Ai figli il cognome materno? Sarà presto legge

Il cognome è il segno di riconoscimento di ciascun individuo, è l'indice di appartenenza ad un gruppo familiare, è il mezzo di distinzione che contraddistingue ognuno di noi nella società rendendoci soggetti unici nella e per la propria identità.

Per la sua importanza è annoverato tra i diritti inviolabili della persona, è riconosciuto a livello costituzionale e tutelato nel Codice Civile che prevede misure interdittive e risarcitorie per il suo uso indebito da parte di terzi.

Si tratta di un istituto risalente che affonda le proprie origini nel diritto romano e che - oggi come allora - si propone, in termini generali, quale identificazione di una persona con la stirpe d'origine e, più esattamente, col ramo maschile di essa. Tuttora si parla abitualmente di “patronimico”, termine  usato ad indicare la paternità del nuovo nato.

E, difatti, il sistema onomastico italiano è tuttora improntato a tale impostazione patriarcale. Così - per regola non scritta, ma ricavabile dalla disciplina della filiazione - la prole assume il cognome del padre, quando padre e madre siano uniti in matrimonio.

Un poco diversa, invece, almeno apparentemente, la situazione per il figlio nato da relazione di convivenza. Questi assume il cognome del genitore che per primo lo abbia riconosciuto, dunque, in ipotesi, anche quello della mamma. La nota di patriarcalità che impronta il Codice Civile ritorna, però, laddove la legge prevede che, in caso di riconoscimento contemporaneo da parte di entrambi i genitori, il figlio porti il cognome paterno e che quest'ultimo possa essere sostituito a quello materno anche nell'ipotesi di filiazione nei confronti del padre accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre.

Pur vero che esistono alcune deroghe che consentono cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, ma si tratta di ipotesi eccezionali, tassativamente ancorate ai particolari e specifici casi disciplinati da leggi speciali basati, per lo più, su una non convenienza o, per contra, sull'opportunità di portare un determinato cognome, comunque, subordinata a valutazione discrezionale del Prefetto.

In questo quadro normativo da tempo movimenti di opinione pubblica tentano una diversa sensibilizzazione e chiedono aperture egualitarie che consentano di optare indifferenziati per l'attribuzione del cognome materno, piuttosto che paterno. Oggi sono avallati da una importante e recente decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo risalente al gennaio 2014 che ha riscontrato nella normativa italiana violazione alla Convenzione Europea dei diritti umani, poiché non consente parità nella scelta di attribuire cognome materno o paterno al momento dell’iscrizione anagrafica.

Il dictat europeo ha sicuramente contribuito a far progredire lo stato dei lavori parlamentari di disamina delle proposte di legge elaborate in tema, proposte che, sinora, si erano trascinate stancamente nelle passate legislature senza mai concludere il loro iter. Così, l'ultimo Disegno di Legge proposto in ordine di tempo è stato approvato dalla Camera a settembre 2014 ed il 3 ottobre scorso è stato assegnato alla II Commissione Permanente Giustizia Senato in sede referente per l'esame e l'approvazione del testo definitivo. L'operatività della disciplina è, però, legata all'approvazione di un successivo regolamento di modifica dello stato civile, per la cui elaborazione è già stato stimato il tempo tecnico di un successivo anno.

Quali cambiamenti imporrebbe la nuova normativa?

Il testo sinora licenziato prevede ampia opzione nell’attribuzione del cognome. Il figlio – anche quello adottivo - potrà assumere indifferentemente il cognome del padre, quello della madre o quello di entrambi nell’ordine concordato dai coniugi; in difetto, assumerà il doppio cognome secondo l’ordine alfabetico.

Per i figli nati da relazione di convivenza e riconosciuti dai genitori in tempi diversi, il secondo cognome potrà essere aggiunto solo con il consenso del genitore che abbia riconosciuto il figlio per primo, nonché con l'assenso del figlio che abbia compiuto gli anni 14.

Necessitate le disposizioni per preservare la continuità familiare anche sotto il profilo formale. Così, i fratelli figli degli stessi genitori dovranno recare lo stesso cognome; il genitore che abbia il doppio cognome ne potrà trasmettere uno solo – a scelta – alla propria progenie.

Dalla lettura dei lavori parlamentari pare, infine, che la legge non abbia efficacia retroattiva, dunque operi solo per le dichiarazioni di nascita rese dopo l'entrata in vigore del regolamento. Però, in attesa del Regolamento, sembra che i maggiorenni potranno avvalersi della riforma per aggiungere al proprio cognome quello della madre, usufruendo della semplificazione procedurale che prevede una dichiarazione avanti l'ufficiale dello stato civile e non più l'istanza al Prefetto, mentre i figli minorenni nati o adottati prima dell'entrata in vigore del regolamento attuativo potranno aggiungere il cognome materno in presenza del  consenso di entrambi i genitori e dello stesso figlio minorenne che abbia compiuto gli anni 14.

Il Parlamento ha evidentemente in mano i poteri per attuare una svolta epocale in una materia di significativo impatto sociale. Da chiedersi se il cammino di parificazione ed eliminazione delle discriminazioni debba necessariamente passare anche attraverso la formalità dell'identificazione dell'individuo. Ma potrebbe esserne data una diversa lettura che ne faccia una bella sfida da raccogliere, perché l'elaboranda riforma si propone introduttiva di regole generali a largo raggio. Dunque, potrebbe essere letta come nuovo punto di partenza, superamento dell'onomastica tradizionale per la quale il cognome è sintomatico della paternità laddove la maternità è sempre certa, ma anche come superamento dell'eccezionale possibilità di modificare il cognome solo per ragioni di opportunità secondo il noto detto plautiano in nomen omen, perché nel cognome molto spesso sono racchiuse potenzialità e possibilità. Potrebbe, allora, diventare occasione per valorizzare anche da un punto di vista di immediata percepibilità la nozione di famiglia come condivisione di scelte educative e collaborative della coppia, coinvolta in un progetto di genitorialità che prende le mosse da un concreto segno identificativo dell'appartenza della prole ad un nucleo formativo e di crescita condotto insieme da mamma e papà.

Giosetta Pianezze

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Registrazione dei matrimoni gay? Le legge non lo consente!

La perentoria richiesta di registrazione dei matrimoni omosessuali contratti all'estero ha suscitato una polemica sterile, salvo si tramuti in invito al Parlamento a legiferare. La notizia dal tanto scalpore mediatico che, in questi giorni, sta offuscando altri attuali e controversi dibattiti politici è l’ordine di sospendere le trascrizioni dei matrimoni omosessuali celebrati all'estero e di procedere con atto di auto-annullamento per quelli già registrati, ordine impartito ai comuni con la circolare del ministero dell'interno di martedì scorso.

La vicenda trae origine dalle delibere comunali che, di recente, hanno disciplinato le procedure per la trascrizione nei registri dello stato civile proprio dei matrimoni omosessuali celebrati all'estero. All'origine della bagarre c'è una sentenza risalente allo scorso mese di aprile con la quale il tribunale di Grosseto ha accolto il ricorso di una coppia gay avverso il rifiuto dell'ufficiale di stato civile a trascrivere quella unione formalizzata in un paese straniero. Esiste una pronuncia giudiziale che - si badi, però, isolata nel quadro giuridico forense  - è, comunque, dotata di immediata esecutività ed ha imposto ad una amministrazione locale un tassativo ordine di adempiere un preciso incombente burocratico. Chiaro che il primo cittadino grossetano si è dovuto attivare per darvi esecuzione.

Ipotizzabile che la diffusione del sopra citato decisum abbia promosso un meccanismo virtuoso di aggiornamento della burocrazia a quelle che sono da tempo le istanze sociali di valorizzazione ed equiparazione delle coppie omosessuali a quelle eterosessuali, in primis sotto il profilo più tipico dell’istituto matrimoniale, quello della formalizzazione del vincolo.

Si tenga del pari presente che il ministero dell'interno, nell'ambito dei propri compiti istituzionali, è chiamato ad assicurare il rispetto della legge nazionale. Non deve, pertanto, sorprendere l'iniziativa di Alfano che ha diramato alle proprie articolazioni territoriali (i prefetti) la comunicazione qui in commento sul presupposto di ravvisata illegittimità delle trascrizioni di matrimoni omosessuali.  

Dunque, il modo è legittimo, poiché l'atto rientrava nell'ambito di competenza del ministro che ben poteva chiedere ai prefetti attenta supervisione per evitare in futuro un illegittimo agere amministrativo e, nel presente, assicurare l'annullamento in autotutela degli atti illegittimi già compiuti.

Era un atto dovuto? Secundum legem si. Molti gli argomenti interpretativi in tal senso, tutti ampiamente e pacificamente utilizzati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria che, sul tema, negli anni, si è assestata nell’escludere, nel sistema legislativo italiano, l’equiparazione delle unioni eterosessuali ai legami affettivi tra persone di uguale sesso.

Esistono precisi punti fermi.

Indiscutibile che il sistema normativo vigente in Italia non permetta di celebrare siffatte unioni. Lo si desume con immediata evidenza dal codice civile che, tra il resto, regola la celebrazione del rito prevedendo che i nubendi dichiarino di prendersi, rispettivamente in “marito e moglie” (art. 107). Anche la normativa in tema di impedimenti matrimoniali presuppone nozze eterosessuali, escludendo, ad esempio, che lo zio possa impalmare la nipote e viceversa. Il diverso sforzo interpretativo tentato dal già citato tribunale di Grosseto, seppur apprezzabile sotto il profilo sociale, non è, dunque, giustificato in un’ottica di sistematica ermeneutica dell’istituto.

Pur vero che taluni aggirano l'ostacolo fissando il luogo delle nozze in un Paese estero la cui legislazione svincoli il matrimonio dalla diversità dei sessi. Occorre, però, domandarsi se siffatta unione sia valida in Italia, che resta il Paese dei nubendi, la nazione in cui gli stessi intendono svolgere la loro vita di coppia. Lo è solo se l’atto possa essere trascritto nei registri dello stato civile. I presupposti per procedervi sono contenuti nella L. 218/95 che disciplina l'efficacia in Italia degli atti stranieri. Essa vincola la validità del matrimonio contratto all'estero al rispetto delle norme italiane che regolano presupposti e capacità matrimoniali. Si ricade, dunque, nei limiti sopra indicati.

Limiti che neppure la Corte Costituzionale ha ritenuto di poter superare con interpretazioni adeguatrici delle norme esistenti; poiché è di competenza del legislatore estendere la nozione di matrimonio sussumendo in esso anche i legami omosessuali.

Limite, infine, riconosciuto nei medesimi termini anche in ambito europeo, dove la legislazione programmatica nulla impone in merito ai singoli stati, ritenendo che eventuali modifiche legislative siano appannaggio di scelte che ogni singola nazione deve valutare alla luce del comune sentire sociale.

Attualmente il quadro normativo non consente aperture al riconoscimento di formalizzate unioni omosessuali. Inutile, pertanto, la fronda dei comuni che, ancora dopo la diramazione della circolare, per protesta hanno proceduto nella pratica di illegittime annotazioni.

Più utile, allora, aprire il dibattito sull'effettiva esigenza di svecchiare questo indiscusso impedimento recato dalla legislazione ed interrogarsi sul corretto approccio alla questione.

In una prospettiva de iure condendo, ossia di elaborazione di norme ancora tutte da scrivere, credo si possa raggiungere unanime consenso alla pretesa di vigilare contro le discriminazioni.

Parimenti ipotizzabile un maggioritario accordo al riconoscere ai conviventi omosessuali determinati e specifici diritti individuali di natura patrimoniale (la pensione di reversibilità, piuttosto che la cessione del contratto di locazione stipulato dal solo partner defunto, come è già per le coppie di fatto eterosessuali) e sociali (ad esempio, la possibilità di ricevere informazione sulla situazione sanitaria del compagno e dare assistenza al medesimo). Del resto, da tempo è in atto un cammino che ha permesso il riconoscimento di (legittimi) diritti a vivere la condizione affettiva anche in un contesto non tradizionalmente inteso, con ampie sussunzioni di singole situazioni entro la normativa prevista per le coppie sposate. Tant’è che le unioni in commento sono ricomprese tra le cosiddette “formazioni sociali” difese e garantite dall’art. 2 della Costituzione.

Fino a che punto è corretto sradicare e stravolgere la nozione di matrimonio tradizionalmente intesa come vincolo tra uomo e donna che vogliono costruire una famiglia con possibile apertura alla prole? La società è costituita da diritti, da doveri ma, soprattutto, da regole che bisogna umilmente comprendere e non pretendere di stravolgere. Scelte di vita apparentemente simili possono risultare, invece, diverse nel loro concreto espletarsi ed allora il non assumerle tout court entro un istituto già esistente e codificato non significa privarle di tutela, ma significa, semplicemente, costruire un separato cammino di dignità personale ed affermazione sociale, escludendo un’estensione automatica di regole non sempre adattabili. Si pensi già solo al grosso problema dell’adozione e della filiazione che l’odierna esperienza mostra complicata in contesti di famiglie tradizionali disgregate e ricostruite o di mono-genitorialità e che, per il sereno sviluppo del minore dovrebbe essere seriamente ripensata se non addirittura riscritta ex novo se si ammettesse la presenza di due figure di riferimento genitoriali appartenenti allo stesso sesso. 

La sfida è ormai aperta, sarà compito del legislatore contemperare le tante opposte e delicate esigenze che emergono in questo ambito utilizzando una forte componente di attenta sensibilità che il diritto di famiglia sempre impone. 

avv. Giosetta Pianezze, avvocato in Torino e Mondovì

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