Quotidiano online

Arte e Cultura

L’isola non trovata

di Agostino Roncallo

Il riordino di una libreria è sempre impegnativo. Verificare l’inventario, individuare libri mancanti, catalogarne di nuovi e, all’occorrenza, ricatalogare i vecchi. Il maestro, impegnato in quel momento a inventariare nuovi acquisti, sorvegliava con la coda dell’occhio i due allievi che, in cima a una scala, si erano messi con impegno a riordinare i piani alti. Distrattamente  e saltuariamente, con la curiosità di chi desidera conoscere il parere dei più giovani, prestava orecchio ai loro discorsi.

– Guarda questo volume impolverato, diceva il primo, Camillo Boito… ma, sbaglio o si chiamava Arrigo?

– Sbagli, dice il secondo, Arrigo è il fratello, che è stato musicista e librettista di opere alquanto famose. Camillo invece è un narratore ma, evidentemente, la musica era una passione di famiglia, ascolta l’incipit di questo racconto: “Tu vorresti, continuava il maestro, che il mondo si fosse fermato agli anni della tua giovinezza, quelli degli amori e della presunzione; ma, vedi, fra noi e la musica c’è questa differenza, che noi abbiamo una sola maniera di essere onesti, mentre la musica ha infinite maniere di essere bella; e noi invecchiamo e siamo mortali, mentre la musica è eterna. L’allievo abbassò la testa, come un can barbone scottato” .

Il maestro, sentendo quei ragazzi pronunciare la parola “maestro”, sospettò che si parlasse di lui o di qualche collega. Si sorprese perciò quando capì che non di maestri del presente essi parlavano ma di maestri del passato.

– L’allievo abbassò la testa, abbassò è un tempo futuro, ne sono certo: l’allievo infatti va alle lezioni del corso di musica per aprirsi la strada del futuro. Vuole imparare e allora accetta, deve accettare il rimprovero del suo maestro.

– Non sono d’accordo con te. Il tempo è un passato, lo deduco dall’accento sulla “o” che dà un senso di antico, come di una cosa già accaduta. L’accento crea una specie di eco, dà la sensazione di qualcosa di lontano, un senso di vuoto. Secondo me, è proprio questo piccolo segno che ci avvicina al passato.

– Ah! Quanti dubbi, quanta incertezza sui tempi della nostra esistenza! Pensa se avessimo una luce per illuminare la stanza della grammatica e renderla trasparente. Vedere il suo interno e osservare se c’è qualche frase nuova, appena nata, come attraverso il vetro del reparto maternità di un Word Hospital. C’è in quella frase un verbo? Forse “sì” o forse  “no”, vedendolo, lo riconosceremmo.

– Hai avuto una bella idea: immagina dunque che ogni regola abbia una luce di colore diverso. Hai la luce che distingue, che ti permette di distinguere passato e futuro? Bene, ti sarebbe sufficiente accenderla.

– Ma troppe luci accecano e i colori finiscono per non distinguersi più, ogni oggetto apparirebbe uguale all’altro: siamo testimoni dell’indistinto. Ho la sensazione che il sapere sia fatto di stanze buie e, per conoscere cosa c’è al loro interno, bisogna entrare, usare i sensi per orientarsi, avvertire sulla pelle la fisicità degli oggetti. Sentire il dolore, come quella volta in cui la parte più sensibile del mio ginocchio ha impattato contro lo spigolo della rete metallica del letto. Mi sono ritrovato steso sul pavimento della mia camera, al buio, senza fiato. Non sapevo se piangere o ridere.

– Mi fai tornare alla mente questo frammento di Eraclito: “Nella conoscenza delle cose che pure si vedono, gli uomini sono tratti in inganno al modo stesso di Omero, che fu sapiente più di ogni altro fra gli Elleni. Dei bimbi che uccidevano pidocchi lo ingannarono, dicendogli: quello che vediamo e prendiamo, lo lasciamo”.

LEAVE A RESPONSE

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *