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Come si fa il vino, i consigli di…

di Felice Garelli

Se questa separazione tra la scienza e l’arte anche altrove si deplori; se con pari lentezza anche altrove le verità scientifiche si facciano strada fra coloro, cui gioverebbe l’applicarle, io non voglio qui né discutere, né giudicare. Sarebbe al postutto un ben magro conforto il riconoscere che in altri paesi, non meno che in Italia, si ignora il bene, o conoscendolo si continua a praticare il peggio. Nulla d’altronde avremmo da guadagnare da tale confronto. E’ pertanto migliore consiglio lo studiare i nostri mali e francamente svelandoli indicare gli opportuni rimedi. Quest’è a mio avviso, opera non solamente utile ma necessaria. Io veggo che pur troppo in Italia, malgrado le scoperte della scienza si seguono tuttavia generalmente le consuetudini di una pratica tradizionale ed empirica; veggo che in onta alla qualità dei vitigni eccellente, e l’attitudine mirabile del suolo e del clima per sì fatta coltivazione, i nostri vini mal reggono nelle pubbliche mostre al confronto di quelli di regioni dalla natura men favorite; veggo che l’esportazione del vino supera bensì in quantità l’importazione, ma non la eguaglia in valore, sicchè a conti fatti si finisce per avere poco o niun beneficio da una industria che potrebb’ essere una delle maggiori sorgenti di ricchezza nazionale (a); tutto ciò vedo e mi persuado che ebbe ragione chi disse chiaro e tondo che gli italiani non sapevano nè coltivare la vite, né fare il vino.

III

   Questo giudizio, verissimo in generale, ammette tuttavia delle eccezioni, essendo esso per alcune località troppo severo e per altre non meritato.

Il nostro Circondario trovasi forse compreso tra queste fortunate eccezioni?

Io non lo credo; nè altri lo crede, il quale sia pratico dei luoghi, dei modi di coltura, e dei metodi di vinificazione.

Tuttavia il dire in termini assoluti, che qui non si sappia fare il vino e tanto meno coltivare la vite, serebbe un’esagerazione poco men che offensiva verso un paese laborioso, svegliato, e, dirò anche, devotissimo al culto di Bacco.

E’ giusto il rimprovero che qui non si bada a separare le colture e ad appropriarle alle condizioni locali; volendosi pur da noi ottener tutto e dappertutto. Onde le vigne pure si tengono quali colture di lusso, epperciò sono poche, raggiungendo appena nel Circondario i 3/20 della totale superficie coltivata a vigna. Negli altri 17/20 è comune la usanza di coltivar cereali, civaie ecc. negli interfilari. La quale promiscuità di colture, se aggiunge vaghezza ai nostri colli, non giova alla bontà né alla qualità dei raccolti.

E’ altresì vero che da noi non si apprezza quanto farebbe mestieri il principio che l’arte deve secondare la natura per ottenere buoni e copiosi prodotti. Perciò dimenticandosi che la vite è amica del sole che, secondo l’espressione del poeta

“Mutasi in vino

Misto all’umor che dalla vite cola”

la si fa discendere dai colli aprichi della Langa alle terre piane che stanno fra il Pesio e la Stura, cui, fatte pochissime eccezioni, meglio convengono i prati e le annuali colture; e la s’innalza sui finche dei monti che incassano l’alta valle del Tanaro, quasi che il castagno ed il faggio, la betulla ed il larice avessero comuni con essa le condizioni e i bisogni di loro vegetazione rispetto al suolo ed al clima. E’ ben vero che non impunemente l’arte si pone in lotta con la natura; onde con incredibili sforzi soltanto si giunge ad ottenere un magro raccolto di uve, le quali a mezzo autunno son tuttavia immature così, che, al dir dei maligni, se ne fa la vendemmia coi sacchi.

   A parte questi rimproveri si può affermare con sicurezza che non è punto trascurata appresso noi la coltivazione della vite; che anzi vi si attende con assai cura e certamente con maggior diligenza, che non si faccia in molte parti d’Italia.

25 giugno 2025

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