La partita della scienza

Se davvero il Covid-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus Sars-Cov-2, “è una guerra mondiale”, nessun Paese la può vincere da solo. Un Paese da solo può chiudere tutto, accettare la sospensione di importanti libertà e diritti per contenere il contagio, può allestire di corsa nuovi ospedali e reparti di terapia intensiva per tenere in vita quante più persone possibile. Un Paese, insomma, può resistere ma non vincere. Una guerra mondiale, lo insegna la storia, si vince solo con una grande alleanza. E una guerra mondiale a un virus si vince solo se i migliori scienziati del pianeta lavorano assieme. Senza rivalità, senza gelosie, con un solo obiettivo.

Questa cosa a livello globale è ormai una pratica condivisa, almeno dal 2006 quando una scienziata italiana in occasione dell’epidemia di aviaria, invece di pensare al suo tornaconto personale o a pubblicare una dotta ricerca su una rivista, mise a disposizione della comunità scientifica la sequenza genetica del virus che il suo laboratorio, a Padova, aveva isolato. Se il mondo della scienza è diventato aperto e collaborativo lo è anche per quel gesto di Ilaria Capua.

Eppure a oltre un mese dal varo delle prime zone rosse in Italia, quando oramai il virus ha dilagato in tutto l’emisfero boreale imponendo le nostre stesse misure di contenimento, si ha la sensazione che sul fronte scientifico l’Italia non stia ancora giocando con il resto del mondo. Ci sono almeno tre indizi che inducono a pensarlo.

Il primo è stato il lancio, da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, del progetto Solidarity, il 18 marzo. Si tratta di una alleanza fra vari Paesi che punta a superare la frammentazione per cui qualunque ospedale si mette a fare da solo un test clinico per vedere se un certo farmaco ha qualche effetto nel guarire Covid-19. «Questa pratica non ci dà la chiara e forte evidenza del fatto che una vita possa essere salvata», ha detto il direttore generale dell’Oms.

Perché i test abbiano senso c’è bisogno di avere presto molti più dati. Un ospedale, un laboratorio non bastano. Per questo molti Paesi si sono uniti. Quali? Argentina, Bahrain, Canada, Francia, Iran, Norvegia, Sudafrica, Spagna, Svizzera e Thailandia. L’Italia per ora non c’è. Il secondo indizio risale a qualche giorno dopo, il 24 marzo. L’Inserm, l’Istituto francese di sanità, ha lanciato una alleanza dei laboratori europei contro Covid-19, da raccordare con quella mondiale: si chiama Discovery, punta ad analizzare l’efficacia di alcuni farmaci su 3200 pazienti in Belgio, Olanda, Lussemburgo, Regno Unito, Germania e Spagna.

Anche qui, l’Italia non c’è. Va detto che questo fronte, quello dei trial clinici su farmaci promettenti, è particolarmente importante, perché per il vaccino ci vorranno ancora molti mesi e se intanto si trovasse un farmaco “salva-vita” potremmo gradualmente tornare alla vita di prima.

A questo proposito l’Oms ha individuato questi farmaci possibili: il remdesivir (usato per l’Ebola); la clorachina e l’idroclorachina (usati per la malaria); il ritonavir/lopinavir (usati per l’Hiv da testare anche in combinazione con una molecola utilizzata per trattare la Mers). Nota bene: non c’è il favipiravir, noto come Avigan, il farmaco antinfluenzale usato su qualche paziente in Giappone, divenuto un caso in Italia per via di un video su Facebook, e approvato di corsa per la sperimentazione da noi. Cosa che ha fatto dire al virologo Roberto Burioni che si tratta del «primo caso di una sperimentazione decisa sulla base di un video su YouTube». Infine il terzo indizio, non il meno importante. Per capire un virus occorre studiarlo. Per studiarlo va analizzata la sua sequenza genetica che ci dice molto non solo su come provare a produrre un vaccino, ma su quale traiettoria abbia fatto, con quanta velocità si sia diffuso e modificato.

Ebbene sulla banca dati mondiale dove sono depositate le sequenze di Sars-Cov-2, ce ne sono diverse migliaia: ma solo cinque italiane. Ovvero: non stiamo condividendo i dati, non stiamo davvero collaborando col resto del mondo.

Sono solo tre indizi, e anche se Agatha Christie avrebbe detto che assieme formano una prova, noi vogliamo credere che i nostri scienziati finora siano stati impegnati dall’emergenza e che adesso siano finalmente pronti a fare la loro parte in questa guerra mondiale.

Riccardo Luna – la Repubblica – 26 marzo 2020

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