Quando abbiamo iniziato a odiare i vecchi? Un racconto di Dino Buzzati, cronista metafisico, e certi indizi di mezzo secolo fa

Una notte buia di Milano. Ma non deserta, come queste piene di paura che abbiamo imparato a vivere. Una notte di maggio di viali di periferia e spiazzi di lunapark spenti, che il grande cronista di Milano conosceva bene. “Roberto Saggini, amministratore di una piccola cartiera, quarantasei anni, capelli grigi, bell’uomo, fermò alle due di notte la sua automobile a pochi passi da un bar tabaccheria, chissà come ancora aperto. ‘Un minuto e torno’ disse alla ragazza seduta al suo fianco. Era una bella ragazza, alla luce dei lampioni al neon il rosso delle labbra spiccava come un esaltato fiore”. Un inizio hard boiled, o da pagine di nera cittadina. Invece è l’inizio di un filo di domande più inquiete, dolorose. Di quelle che un grande scrittore come Dino Buzzati, abituato a farsi domande serie, sebbene facesse il giornalista, sapeva anticipare di anni. Anzi decenni. E’ l’inizio di Cacciatoridivecchi, un breve racconto dei tanti che Buzzati pubblicò sul Corriere della Sera. Sta uscendo dal tabaccaio, “il sinistro richiamo echeggiò”. “Il sibilo lacerante, lungo, a singhiozzi, fanfara di guerra per le giovani canaglie: nelle ore più strane della notte esso scuoteva dal sonno interi rioni e la gente con un brivido si rintanava ancor di più nel letto, raccomandando a Dio lo sciagurato di cui si stava iniziando il linciaggio”. “Dàgli! Dàgli al vecchio”. Non una notte metafisica, come nei quadri o nei fumetti che Buzzati disegnava con storie noir o misteriose. Ma, metafisico com’era, in questo racconto va al cuore di un problema, molto prima che ci si arrivasse noi mezzo secolo dopo: a quella alzata di spalle, rintanati nel nostro letto etico, di cui tutti si stanno accorgendo, con indifferenza o raccapriccio: sono vecchi, possono anzi devono morire. Quando abbiamo iniziato a odiare i vecchi? Buzzati non immaginava nessun virus, ma aveva intuito qualcosa. Ci sono due numeri di questo racconto che sono le sue spie più significative: 1962 e 46. 1962 è l’anno in cui Cacciatori di vecchi, poi ripubblicato in Il Colombre e altri cinquanta racconti, uscì sul Corriere. Il Sessantotto e la sua guerra generazionale erano dì là da venire. Ma a Milano, in una notte di maggio di qualche anno prima, nel 1957, il Palazzo del ghiaccio fu “devastato dal nuovo divo del rock ’n’ roll”, o meglio dai suoi giovani fan. Il debutto della band guidata da uno sconosciuto scalmanato, Adriano Celentano, accompagnato da altri tre sconosciuti: Enzo Jannacci, Luigi Tenco e Giorgio Gaber. Buzzati aveva negli occhi un mondo dominato da una nuova autoreferenzialità, altra parola per egoismo, da un culto dell’immediato e della soddisfazione per cui “i vecchi” non erano più niente di utile. Erano solo vecchi. Per dargli la caccia, ci sarebbe voluto un po’ di tempo ancora. L’altro numero, sbalorditivo, è 46. Il nostro “bell’uomo” con giovane ragazza sarebbe oggi nel fiore dei suoi anni migliori e soddisfatti. Appena uscito, ma con calma, dalla fase della “adultescenza”. Buzzati non pensava a nessun virus, a nessuna ecatombe di fantascienza. Ma, metafisico com’era, in molti racconti si pone il problema della fine, di una morte incombente e abbandonata. Parla anche di ospedali e della loro angoscia. Come nel celebre Sette piani. Un malato, che la posizione sociale ci consente di classificare vecchio, discende i gironi dell’ospedale sgranando un rosario di delusioni, come oggi potrebbe capitare a un paziente inglese costretto a conteggiare i punti a sfavore della sua salute di vecchio: dopo otto punti, niente più cure. Buzzati racconta un’insofferenza egoistica ancora incipiente, vuota di senso e pronta a tagliare con ogni passato. Fra i teppisti a caccia, l’uomo riconosce a un tratto persino suo figlio. Nella lotta anche il figlio riconosce il padre. Ma non c’è nessuna agnizione, nessuna salvezza. Ci sarà soltanto, alla fine, la scoperta crudele di quanto male quella carica di odio per i vecchi, cioè per se stessi solo qualche anno più avanti, può lasciare sui volti di chi pensava di star meglio senza quegli impicci.

Maurizio Crippa – Il Foglio – 17 aprile 2020

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