La abitudini di studio all’università

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Per preparare il loro ultimo esame universitario, più di quattro studenti universitari su dieci, interpellati sui materiali utilizzati, dichiarano di aver fatto a meno di libri e prodotti digitali editoriali come contenuti integrativi, schede di approfondimento e prove di autoanalisi, facendosi bastare appunti, propri o di colleghi, riassunti scaricati dal web, registrazioni delle lezioni, slide, dispense, quiz ed esercizi del docente, correzioni di prove d’esame e altri materiali non strutturati, spesso progettati per fornire un semplice supporto complementare.

Il campione degli intervistati per il 40% vive nel Nord Italia, per il 41% nel Sud e nelle isole e per il 19% nel Centro Italia. Il 77% di loro ha un’età compresa fra il 19 e i 24 anni, il 24% tra i 25 e i 30. La loro area disciplinare riguarda per il 35% le materie scientifiche, per il 27% interessa l’ambito sociale, per il 25% quello umanistico e per il 13% quello sanitario e agro-veterinario. Si tratta di lauree che hanno durata per  l’87% triennale e per il 13% quinquennale.

DOVE STUDIANO?

Vediamo le loro abitudini nel  dettaglio. Il 59% degli studenti interpellati ha usato libri e risorse digitali editoriali per preparare l’ultimo esame. I materiali più utilizzati dagli studenti, nella maggior parte dei casi accanto ai libri, ma talvolta da soli, sono però quelli forniti dai docenti – saggi, dispense, quiz – citati nel 78% dei casi, e quelli autoprodotti, come appunti e mappe concettuali, indicati nel 71%.  Il 54% degli studenti, infine, utilizza appunti e dispense forniti dai colleghi o scaricati online. Erano possibili più risposte: l’utilizzo di un materiale non esclude infatti gli altri.

 COSA PENSARE?

“La ricerca ci dice che esiste una parte di studenti, minoritaria ma ampia, che rifugge l’approfondimento sui materiali editoriali universitari, siano essi libri o contenuti digitali” ha sottolineato Maurizio Messina. “Ci preoccupano, come editori attenti alla crescita culturale del Paese, modi di studio che costruiscono un sapere fragile, per questo vogliamo aprire un dibattito sulla formazione delle future classi dirigenti che si troveranno ad affrontare una contemporaneità sempre più complessa”.

Per il presidente dell’AIE, Innocenzo Cipolletta: “questa ricerca ha un valore pubblico non tanto per quello che ci dice sulla diffusione dei prodotti editoriali universitari, tema pure a noi caro, quanto per come questo dato abbia poi un riflesso immediato nella costruzione di una cultura solida e approfondita tra i laureati italiani. AIE ha sempre sostenuto che la crescita economica e civile del Paese è legata al grado di preparazione culturale dei suoi cittadini: questo è il punto che dobbiamo discutere e su cui lavorare”. 

Le informazioni sono  contenute nella ricerca “Le abitudini di studio all’Università”, realizzata per l’Associazione Italiana Editori (AIE) da Talents Venture e presentata questa settimana, a Roma alla Camera dei deputati alla presenza di Anna Ascani, vicepresidente della Camera dei deputati, Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati, Alessandro Amorese, capogruppo Fratelli d’Italia in Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati e del presidente di AIE Innocenzo Cipolletta. Un dibattito a partire dai dati, su cui si sono confrontati Alessandra Petrucci, rettrice dell’Università di Firenze e delegata per la didattica della Conferenza dei Rettori (CRUI), Andrea Gavosto, direttore Fondazione Agnelli e Maurizio Messina, presidente Gruppo accademico professionale e vicepresidente di AIE e concluso da Cristina Rossello, deputato e consigliere del ministro dell’Università e della Ricerca.

Patrizia Lazzarin 8 febbraio 2024

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Ma la scuola si complica nella fase 2

La Danimarca da due giorni, la Germania il 4 maggio, la Francia l'11. Le famiglie italiane si chiedono: perché in altri Paesi le scuole riaprono, mentre in Italia se ne riparlerà a settembre? Giusta domanda, ma la risposta deve evitare semplificazioni. Macron ha annunciato che la scuola francese ripartirà privilegiando gli studenti più fragili, senza spiegare come. In Germania riapriranno a tappe, partendo dagli ultimi anni di elementari e superiori, con rigide misure di distanziamento, classi più piccole.
E riducendo il numero delle materie a quelle ritenute essenziali: tedesco, matematica, inglese (chissà perché non scienze?).
Vediamo la Danimarca, Paese poco toccato dal virus e l'unico che finora abbia provato davvero a riaprire le scuole. Come l'ha fatto? La foto del 16 aprile su La Stampa spiega più delle parole: con un distanziamento di almeno 2 metri, riducendo le classi a 10-11 allievi per insegnante, accorciando gli orari. Inoltre, facendo lezione all'aperto laddove possibile. Per chi ha riaperto le scuole, la Danimarca? Per ora, solo per gli under 12. Va detto, peraltro, che il 35% degli istituti non è ancora pronto a riaprire. E che molti genitori si sono ribellati alla ripresa scolastica, temendo per la sicurezza dei figli (e la famiglia là è meno protettiva che qui).
In Italia, colpita molto più duramente dal virus, giustamente gli esperti sanitari vedono le scuole – luoghi di fisiologico assembramento – come potenziali focolai di ripresa epidemica. Perciò si proverà a riaprire a settembre. Ma con gli stessi problemi e vincoli della Danimarca e degli altri Paesi.
Intanto, tenere il distanziamento a scuola è difficilissimo. Se dovesse essere di 2 metri – come a Copenhagen – per una classe di 20 alunni servirebbero aule di almeno 125 metri quadrati. La dimensione media delle aule italiane è poco più di un terzo. Ma la difficoltà prosegue nei corridoi, sulle scale, all'ingresso, fin dai mezzi pubblici.
Le soluzioni non potranno che essere miste e spesso da adattare alle singole situazioni. Ridurre il numero degli allievi in classe, immaginare forme di turnazione e accesso differenziato, estendere la frequenza al pomeriggio e dunque anche il lavoro dei docenti, modificare il monte ore, utilizzare per la lezione anche altri spazi, inclusi cortili e aree verdi (che da noi sono circa due terzi della superficie a terra delle scuole, sebbene con forti differenze per epoca di costruzione), forse immaginare – come a Berlino – una selezione delle materie. E altro ancora. Penso, però, che in ogni caso si dovrà fare un mix di ingredienti diversi per trovare la ricetta giusta, che per ora nessuno ha. Un ruolo avrà ancora la didattica a distanza. Non perché si voglia sostituirla alla didattica in presenza, che resta essenziale e il cuore del processo educativo. Ma, poiché non tutti potranno rientrare nello stesso momento, la DaD è una buona risorsa in più, specie alle superiori.
Con chi riaprire? Forse è giusto pensare anche qui ai più piccoli. Per loro, dal punto di vista pedagogico, stare fisicamente a scuola è ancora più necessario e la didattica a distanza è meno efficace. Inoltre, non possono rimanere da soli a casa, limitando così la possibilità dei genitori di andare al lavoro. Sono anche quelli, però, a cui è più difficile fare capire e rispettare la necessità del distanziamento. Per non parlare delle mascherine.
Per la fase 2 della scuola risposte semplici e lineari non esistono. Abbiamo quattro mesi per pensarne di articolate e adeguate.

Andrea Gavosto* - La Stampa – 18 aprile 2020

*Direttore della Fondazione Agnelli

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Un piano per salvare la scuola

Il ministro dell'Istruzione Azzolina sta per presentare una proposta sulla chiusura dell'anno scolastico e la valutazione finale degli studenti, inclusi esami di maturità e di terza media. Si sta ragionando su due scenari base, che dipendono dalla data che il governo, sentiti gli esperti sanitari, indicherà per un rientro in aula in piena sicurezza.
La prima ipotesi è il rientro entro il 17 maggio. In questo caso, l'anno si concluderebbe in maniera diciamo "regolare" e la maturità si svolgerebbe in forma leggera, con scritti e orale, ma con commissioni formate dai soli docenti della scuola e un presidente esterno. Più o meno, com'è ora in terza media.
L'altra ipotesi è che in aula si torni soltanto a settembre. In tal caso l'orientamento sarebbe di non bocciare nessuno, rimandando alla prima parte dell'anno scolastico il recupero dei debiti. La maturità si farebbe senza le prove scritte e con un solo esteso colloquio orale, in modalità da stabilire secondo l'evoluzione del contagio.
Concentrarsi troppo sull'esame di maturità a me sembra un falso problema: nonostante la retorica, è una verifica che ha ormai poca utilità e viene superata da oltre il 99% dei candidati. Per il coronavirus, in altri Paesi hanno cancellato o sospeso esami ben più affidabili, come l'International Baccalaureate, il Sat negli Stati Uniti e il Gaokao in Cina: in piena emergenza non vi è motivo per cui non si possa sopperire con i normali scrutini, svolti dai docenti, mantenendo il valore legale del titolo.
In ogni caso, vedo questioni più sostanziali. Certo, il Ministero si muove su un crinale stretto: da un lato, finché non riapriranno le scuole non potremo dire di essere tornati alla normalità, anche lavorativa, dovendo badare ai figli in casa; dall'altro, scuole e università possono essere focolai di riprese del contagio. Non possiamo escludere che in autunno debbano rimanere chiuse "a scacchiera", in certe aree e in certe settimane, seguendo lo svolgimento dell'epidemia.
Di fronte alla possibile intermittenza delle attività scolastiche che potrebbe essere lunga, la priorità è evitare una caduta generalizzata negli apprendimenti degli studenti. Dal primo momento, la scelta del Ministero è stata di puntare sulla didattica a distanza. In una nota recente, venivano date indicazioni chiare e condivisibili su come condurre questo tipo di insegnamento, richiamando i docenti all'obbligo di continuare il loro lavoro anche online e sottolineando che una scuola seria richiede la valutazione degli studenti, per assicurarsi che continuino a progredire. In particolare, alle secondarie.
Stupisce un po' che ora il Ministero, su pressione sindacale, si stia adeguando all'idea di un "liberi tutti" che priverebbe i ragazzi di ogni incentivo ad affrontare seriamente i mesi che verranno. Né convince la scelta di non proseguire l'attività didattica, anche online, oltre metà giugno, recuperando parte del tempo perso.
Preoccupa, infine, che qualcuno nel mondo della scuola voglia cogliere l'occasione per eliminare - anziché posporre - risorse preziose, come i test Invalsi, strumento diagnostico utile in primo luogo alle scuole, o l'alternanza scuola-lavoro.
Concentriamoci piuttosto su come evitare che la didattica a distanza escluda gli studenti più fragili e meno avvantaggiati, aggravando i divari storici nella nostra scuola; come formare i docenti a insegnare online in modo efficace, anziché replicare con la web conference il modello tradizionale della lezione frontale; come, infine, riuscire a mantenere una relazione non solo didattica con gli studenti chiusi nelle loro case e privati delle normali relazioni sociali con i loro compagni.

Andrea Gavosto* – La Stampa – 3 aprile 2020
*Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli

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