale sin dal 2003. E’ l’anno della Sars, l’anno in cui tutto è cambiato in Asia, soprattutto per quel che riguarda l’infettivologia. Anche la Cina si era dotata di un sistema celebrato come “modello”, che funziona attraverso la comunicazione pressoché immediata delle strutture sanitarie in tutto il paese con il Centro per il controllo delle malattie infettive di Pechino. Ogni volta che c’è un caso di una malattia infettiva, la struttura, anche la più lontana dalla capitale, è obbligata a segnalarlo all’autorità, che poi procede con l’identificazione del focolaio. Per qualche ragione ancora misteriosa, Gao Fu, a capo del Centro, scopre di una “polmonite atipica” che circola a Wuhan soltanto il 30 dicembre, e per caso. Il giorno successivo segnala la cosa all’Oms e l’emergenza diventa pubblica. Eppure sappiamo che i primi casi di quella stessa polmonite atipica si sono registrati almeno un mese prima. Se da una parte l’eccellente sistema di allerta non funziona, una volta che l’informazione arriva a Pechino una delle preoccupazioni principali del governo di Xi Jinping è quella di controllarne la narrazione. Usando gli strumenti che siamo abituati ormai a vedere. Nel frattempo è il Capodanno cinese, le persone si muovono, si spostano, viaggiano, i funzionari della provincia dello Hubei – che non è esattamente una provincia da terzo mondo, ma una regione super industrializzata della Cina e dalla quale dipende gran parte della filiera produttiva mondiale – minimizzano, anche per dare l’impressione a Pechino di avere tutto sotto controllo. Si fanno banchetti per il Capodanno (che a riguardarli oggi, somigliano molto a certi aperitivi a Milano subito prima di realizzare la gravità della situazione). Alcuni giornali stranieri come il New York Times e anche vari media cinesi – tra cui Caixin, specializzato in giornalismo d’inchiesta, vicino al vicepresidente della Repubblica popolare Wang Qishan – fanno quello che devono: vanno a vedere la situazione a Wuhan. I social network, non solo quelli, si riempiono delle immagini drammatiche di Wuhan, con le code davanti agli ospedali, e i cosiddetti citizen journalists raccontano una storia molto diversa da quella che viene messa nero su bianco dai giornali ufficiali della propaganda come il Quotidiano del popolo e il Global Times. Il 7 gennaio il virus viene finalmente identificato, e nei giorni successivi cominciano i casi fuori dai confini cinesi: Giappone, Singapore, Corea del sud, Taiwan, Vietnam. Il 23 gennaio il governo di Pechino non può più aspettare ed è costretto a prendere la situazione in mano. Soluzione? Lockdown generale. Prima della città di Wuhan, 11 milioni di persone, poi dell’intera provincia dello Hubei e man mano tutte le aree dove si verificano casi. Si stima una quarantena di (ufficialmente) almeno cinquanta milioni di persone, un esperimento unico, mai tentato prima, i cui effetti non sappiamo esattamente quali saranno. Il 18 marzo scorso la Cina ha dichiarato nessun nuovo caso sin dall’inizio dell’epidemia, la seconda bandierina della vittoria della guerra contro il virus – la prima risale al 10 marzo, quando il presidente Xi Jinping per la prima volta ha visitato Wuhan. Le persone che oggi, soprattutto in Italia, celebrano la vittoria cinese e soprattutto quel modello cinese, si basano su dati di cui purtroppo possiamo fidarci poco. Perché la vittoria cinese è soprattutto una vittoria politica. Ed è, più in generale, la vittoria dell’autoritarismo: con un sistema ipertecnologico già in piedi, un controllo sociale capillare, per Pechino è stato facile rimediare agli errori precedenti imponendo lo stato di terrore (una cosa molto simile allo: state a casa, perché se non morite a causa del virus morite per mano del Partito).
Gli strumenti per monitorare un’epidemia nelle mani di un governo democratico possono essere particolarmente efficaci. L’esempio della Corea del sud, ma non solo. Taiwan, Hong Kong e perfino Singapore. L’azzardo di Shinzo Abe, anche per mettere in sicurezza i Giochi olimpici, è davvero un azzardo? E questa quarantena efficacissima, celebrata dai sostenitori di Pechino all’estero, è stata criticata dagli stessi cittadini cinesi: lo dimostrano le proteste durante la visita a Wuhan della vicepremier Sun Chunlan, il 2 febbraio, rilanciate perfino dai media ufficiali cinesi. Le persone affacciate alle finestre durante il sopralluogo urlavano alla vicepremier di non ascoltare i funzionari locali, perché nulla era vero dell’organizzazione impeccabile rilanciata in questi giorni anche in Italia. Forse l’ennesimo tentativo del governo centrale di scaricare la colpa sui funzionari responsabili locali, ma anche un modo per la propaganda interna per ammettere un errore, e far sfogare un po’ un pezzo di popolazione che è stata sostanzialmente sacrificata. Fuori dallo Hubei, nelle altre province cinesi, il metodo di controllo dei contagi è stato più efficace e meno drammatico, grazie però a un enorme dispiegamento di tecnologia e mobilitazione di massa: controlli all’ingresso e in uscita da ogni complesso residenziale, stazioni ferroviarie controllate in modo da impedire l’accesso ai non residenti, “centinaia di migliaia di neoassunti e volontari che controllano la temperatura dei residenti, registrano i loro movimenti, sovrintendono alle quarantene e soprattutto tengono lontani gli estranei che potrebbero portare il virus”, scriveva già il 15 febbraio il New York Times. Un lockdown in piena regola, forse necessario, ma l’esperimento su così vasta scala di uno strumento simile, nelle libere mani di uno stato autoritario, celebrato perfino dall’Organizzazione mondiale della sanità, non fa passare momenti tranquilli alle persone che vivono nelle aree più controllate e represse, come lo Xinjiang o il Tibet. Strumenti altrettanto efficaci, al contrario, nelle mani di uno stato democratico fanno un altro effetto. A millequattrocento chilometri a nord-est da Wuhan c’è una delle capitali più tecnologizzate al mondo. Il 24 per cento dell’intera popolazione sudcoreana vive nella megalopoli Seul, dove già da tempo il contante non si usa più, dove la videosorveglianza e la raccolta dei dati da parte del governo non è vissuta come una violazione della privacy, ma come uno strumento moderno per ridurre la criminalità. Seul è una delle città più sicure del mondo. Da un giorno all’altro, il mese scorso, la Corea del sud, guidata dal presidente democratico Moon Jae-in, si è ritrovata prima dell’Italia a essere il paese più colpito dall’epidemia, subito dopo la Cina. Del “modello sudcoreano” in questi giorni si parla molto, soprattutto per quanto riguarda la strategia dei “tamponi a tappeto”, senza riconoscere però le sostanziali differenze che la Corea del sud ha con altri paesi, per esempio il nostro, e che ha permesso a Seul di evitare rigorosamente il lockdown. L’epidemia in Corea è iniziata a Daegu, nel sud-est della penisola, la terza città dopo Seul e Busan. All’inizio di febbraio il focolaio è stato individuato tra i membri di una delle centinaia di sette religiose che esistono in Corea. La Shincheonji conta circa 9.300 membri in tutto il mondo e, secondo le indagini, anche dopo l’emergenza dichiarata nello Hubei, aveva continuato a indire preghiere di gruppo a Wuhan per combattere il virus. Poi qualcuno era tornato a casa sua, in Corea. Al 5 marzo, il 59,9 per cento dei casi di Covid in Corea del sud erano legati alla Shincheonji, il 90 per cento limitati all’area di Daegu. Già a metà gennaio il governo di Moon Jae-in ha attivato il protocollo delle malattie infettive che viene studiato sin dal 2015, quando la Mers nel paese fece 36 morti e 186 infetti. Non appena la Cina ha pubblicato i risultati della mappa genetica del virus, almeno quattro aziende sudcoreane hanno iniziato a sviluppare e stoccare kit di test con l’aiuto del governo, e ben prima che il paese avesse il suo primo focolaio. La seconda fase del protocollo è stata attivata quando sono iniziati i primi casi sul territorio nazionale. Il cosiddetto drive-through testing station, cioè i famosi test fatti in automobile riducendo i contatti tra persone, e i test a tappeto – oltre trecentomila persone testate dall’inizio dell’epidemia, non sono da soli sufficienti per contenere i contagi. Un paese che ha la possibilità di sfruttare il potenziale tecnologico lo fa soprattutto in questi casi: di ogni persona risultata positiva al test, il governo traccia una mappa che sin da subito è stata messa a disposizione online. Se i ricordi del paziente non sono chiari (oppure se mente) un team di investigatori traccia i movimenti grazie alle telecamere di sorveglianza e alle carte di credito. In questo modo chiunque sia stato nello stesso luogo di un contagiato può monitorare i suoi sintomi, oppure evitare quel luogo. E’ stata subito rilasciata anche una “safety protection app”, un’applicazione sullo smartphone che richiede per due volte al giorno, per chi è in autoquarantena, di inserire i propri dati sanitari – se uno di questi dati è a rischio, si richiede il tampone. Secondo il documento ufficiale del ministero della Salute, che il Foglio ha potuto visionare, Seul ha una strategia precisa anche su chi va testato e chi va monitorato. “Dato che i sintomi del Covid sono a volte non distinguibili con quelli del raffreddore, chiunque abbia almeno uno dei sintomi e venga dall’area a rischio va testato”, si legge. Un altro aspetto interessante di questo protocollo è che all’inizio il governo di Seul richiedeva il ricovero ospedaliero per chiunque fosse positivo, “ma vista la carenza dei posti letto si è deciso di dare priorità solo a chi ha sintomi severi”. Ma gli altri non stanno a casa: i casi confermati “che non hanno bisogno di molte cure mediche sono trasferiti in strutture di quarantena, e monitorati”. Anche qui, praticamente online. Come mostrava l’emittente sudcoreana Arirang, le stanze degli alloggi di quarantena – quasi tutte ex caserme e strutture militari – hanno telecamere e connessione affinché il personale medico non debba necessariamente entrare in contatto con il paziente, ma può farlo da remoto. Secondo gli scienziati sudcoreani, questo sistema avrebbe permesso di curare per tempo tutti, e di abbassare enormemente i fattori di rischio e il tasso di mortalità.
“La Corea ha un’opinione pubblica molto forte, una società civile tra le più attive del mondo”, spiega al Foglio Antonio Fiori, professore associato al Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e adjunct professor alla Korea University di Seul. “Almeno in principio l’Amministrazione di Moon è stata accusata duramente dall’opposizione, dai conservatori. C’è stata addirittura una richiesta di impeachment per il presidente, accusato di aver tenuto aperti i collegamenti con la Cina per questioni puramente diplomatiche ed economiche. Insomma l’elemento politico è molto pervasivo e l’emergenza viene usata anche in modo politico, però c’è una differenza sostanziale con altri paesi europei, e cioè che l’emergenza deve funzionare anche come collante sociale, e la pervasività delle infrastrutture tecnologiche è vista come una misura cautelativa contro un’ulteriore diffusione del virus”. Anche se la politica fa il suo mestiere, nelle società confuciane e democratiche, le istituzioni non sono viste come il nemico. Funziona ancora molto bene la politica locale, che si mette a disposizione per trasmettere le informazioni e i controlli porta a porta, oppure attraverso i canali delle amministrazioni municipali: uno dei modi per far sentire la presenza delle autorità alla comunità. Perfino Moon Jae-in ha visitato Daegu subito dopo aver dichiarato l’emergenza: “Lo ha fatto per dimostrare la vicinanza della politica a quello che sta succedendo alla popolazione. C’è stato un intervento politico immediato. Se non hai fiducia nell’autorità è inutile che l’autorità ti dica di tenere alcuni comportamenti, è una delle differenze fondamentali tra il contenimento italiano e quello sudcoreano”, dice Fiori. Grazie anche a questa fiducia tra istituzioni e cittadini, pur nel dialogo politico, il lockdown in Corea non è stato necessario: i ristoranti, i negozi, le amministrazioni sono rimaste aperte. “Anche l’umore a Taiwan è completamente diverso dal senso di panico e confusione che si avverte in Europa e negli Stati Uniti, dove l’arrivo della pandemia è stato una sorpresa per molti”, hanno scritto Kathrin Hille e Edward White in un articolo pubblicato la scorsa settimana sul Financial Times dal titolo “Lezioni dall’Asia”. “Restrizioni sui viaggi emesse molto rapidamente, una politica aggressiva sui test, lo screening dei contatti avuti dai contagiati e rigide regole di quarantena sono stati cruciali. E poi hanno aiutato l’assistenza sanitaria universale, una struttura di gestione chiara nella risposta della Sanità e una comunicazione proattiva per coinvolgere la popolazione. Questi modelli politici hanno aiutato a contenere il virus a Taiwan e Singapore e a ridurre o rallentare i tassi di infezione in Corea del sud, Hong Kong e Giappone. Mentre l’Organizzazione mondiale della sanità suggeriva agli altri paesi di imparare dalla Cina, elogiata per “lo sforzo di contenimento delle malattie più ambizioso, veloce e aggressivo della storia”, alcuni esperti ritengono che le democrazie asiatiche, come Taiwan e Corea del sud, possano essere modelli migliori per la gestione delle epidemie nei paesi occidentali, vista la diversa natura del sistema politico cinese”. A Taiwan, come Hong Kong, il trauma è stato il 2003, la Sars. Un trauma che ha aiutato a ridefinire i protocolli. Taipei in particolare – ancora esclusa dall’Oms per via della One China Policy imposta da Pechino, che rivendica Taiwan come parte del suo territorio – ha dato una lezione soprattutto all’Italia, che il 30 gennaio ha imposto lo stop ai voli da e per la Cina (una misura ormai considerata pressoché inutile) includendo nella definizione di “Cina” anche Taiwan. E invece il governo di Taipei guidato da Tsai Ing-wen, rieletta per un secondo mandato soltanto un paio di mesi fa, ha retto non solo la diplomazia aggressiva di Pechino ma anche il contagio. Nonostante la vicinanza geografica con la Cina continentale – e gli enormi scambi commerciali e di persone tra l’isola e la Cina continentale – Taiwan si è mossa subito: ha accelerato la produzione di materiale indispensabile per la messa in sicurezza degli operatori e della popolazione (il governo ha pagato per il lavoro extra delle industrie), ha tracciato i contagiati, ha controllato possibili focolai, ha messo in campo la tecnologia per monitorare i viaggi e le persone che entravano sul proprio territorio. Proprio come la Corea del sud l’autorità ha inviato messaggi chiari e semplici, e in varie lingue, per evitare che il panico partisse dalle comunità straniere. In un paper circolato molto online Jason Wang, direttore del centro per la Politica e la prevenzione dell’università di Stanford, spiega che il successo del modello di Taiwan sono sì l’analisi dei big data, la tecnologia, la precisa politica sui tamponi, ma anche la trasparenza e la capacità di tenere in considerazione l’aspetto più pericoloso di un’epidemia, e cioè quello sociale. “Durante una crisi”, si legge nel paper, “i governi devono spesso prendere decisioni difficili in circostanze incerte e soprattutto velocemente. Queste decisioni devono essere culturalmente appropriate e sensibili per la popolazione”. Dopo il primo caso di Covid sul proprio territorio, anche Singapore ha attivato la sua squadra di investigatori – i tracciatori dei contagi che hanno accesso a tutti i dati – mentre i ricercatori iniziavano la produzione dei test. Nell’ultima settimana la situazione è iniziata a diventare preoccupante anche per il governo della città stato, dopo i primi due morti. E’ una sorta di “contagio di ritorno” che stanno subendo varie aree asiatiche: le persone che erano rimaste in quarantena all’estero e che ora stanno tornando indietro. Sono stati vietati i grandi eventi (prima il divieto era limitato a eventi con un numero superiore a 250 persone), e si sta favorendo il lavoro da casa. Il ministro per lo Sviluppo e capo della task force governativa contro l’epidemia, Lawrence Wong, ha detto che “non c’è alcuna prova di trasmissione all’interno della comunità, finora i casi che abbiamo registrato sono stati importati, ma con queste nuove regole vogliamo essere proattivi e mettere in atto misure di distanziamento sicuro molto rigorose”.
Il vero luogo misterioso di questa battaglia globale è il Giappone. Dove l’altro giorno i giapponesi hanno celebrato quasi come se niente fosse l’hanami, l’osservazione della fioritura dei ciliegi. A Tokyo il cielo era luminoso e le persone banchettavano come sempre all’ombra dei fiori rosa. Al momento in cui questo giornale va in stampa, i casi di Covid su territorio nipponico sono meno di mille. Secondo vari osservatori, il governo di Shinzo Abe sta semplicemente ignorando il problema ed evitando di testare le persone per il virus: riuscire a dare l’impressione di aver contenuto l’epidemia significherebbe per il Giappone non mettere a rischio i Giochi olimpici. Ma come scriveva l’altro ieri il Japan Times, se fosse davvero questa la strategia del governo di Abe, probabilmente ne vedremo gli effetti molto presto, e di sicuro prima della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi. Il Giappone condivide con l’Italia una caratteristica importante da considerare, e cioè la percentuale di popolazione over 65, la popolazione a rischio. La teoria dell’insabbiamento del governo della reale situazione negli ospedali non regge, perché notizie drammatiche come quelle che vediamo noi arrivare dalla Lombardia sarebbero uscite. Un’ipotesi possibile è che i minimi e chirurgici sforzi del Giappone per il contenimento siano bastati: “Che i test mirati ove necessario abbiano contenuto i focolai; che lo stop ai grandi eventi nei primi giorni dell’epidemia abbia limitato il contatto tra infetti e sani; che gli sforzi dei singoli e delle società (come la consegna delle pizze senza contatti umani) abbiano fermato la diffusione senza avere bisogno di una direttiva governativa”, scriveva Oscar Boyd. Tra poco in Giappone le scuole riapriranno, e quello sarà davvero il momento di tornare alla normalità, e di verificare se la strategia di Abe ha funzionato.
Giulia Pompili - Il Foglio - 23 marzo 2020