Da un Carso all’altro

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Storia di un alpino di Prea alla Grande Guerra. Quando per la prima volta nonna Margherita di Prea  mi raccontò che nonno Giuseppe era morto sul Carso durante una guerra, io, che a cinque o sei anni  conoscevo appena un po’ di geografia locale, cominciai a guardare con una certa inquietudine quel monte, che dal versante sinistro incombe, con la sua orripilante parete, sull’ultimo tratto della nostra Alta Vall’Ellero. In seguito seppi che il Carso della guerra non era quello delle nostre Alpi Marittime, ma quello delle Alpi Giulie diametralmente opposte, costituito da un esteso altipiano calcareo, privo di alti picchi scoscesi, con scarsa vegetazione arborea e disseminato di doline, usate all’occorrenza dai nostri soldati come trincee naturali, ma trasformate sovente nelle loro tombe dalle artiglierie austro-ungariche durante la Prima Guerra Mondiale. Brevi sono i suoi corsi d’acqua in superficie, mentre numerosi sono quelli sotterranei, risorgenti poco prima di gettarsi nel mare, come il famoso Timavo, che però non fu testimone “oculare” di tanti e sanguinosissimi combattimenti, come invece fu l’Isonzo, spettatore di ben undici battaglie inconcludenti e di una dodicesima disastrosa, passata alla storia come La Rotta di Caporetto. Infatti, presso questo paesetto, la notte del 24 ottobre 1917, le armate austro-ungariche, supportate da quelle tedesche appena ritirate dal fronte russo, col favore della notte, di una fitta nebbia e con il massiccio impiego dell’iprite (un gas asfissiante e ustionante usato per la prima volta contro i nostri soldati sfiduciati e sorpresi nel sonno) ruppero il nostro fronte sull’Isonzo. Fu una ritirata disastrosa, una rotta, che coinvolse anche le popolazioni e che durò fino al 20 novembre, allorché la falla del nostro fronte fu tamponata miracolosamente al Piave e sul Monte Grappa. Il bilancio fu molto pesante. Andarono perse le conquiste territoriali fatte in 33 mesi di guerra. Andò perso parte del Veneto, già suolo italiano. Cadde in mano del nemico un’ingente quantità di materiale bellico e logistico. Furono messi fuori combattimento 400.000 soldati, molti dei quali, sbandati, si unirono alla gente in fuga. Per l’esercito italiano fu una catastrofe; per i disfattisti, un’onta inqualificabile, un tradimento da parte delle nostre truppe imbelli e per l’incapacità strategica degli alti comandi. In verità l’Italia, benché unita da oltre mezzo secolo, aveva dimostrato fino a quel momento di non essere ancora una compatta e vera nazione, perché ancor prima della grande prova si era rivelata disgregata sia sul fronte interno, sia  su quello esterno. Il divario fra élite idealistica e popolo minuto era evidente, dal momento che la polemica fra interventisti e non interventisti era ancora accesa.

Se il nome di Caporetto oggi è usato a volte come sinonimo di grave insuccesso; se quel drammatico evento è sentito ancor oggi dagli italiani come una vergogna da tener nascosta, sarebbe invece meglio che venisse considerato anche come un “olocausto”, ossia un sacrificio cruento che il popolo italiano dovette offrire sull’altare della Patria per formare e consolidare la propria identità e coscienza nazionali. L’umiliazione, inflitta al nostro esercito, servì infatti a ridestare  nei nostri soldati “l’italica virtù dei padri antichi”. Il Piave e il Grappa, uniti ad essi come in una ideale “Santa Alleanza” per fare “contro il nemico una barriera”, per 12 mesi furono testimoni dell’eroica resistenza opposta al nemico invasore dai nostri combattenti, provenienti da tutte le regioni italiane, uniti finalmente nel dolore, come fratelli che si ritrovano in occasione di un grave lutto  in famiglia. Il patto “Non passa lo straniero” (mormorato dal fiume il 24 maggio 1915 al passaggio dei primi fanti, che italiani forse non tutti si sentivano ancora) fu onorato  da essi con grande coraggio, allorché in quella grande sventura hanno sentito di essere fratelli, prima ancora di sentirsi italiani della stessa patria.

L’olocausto di Caporetto servì sicuramente a propiziare l’esito trionfale della battaglia di Vittorio Veneto, che, iniziata il 24 ottobre 1918 (esattamente un anno dopo la disfatta) si concluse il 3 novembre con la firma dell’armistizio a Villa Giusti presso Padova, la città del Santo dei miracoli. E grande miracolo fu per l’esercito italiano, che seppe costruire la sua vittoria finale sulle ceneri di una rotta disastrosa durata ben 27 giorni.

Caporetto: un nome infausto, che richiama però alla mente, per un’arcana assonanza, quello del coperchio (Kappuret in ebraico antico) della biblica Arca dell’Alleanza, sormontato dai simulacri di due celesti Cherubini, testimoni e garanti del Patto di Fedeltà ai Comandamenti (scritti su tavole di pietra e custoditi al suo interno) dati da Dio al popolo d’Israele liberato da Mosè dalla schiavitù d’Egitto.

C’è da augurarsi allora che il popolo italiano resti sempre fedele al quell’ideale Patto d’Unità Nazionale scritto col sangue sul Piave e sul Grappa, che potremmo considerare, a buon diritto, come i nostri “terreni Cherubini”, custodi e garanti della nostra italianità.

Fra i tanti nomi di località, che furono teatro di guerra, imparati dai libri di storia e dai canti degli alpini, uno solo però, conosciuto dalle antologie letterarie fin dai primi anni di scuola, è diventato per me luogo della memoria e del cuore: San Martino del Carso, reso famoso da una nota poesia di Giuseppe Ungaretti, scritta sul fronte dell’Isonzo nel 1916 e che recita così:

Di  queste case  non è rimasto che qualche brandello di muro

Di tanti che mi corrispondevano non è  rimasto neppure tanto

Ma nel cuore nessuna croce manca: è il mio cuore il Paese più straziato                                                   

Sciolto dai vincoli del tempo e dello spazio, San Martino del Carso diventa metafora di ciò che ogni guerra, giusta o ingiusta, voluta o subita, produce nell’uomo, sia che si chiami Giuseppe Ungaretti, partito volontario dal bel mondo di Parigi, sia che si chiami Giuseppe Somà, partito, forse più per scrupolo di coscienza che per patriottismo, da una sconosciuta località sperduta in una foresta del sud della Francia.

Nonna Margherita, vincendo quel pudore psicologico che a volte è più grande di quello del corpo, cominciò a parlarmi del nonno e di sé solo negli ultimi anni della sua vita, un po’ come fa un fiume carsico, quando ritorna alla luce gorgogliando a voce bassa, poco prima di morire nel mare. Mi raccontò che il nonno, ancora adolescente, nei primi anni del ‘900 era andato nel Var con la sua famiglia a fare legna e carbone, perché le risorse economiche delle nostre montagne erano molto scarse. Nel 1906 lei lo raggiunse per sposarlo, come avevano stabilito i rispettivi genitori secondo le usanze del tempo. Per fortuna si conoscevano già e forse vi era già stata fra loro qualche segreta palpitazione, risalente magari ai tempi in cui, da adolescenti, in allegre comitive andavano a pascolare gli armenti nei Cmün (pascoli comunali) o si spingevano fino alle falde del Carso a raccogliere frutti di montagna, piante aromatiche e officinali, per sollevare, seppur in minima parte, lle misere condizioni economiche delle loro famiglie, molte delle quali a cavallo del ‘900 emigrarono in Argentina o nel sud della Francia. Di esse non è rimasto altro che il ricordo dei loro cognomi (come Bertola, Piccardo, Isoardi, Richelmi) sui registri parrocchiali o nella denominazione di fondi o di misere costruzioni, molte delle quali ormai collassate, sparse sui pendii di media montagna, chiamate tèč in Occitano del Chié, con una felice sineddoche per indicare la parte più appariscente e caratteristica (dal lat.TECTUM=tetto, una copertura in origine di paglia, posta sopra ad una bassa struttura di pietre compattate con malta d’argilla, comprendente due piani: uno detto puntì, una sorta di “pontile”-soppalco adibito alla conservazione del fieno oppure adibito ad abitazione e uno seminterrato adibito a stalla oppure a cantina detta trüna, nome derivato  dall’agg. tardo lat. TERRUNA= terrena, riferito al nome sottinteso sela= cella, locale semibuio e umido usato per la conservazione di latticini e di altre derrate alimentari).

Dunque, nonna Margherita raggiunse il suo promesso sposo nel Var, non per i battuti e impervi sentieri delle Alpi, ma per la meno praticata e comoda via del mare. Il viaggio da Savona a Tolone fu per lei come un viaggio di nozze anticipato (senza il marito), un regalo che la nuova famiglia, diventata quasi benestante con il commercio di legna e carbone, le aveva voluto fare per debito di riconoscenza. Mi raccontò, poco prima di congedarsi da questo mondo e con gli occhi fissi in un punto lontano, che il viaggio fu come un bellissimo sogno fatto in pieno giorno ad occhi aperti, con il piroscafo che sembrava fermo, mentre arava l’immensa e calma prateria del mare, visto da lei per la prima volta. Tutt’altro che da sogno fu invece il viaggio di ritorno, fatto 11 anni dopo con il mare in burrasca, con 4 bambini che stavano male, con l’ansia per il marito in guerra e l’assillo di un brutto sogno, che con il suo simbolismo onirico si sarebbe rivelato purtroppo brutalmente profetico.

Allo scoppio della guerra il nonno con tutta la sua famiglia si trovava in una località sperduta di del Var. Pur non avendo ricevuto la cartolina-precetto, rimasta inevasa al Comune di Roccaforte per irreperibilità del destinatario, ma saputo, dopo un po’ di tempo, che la sua classe era stata chiamata alle armi, lasciò famiglia e lavoro per presentarsi al Distretto Militare di Cuneo, probabilmente non spinto da un alto ideale di patria, ma per non patire l’onta dell’imboscato, del disertore ogniqualvolta si fosse fatto vedere a Prea. Dopo un sommario addestramento fu mandato in prima linea al fronte del Carso, dove Giuseppe Ungaretti, dopo un anno di guerra, tra una battaglia e l’altra, scriveva, su pezzetti di carta di recupero e con i piedi nel fango, asciutte strofe composte di brevi ed esplosivi versi, folgoranti come shrapnels nella notte, per descrivere la drammatica realtà della guerra vissuta dal di dentro, con toni ben diversi da quelli salottieri di certi scrittori o strombazzati su riviste letterarie dal retorico vate d’Italia Gabriele D’Annunzio (anche lui volontario, ma con i gradi di ufficiale e senza i piedi nel fango), che si serviva della guerra come una ribalta da cui celebrare se stesso. Ora il fante Giuseppe Ungaretti, che aveva rifiutato i gradi di tenente per stare vicino ai suoi compagni d’arme, considerati suoi fratelli, vive, come il soldato semplice Giuseppe Somà, in un continuo stato di precarietà, simile una “foglia sull’albero d’autunno”. Altre volte, quando d’estate il sole dardeggia le pietraie e l’arido suolo del Carso, sente il bisogno, nei brevi periodi di tregua tra una battaglia e l’altra, di entrare in una pozza d’acqua dell’Isonzo per riposare come una reliquia in un’urna di cristallo. Sente il desiderio di purificarsi, di levarsi di dosso tutte le sozzure fisiche e morali della guerra. Vorrebbe diventare un bianco e levigato sasso dell’Isonzo, l’ultimo dei quattro fiumi della sua vita. Il primo dei quali è il Nilo, sulle cui sponde nacque (Alessandria d’Egitto); il secondo è il Serchio, dove bevettero le radici della sua famiglia (Lucca); infine la torbida Senna, nelle cui acque si è “rimescolato e conosciuto” come uomo e come poeta (Parigi).

Nonno Giuseppe, come una verde foglia strappata da un turbine estivo, cadde a 32 anni il I9 agosto sul Vodice, uno sconosciuto e modesto monte, per nulla orripilante per struttura, dell’altipiano carsico, quando le nostre truppe non avevano ancora voltato le spalle al nemico in quel tragico autunno del 1917. Cadde quindi prima di patire l’onta della “vergognosa ritirata”, così definita dai disfattisti, colpito probabilmente in pieno da una cannonata, dal momento che fu dichiarato “disperso” dal mortorio, inviato alla nonna insieme ad una misera medaglia di bronzo, onorata da un triste nastrino tricolore, ma tenuta nascosta (o dimenticata)  nel fondo del cassetto di un comodino da notte. Il suo nome però non andò “disperso”: fu inciso, insieme ad altri 100. 000, sulle gradinate del Sacrario di Redipuglia e portato dal sottoscritto e da suo cugino Giuseppe Basso (fondatore e presidente dell’Associazione Nusèč dëř chié di Prea), figlio della figlia, di cui il nonno non poté sentire i suoi vagiti, né bearsi dei suoi primi sorrisi del latte sognato. Quella figlia che gli avrebbe dato il diritto di essere congedato, ma che le lungaggini burocratiche (o negligenze interessate) non gli permisero di conoscere. La nonna ricevette la notizia della sua morte per via telepatica, prima ancora di riceverla per via postale. Una notte infatti sognò che un cappello d’alpino, con la penna spazzata, veniva travolto dalle onde del mare in burrasca. Non fece memoria della data, ma lei fu sempre convinta che quel sogno  fosse coinciso con il momento esatto della morte del marito. Tant’è che alcuni giorni dopo decise di ritornare a Prea. Qui ricevette dal Ministero della Guerra la notizia ufficiale con una lettera listata a lutto, che il postino aveva trattenuto per quasi un mese nella borsa, non avendo avuto il coraggio di consegnargliela tempestivamente. Lei però da tempo era stata preparata a riceverla dal sogno premonitore. Il ritorno al paese (con quatto figli da sfamare ed una pensione di guerra che le permetteva a malapena di comprare un litro di latte al giorno) segnò l’inizio della sua Caporetto (dopo quella del marito, seguì la morte di due fratelli e di una sorella nel fiore degli anni, in seguito quella del genero ucciso dai nazisti-fascisti nel 1944 e della figlia nel 1945, ossia del padre e della madre di chi scrive queste memorie e di altri tre bambini ancora in tenera età). Vestì il lutto a 29 anni e lo portò fino al 2 febbraio del 1972, quando finalmente poté conseguire la sua personale vittoria finale sul “male di vivere”. Solo allora sul suo viso disteso restò dipinto un sorriso beato mai visto prima

Giuseppe Priale, 24 ottobre 2018

 
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Ricordi di guerra di un bambino quasi ottuagenario

Un pomeriggio, soleggiato ma freddo d’inizio dicembre del 1944, ero andato con mio padre a prendere una gnoca (lenzuolata) di foglie secche in una scapita (capanno) appena fuori paese, per rinnovare la lettiera del maiale, che grufolava tranquillo nella sua pursì, incurante dell’igiene, della guerra e della brutta fine che avrebbe fatto a Carnevale.

Se la guerra, diventata civile dopo l’8 settembre 1943, non fosse arrivata fino a noi, la povera bestia, allora, appesa per le zampe posteriori e tenuta ferma per quelle anteriori da due uomini paonazzi in viso per lo sforzo, avrebbe mandato strazianti grugniti, che sarebbero arrivati fino al Biò, cioè all’altra estremità della Prea e perfino a Baracco, al di là della Vall’Ellero, prima di affievolirsi e poi morire in un fiotto di sangue, fatto zampillare con una precisa stilettata inferta alla giugulare dal grinatè,  il norcino. Il sangue, raccolto schiumeggiante in un secchio (nulla veniva sprecato del maiale, specie in quel tempo di guerra), sarebbe stato mescolato, ancor caldo, con il latte, per farne una zuppa cotta a bagnomaria, oppure, lasciato raggrumare, sarebbe stato insaccato con le parti meno pregiate e insaporito con l’aglio. Gli organi interni sarebbero anche finiti nelle sfürze,cioè negli involtini confezionati con foglie lessate di verza, surroganti egregiamente quella particolare pellicola reticolata dello stomaco, quando questa veniva a mancare. Le grašütte, cioè i lardelli, cui era rimasta ancora attaccata qualche briciola di carne , fatti sciogliere in padella, sarebbero serviti a farcire ottime frittate.

Ma il nostro maiale, quel pomeriggio d’inizio dicembre del 1944, non ebbe la lettiera rinnovata, non ebbe più la solita sorpresa di qualche castagna dimenticata tra le foglie secche, ma neppure la sventura di finire sgozzato a testa in giù per Carnevale. Fu, infatti, requisito dai nazifascisti, forse perché avrebbe potuto “collaborare” anche lui, a modo suo, con i partigiani. Questi, infatti, nelle pause della Guerra di Liberazione, solevano alla sera “ bivaccare” a casa nostra per ascoltare, addossati gli uni agli altri, la nostra radio, che sembrava trasmettere solo temporali, frammisti a voci incomprensibili. In seguito ho saputo che era Radio Londra, la quale, continuamente boicottata sulle sue frequenze, cercava in qualche modo di organizzare la Resistenza. Quei “ribelli”, così chiamati dai fascisti, quei “banditen”, com’erano chiamati dai tedeschi, a casa nostra venivano anche per farsi aggiustare le scarpe da montagna da mio padre, considerato il miglior calzolaio dell’Alta Vall’Ellero e della Val Maudagna, dove ogni tanto teneva bottega anche a Miroglio.

Poteva capitare a volte che quei “ribelli” non resistessero di fronte a qualche appetitosa pollastrella (nel senso di pennuto) e la requisissero in nome della Resistenza e se la facessero cucinare da mia madre in nome della fame. Ma il nostro maiale fu  requisito per rappresaglia dai nazifascisti  insieme alla  pericolosa radio gracchiante (restituitaci dopo la guerra, ma non il maiale). In quella occasione  casa nostra fu anche messa a soqquadro. Furono sventrati persino i materassi e le paiasse (pagliericci con foglie di grano turco) alla ricerca del capofamiglia, conosciuto come sovversivo e collaborazionista dei partigiani, da tempo segnalato e tenuto d’occhio.

Quel pomeriggio d’inizio dicembre del 1944 mio padre non fece ritorno a casa con la gnoca di foglie secche per il maiale, né più vi fece ritorno. Infatti, mentre stavamo ripercorrendo in salita il vicolo Fontana per far ritorno a casa, ad un certo punto sentimmo un forte odore di fieno e di foglie bruciate. Ben presto vedemmo alte fiamme, in mezzo a dense volute di fumo, salire dalle scapite e dai puntì, cioè dai fienili annessi alle stalle dalla parte alta del paese. Quella volta le  “Bande Nere” erano arrivate dai monti che separano la Valle Pesio dalla Val Ellero con lo scopo di cogliere i partigiani alle spalle e bruciare i loro rifugi, costituiti dai tèč (malghe), molti dei quali in seguito non furono più riparati. Ben presto sarebbero arrivate anche a casa nostra. Se andava bene avrebbero dato la solita e dura lezione al sovversivo e collaborazionista impenitente. Avrebbero, cioè,  tenuto mio padre legato un’intera notte al “palo”, costituito per l’occasione dal frassino che cresceva vicino casa. Solo mia madre sapeva in quale stato era, quando al mattino veniva a slegarlo l’addetto al supplizio. Quella era stata, fino ad allora, la pena alternativa alla fucilazione, grazie ai buoni uffici di uno zio (colonnello in pensione), a quel tempo Commissario Prefettizio al comune di Roccaforte. Ricordo perfettamente che, nelle prime ore della notte, noi quattro bambini (dai due ai cinque anni) andavamo a tenergli  compagnia, rimanendo   ad una certa distanza per paura del buio. Sentivamo solo  la sua voce e i suoi lamenti provenire dal frassino, ma non vedevamo la sua figura. Ma il buio più buio  fu quello che mi rimase dentro ancora per anni, fino a quando anche per me giunse il “mattino”. Allora potei leggere la Storia scritta sui libri, ma anche quella non scritta, ma ricostruita su brandelli di ricordi infantili e poi conservata con pudore nell’archivio del cuore.

Adesso, ogni volta che sento odore di fieno e foglie che bruciano, dal mio archivio segreto viene fuori la figura di mio padre che butta la gnoca di foglie nella contrada dei Pin Mariana appena vede gli incendi  e sente le voci concitate delle donne che lo scongiurano di non andare a casa, dove lo aspetta il solito supplizio del palo o magari qualcosa di peggio, vista l’inefficacia delle “lezioni” precedenti. Ancor oggi, ogni volta che arrivo a metà del vicolo Fontana, mi pare   di sentire la voce di mio padre che chiama la cuginetta Teresina  di dieci anni, che abitava nei pressi, per mandarla a casa a prendergli il giaccone di pelle nera. Prima di fuggire, non mi ricordo se mi salutò. Ricordo solo il rumore delle sue scarpe chiodate sul selciato del vicolo, percorso in discesa a precipizio. Non rividi più mio padre. Non ricordo  più nulla di ciò che avvenne dopo, a conclusione di quella giornata. Fu come se la mia memoria fosse fuggita dietro a mio padre, che mi aveva lasciato solo a metà del vicolo.

Allontanatasi dalla nostra Valle, la bufera nazifascista passò a quella attigua del Maudagna. Allora alla sera, come al solito, i partigiani ripresero a frequentare casa nostra. Ma non trovarono più la radio che trasmetteva “temporali”; non sentirono più grufolare il maiale nella pursì; non ebbero più il calzolaio  che aggiustava loro le scarpe. Allora facevano da soli, come potevano, mentre mia madre chiedeva notizie di mio padre, che verosimilmente si era unito ai suoi amici partigiani  sulle  montagne della Val Maudagna. Ricordo nitidamente la risposta “Mah, chi lo sa?!” di uno di loro mentre batteva energicamente il martello sulle bullette coniche dei tacchi. Quelle quattro parole sono rimaste inchiodate per sempre nella mente dei miei quattro anni. Non ebbi, però, a causa dell’età, la capacità di cogliere tutta  l’ansia angosciosa di mia madre   nel sentire quelle parole di ambigua incertezza, né lo strazio causatole dalla notizia, giunta pochi giorni dopo, della morte di mio padre ai Bergamini. Non ebbi neppure il tempo di cogliere le sue testimonianze, perché cadute nell’oblio di una fossa, aperta  otto mesi dopo vicino a quella di mio padre. A guerra appena finita, infatti, due “cecchini” erano rimasti ancora in paese a compiere le ultime rappresaglie di retroguardia. Il tifo  e il paratifo, non riconosciuti per tempo, colpirono a morte mia madre all’età di 32 anni, perché il dottore, invece di venirla a visitare, non seppe disdire un impegno di caccia (finalmente riaperta!...) già preso con certi suoi amici.

Passati gli anni prescritti per le sepolture nella terra, i miseri resti dei miei genitori vennero esumati e raccolti in una cassetta. Questa venne riposta nella tomba dello zio Pietro, forse riconciliato con mio padre, caduto non per fucilazione alla schiena, non per assideramento legato ad un frassino in una  gelida notte di dicembre, ma con un’arma in pugno, combattendo da buon soldato, come sicuramente lo era stato lo zio, se era arrivato al grado di colonnello per soli meriti di guerra.

L’addetto al cimitero di Roccaforte (il signor Vecchioni, un soldato sbandato che non aveva più fatto ritorno al suo paese del Sud) mi chiese se volevo recuperare quelli che furono  gli scarponi in pelle di vacchetta, che avevano calzato i piedi di mio padre come se fossero guanti e che forse avevano suscitato l’invidia in chi non se li poteva permettere. Ora,  corrosi e slabbrati, con le bullette arrugginite, avevano  il potere di destare quel dolore che la mia debole coscienza di bambino non aveva vissuto appieno. Non ebbi la forza di raccattare quei macabri cimeli,  la cui vista serviva solo a dissotterrare il ricordo di una famiglia sconquassata dalla guerra, le cui macerie continuano a fumare nei cuori dei sopravissuti.

Da 72 anni mio padre é solo più un nome, scritto su una lapide del cimitero,  di uno morto a 36 anni; un nome scritto ancora tre volte su altrettante  lapidi commemorative di caduti senza storia. Una di queste, però, ha per me un valore particolare: quella affissa alla facciata della chiesetta di S. Marco al Pellone (stretta fra le braccia della strada che sale verso quei monti bagnati per due volte nel 1944 dal sangue dei partigiani), dove ogni anno il 25 aprile, festa dell’Evangelista con il leone e della Liberazione, viene celebrata una messa in suffragio dei 15 partigiani e civili caduti nei pressi e sulle montagne della Val Maudagna. La chiesetta, infatti, nel gennaio e nel dicembre del 1944 essendo stata usata anche  come obitorio, a buon diritto, può essere considerata come il Sacrario della Memoria dei nostri “ Ribelli per amore”, che, morendo per noi,  hanno meritato la palma del martirio. Quella palma che giustifica e salva anche  chi si è sacrificato per una giusta causa, come quella  per la Libertà, sacro dono elargito da Dio all’uomo per renderlo  padrone solo di se stesso.

  Giuseppe Priale

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