Mentre il coronavirus sta diffondendosi in tutti i Paesi del mondo, i sui effetti sull'economia, sull'occupazione e sui mercati stanno mettendo sotto enorme pressione la politica economica. È chiaro a tutti, infatti che, senza un forte sostegno della domanda e senza una riorganizzazione dei nostri modi di produrre, la crisi sanitaria può generare una profonda recessione con effetti politici e sociali facilmente prevedibili. È chiaro altresì che la politica economica tradizionale mal si presta a questo nuovo compito.
La politica economica occidentale, negli ultimi vent'anni, si è retta su tre pilastri: la globalizzazione dei commerci, del lavoro e della finanza; una politica fiscale rigorosa con conseguente repressione della domanda interna; e da ultimo una politica monetaria ultra espansiva. Questa politica ha accompagnato un lungo periodo di espansione, con notevoli squilibri, vinti e vincitori. In Asia quasi un miliardo di persone è uscito dalla povertà, trasformando quei Paesi nella manifattura del mondo con un notevolissimo surplus commerciale. Negli Stati Uniti, per converso, si è consumato troppo rispetto alle risorse prodotte e l'espansione si è accompagnata a diseguaglianze e disoccupazione. In Europa sono mancati investimenti e crescita, nel tentativo di esportare a tutta l'Unione il modello di crescita tedesco fondato su contenimento della domanda interna per spingere al massimo le esportazioni.
La crisi finanziaria dal 2008 ha mostrato la fragilità di quel modello e ha portato i Paesi occidentali ai populismi, affermatisi in tutti i Paesi dopo il 2016. Gli elettori si sono infatti ribellati alle diseguaglianze e ai vincoli imposti dalla globalizzazione sulla loro sovranità. Le pulsioni neo-protezioniste e la crisi del multilateralismo sono la prima manifestazione di questa reazione.
Il coronavirus, sommato alle tensioni che ho ricordato, è destinato a sovvertire la politica economica. Dal lato dell'offerta mostra impietosamente la fragilità di filiere produttive "senza spazio e senza tempo". Dal lato della domanda richiede un sostegno forte ai consumi e agli investimenti, pubblici e privati. È opportuno dunque che la politica economica agevoli nuovi modelli produttivi dal lato dell'offerta, e torni a fondarsi sulla politica fiscale, appannaggio e riserva dei parlamenti.
Questi cambiamenti sono urgenti e si stanno affermando passo dopo passo sotto i colpi della crisi. Già vediamo la possibile sospensione del Patto di Stabilità e il rilassamento della disciplina sugli aiuti di Stato nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen. In parallelo si veda il pacchetto di stimolo tedesco, di 500 miliardi, annunciato ieri dal ministro delle finanze tedesco Scholz. Si inizia a cambiare in questo modo due architravi ultra trentennali della politica europea, a dimostrazione che problemi straordinari richiedono misure straordinarie. In questa fase infatti è opinione comune che nessuna azienda deve fallire e nessun occupato perdere il posto di lavoro.
Ma anche quando l'epidemia sarà messa sotto controllo, questi cambiamenti sono destinati a lasciare un' impronta permanente. Per questo, e per favorire la transizione ordinata verso un nuovo modello di politica economica, tutto dovrebbe trovare, nei tempi dovuti, sistemazione e coordinamento in un nuovo accordo internazionale come quello di Bretton Woods. Le regole di oggi, e più in generale il modello di politica economica, sono figli di un mondo finito, e che ha in parte fallito alla fine di un lungo ciclo positivo. Nel mondo nuovo, con nuove tecnologie, nuovi rischi e nuovi modi di lavorare, serve un cambio di paradigma che emergerà, auspico, a livello mondiale. Si tratta insomma di reinventare Bretton Woods per affrontare in modo efficace le sfide del presente e del futuro e per dare l'avvio a un nuovo periodo di sviluppo.
Domenico Siniscalco – La Stampa – 14 marzo 2020