Vedova Shimamoto, Informale da Occidente a Oriente

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Una parola, un segno calligrafico, una chiazza rossa di sangue o una luce verde che lampeggia di fronte a noi, hanno un significato e traducono emozioni. Nel movimento della linea curva o longilinea che noi seguiamo con lo sguardo perché ci incuriosisce, anche se non individua una forma a noi nota, cerchiamo il filo di Arianna di una storia che vorremmo scoprire e che forse proviene da assai lontano, alle radici di quell’uomo o donna che siamo oggi, arrivando fino  a quelle figure propiziatorie tracciate dai nostri antenati sulle pareti delle caverne. La rassegna che ha aperto al pubblico nel Museo Civico del suggestivo borgo di Asolo il trenta agosto, dal titolo  Vedova  Shimamoto, Informale da Occidente a Oriente,  vuole tornare a parlare di quel movimento che aveva rivoluzionato i canoni espressivi dell’arte  fra gli anni Quaranta e Sessanta del 900’, alla luce di  quei cambiamenti dovuti alla seconda guerra mondiale che aveva mandato in frantumi la società del tempo, come accade a un vetro rotto da una forte esplosione. L’arte informale aveva rinunciato a raccontare con i canoni del Realismo, aveva abbandonato su una sedia rimasta intatta dai bombardamenti l’ultima spoglia della figura umana e aveva gettato sulla tela tutto il subbuglio del mondo interiore che anche gli artisti avevano vissuto, sia nei campi da battaglia sia in esilio. Cristina Mondin, responsabile del Museo Civico di Asolo, conferma il desiderio di conservare la memoria e di far conoscere questo movimento che è stato espressione di un particolare momento storico. Un movimento globale che dagli Stati Uniti all’Europa e all’Oriente ha avuto differenti declinazioni di espressione raccogliendo anche e non solo le lezioni del Surrealismo, nel gesto puro che allontana il pennello e getta il colore sulla tela, o del Futurismo, nel dinamismo delle linee e nella rottura voluta con la tradizione. I protagonisti principali della mostra sono Emilio Vedova, l’artista veneziano, che fu uno dei fondatori della Nuova secessione italiana, diventato poi Fronte nuovo delle arti  alla fine degli anni  Quaranta e Shozo Shimamoto, uno dei più importanti esponenti, e co-fondatore del Movimento artistico Gutai, che era nato nel 1954 in Giappone, nella regione del Kansai. Sono molti altri gli artisti che compongono questa carrellata che si articola nelle sale del museo grazie ad un  suggestivo allestimento che combina i rosa delle pareti, i bianchi delle sculture presenti, parte integrante dell’istituzione, e i rossi tendaggi alle finestre,  e crea uno scrigno dove le opere possono essere ammirate in tutto il senso di piacevolezza ed armonia che appartiene a loro. Carla Accardi, Afro, Renato Birolli, Alberto Burri, Lucio Fontana, George Mathieu, Ennio Morlotti, Sadamasa Motonaga, Nohara Motonari, Shuji Mukai, Achille Perilli, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Mark Tobey, Yasuo Sumi, Tancredi sono solo una parte dei pittori presenti a questa rassegna che ha  il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano e  la curatela di  Matteo Vanzan ed Enrica Feltracco. L’esposizione  prosegue il  racconto per immagini di alcuni dei principali movimenti artistici, culturali  ed esponenti del 900’, da Andy Wahrol  a Mario Schifano e poi Woodstock, che il Museo ha dedicato a loro negli ultimi anni. Una galleria pubblica che raccoglie al suo interno tanti brani di storia e di arte di molte persone che hanno amato questa cittadina che si arrocca fra i colli: dai reperti canoviani, alle tele del vedutista Bernardo Bellotto, dalle sale dedicate al periodo romano di Asolo allo  spazio destinato  a tre importanti  donne che qui hanno vissuto: la principessa veneziana Caterina Cornaro, l’attrice di teatro Eleonora Duse e la grande viaggiatrice britannica Freya Stark. E così quando in un pomeriggio domenicale, noi saliamo a piedi l’ampia e lunga salita che ci conduce dal parcheggio nella bella piazza centrale da cui si gode una delle caratteristiche viste panoramiche, i nostri polmoni non possono non respirare un’aria speciale che risuona  degli echi di una  storia vicina e lontana. Ora nel museo, il segno nero delle tele pittoriche di Emilio Vedova che vediamo  spiccare  nelle prime sale,  mostra tutto il magma racchiuso nell’anima dell’artista che egli riordina nella sua visione traducendo così il pathos dei grandi eventi. Quel nero emoziona non meno, anche se in maniera diversa, delle superfici bianche e nere di Edouard Manet  nella Colazione o nell’Atelier. Quel colore ci parla ora di energia, di movimento necessario e di scontro di linee e forse non solo di esse, di passione avvolgente e rotolante nel colore che s’impasta. Il suo collega giapponese, racconta in maniera diversa, quel sentire nuovo, specchio di un mondo che è stato segnato da una forte cesura. Tutto il Movimento Gutai, a cui appartiene Shimamoto, lancia un nuovo fare artistico: il proprio corpo o singolari strumenti come armi da fuoco, elicotteri, gru o abachi per trasportare il colore.  Shimamoto sparerà bottiglie di tinte diverse sulle tele: uno scoppio di macchie e filamenti che aprono nuovi spazi  luminosi che sembra possibile abitare. La ricerca di nuovi luoghi senza confini dove può regnare forse la felicità o forse no. Lucio Fontana taglia la sua tela verde, per guardare oltre quella che potrebbe essere una distesa prativa e Giuseppe Santomaso nella sua poeticità di cantore veneziano disegna geometrie invisibili di una Venezia sospesa fra cielo e mare.  L’abbandono del figurativo tradizionale non elude i significati dell’esistere ma li reinterpreta alla luce delle recenti esperienze. L’artista è diventato ora cartina al tornasole della qualità della vita, posata con noncuranza, sul piattino dell’ingresso. La rassegna rimarrà aperta fino al 15 novembre 2020.                

Patrizia Lazzarin, 1 settembre 2020                                                                      

 

 

 

 

 

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Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea

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Fino al 26 gennaio 2020, a Rovigo, a Palazzo Roverella, va di scena la mostra Giapponismo. La matita e tempera su carta dal tono trasparente grigio azzurro, simile ai colori di un cielo nuvoloso visto dall’oblò di un aereo e che possiamo ammirare all’ingresso della mostra che reca con sé il mistero e il fascino dell’Oriente. L’opera è del pittore Antonio Fontanesi e rappresenta l’Ingresso di un tempio giapponese. L’artista era stato chiamato ad insegnare assieme allo scultore Vincenzo Ragusa e all’architetto Giovanni Cappelletti all’Istituto d’Arte di Tokyo dopo la fine del periodo Edo, un’epoca durata dal 1603 al 1868, durante la quale il Giappone aveva limitato i suoi rapporti con l’esterno: nell’unico porto aperto di Nagasaki potevano entrare solo navi cinesi ed olandesi. La nuova epoca Meiji diversamente mostra interesse al mondo europeo: alla sua cultura e alle sue scoperte in campo scientifico. La rassegna: Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea. 1860-1915 che rimarrà aperta al pubblico fino al 26 gennaio 2020, nel gioco delle reciproche influenze fra paesi europei e Giappone, illustra la bellezza della contaminazione di stilemi orientali nelle opere pittoriche, nella ceramica, nella porcellana, nella scultura, nelle stampe e nell’arredamento del nostro continente. Il momento clou è contemporaneo allo sviluppo del Modernismo e del gusto Liberty, nella tendenza ad una maggior volontà di semplificazione delle forme che si alleggeriscono ed acquisiscono morbidezza. Le grandi esposizioni internazionali come la  r del 1862, quelle di Parigi nel 1867 e nel 1878, poi quelle in Europa Centrale a Monaco, Berlino, Vienna e Praga e per completare la mappatura dei luoghi, quelle in Italia, a Torino nel 1902 e a Roma nel 1911 sono il punto di partenza ma soprattutto d’osservazione del progetto espositivo di Palazzo Roverella. L’iniziativa promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in sinergia con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi ha la curatela, assieme al catalogo edito da SilvanaEditoriale, del dott. Francesco Parisi. Attraverso le grandi Fiere internazionali, ma anche grazie a figure come Siegfried Bing, proprietario della galleria Art Noveau, il quale aveva organizzato all’Istituto Nazionale delle Belle Arti di Parigi L’Exposition de la gravure Japonaise e aveva promosso la pubblicazione trilingue (in inglese, francese e tedesco) della rivista Le Japon Artistique, si diffonde il fascinosottile per l’arte giapponese che ritroveremo nella pittura di Vincent van Gogh, Paul Gauguin, nei pittori Nabis, negli artisti di area mitteleuropea come Gustav Klimt o ancora nell’arte del manifesto o fra i pittori italiani, soprattutto quelli residenti a Parigi. Kimoni, porcellane e ventagli giapponesi cominciarono ad essere acquistati dagli artisti e poi inseriti nei loro quadri. Il primo fu il pittore americano James Whistler che risiedeva a Parigi dal 1855 e poi i più famosi Claude Monet, Edouard Manet e Pierre-Auguste Renoir. Gli echi orientali nei quadri di Monet sono tanti: da quelli con figura come nella Japonaise, che ritrae la moglie, ai paesaggi come nella veduta marina La terrasse à Saint-Adresse del 1867, vicina alle stampe di Katsushika Hokusai o Il ponte giapponese sul laghetto delle ninfee del 1899che si ispira alla pittura di Utagawa Hiroshige. Si citano due dei maggiori artisti giapponesi vissuti a cavallo tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Il Giapponismo in quell’epoca alimenta anche una serie di pubblicazioni come ad esempio La maison d’un artiste di Edmond De Gouncourt. Si hanno letture di questa corrente differenti in letteratura come in arte: nell’Impressionismo, nel Simbolismo o nel Decadentismo. Alcune volte è evidente come nel Giardino dei susini di Van Gogh altre volte più celato. Il giapponismo lo possiamo rintracciare nei tagli obliqui delle composizioni come nella Donna che pulisce la tinozza o Donna che si pettina, visibile in mostra di Edgar Degas e nelle linee o nei colori dell’impressionista americana Mary Cassatt. Un influsso straordinario ebbero sicuramente le stampe ukiyoe sui manifesti del francese Henri de Toulose-Lautrec. Fra il gruppo degli artisti Nabis, avanguardia post-impressionista di fine Ottocento, in mostra sono visibili opere di Pierre Bonnard e Paul Ranson che furono battezzati dai loro colleghi le nabi japonard e le nabi plus japonard … Gli appellativi spiegano quanto fossero attratti dalla cultura giapponese. Le silhouettes di Bonnard si muovono infatti su spazi vuoti dove la profondità viene resa dalle minori dimensioni delle figure mentre per Ranson quella cultura diventa una fonte inesauribile per spunti d’arabeschi e suggerimento per distese di colore à plat. Si respira un’atmosfera reale d’Oriente nel Paesaggio con il monte Fuji in lontananza, che è anche il più grande vulcano del Giappone, nel dipinto di Emil Orlik, pittore praghese che andò in Giappone due volte per apprendere le tecniche tradizionali della xilografia ukiyoe, la quale permette di ritrarre persone che contemplano paesaggi sublimi e/o apparizioni celesti. In area italiana sono suggestive le opere Pioppi nell’acqua e Betulle in riva al fiume di Giuseppe de Nittis che nelle sfumature del fogliame, dell’acqua e dei rami sembra conoscere la tecnica antica del tarashikomi che prevede la stesura di uno strato di pittura su un altro non ancora asciutto e mentre sgocciola, produce particolari effetti di colore. Nelle ultime sale dell’esposizione i manifesti a colori E.&A. Mele del 1907 di Marcello Dudovich e Corriere della Sera del 1898 di Vespasiano Bignami, entrambi di grande effetto, esprimono una diversa consapevolezza e recezione della cultura orientale. Cultura che possiamo apprezzare mediante il diretto confronto grazie alle presenza in mostra di opere di autori giapponesi assai famosi come Utamaro e Hiroshige a cui sono state dedicate importanti rassegne in Italia e artisti spesso a noi meno conosciuti, ma sicuramente interessanti anche per lo scambio di idee e di stilemi che ha favorito la loro conoscenza nei secoli passati.

Patrizia Lazzarin, 30 settembre 2019

 

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