Cassandra o dell’inganno… del nostro tempo

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Il verde lucente della foglia che simboleggia la freschezza della primavera ritma il trascorrere del Tempo sul rigo dello spartito musicale. Un tempo ciclico fatto di stagioni che si susseguono: primavera, estate, autunno, inverno e poi ancora  il verde della foglia sul ramo, lì in alto, che si fa guardare e che annuncia la rinascita. Per gli antichi Greci e anche in alcune religioni orientali il Tempo era raffigurato come un’enorme Ruota. In quel luogo simile all’Infinito tutto si può immaginare che si  ripeta con una circolarità incessante.  Il nostro Tempo, quello che Elisabetta Pozzi ha narrato ieri sera nella tragedia di Cassandra o dell’Inganno, al Teatro Monaco di Treviso insegna altro.

Perché attingere al mito di Cassandra, la troiana fatta prigioniera dal re Agamennone e voluta come sua concubina  dopo la conquista di Troia? La profetessa Cassandra era una giovane bellissima che sapeva predire il futuro e che non era creduta per la maledizione del dio Apollo che di lei si era invaghito, ma che  era stato rifiutato. Il Tempo di cui Elisabetta Pozzi ha cantato i suoni e le voci che si propagavano in una Natura ancestrale odorava di dolore.

Giunti negli spazi dell’Antica Micene, lì dove il Mito mostra, sul carro del vincitore, Cassandra schiava, sembrava che fossimo tornati dentro quel Tempo circolare. Diverso da quello lineare  proprio della Scienza e della  religione cristiana che vediamo proiettate,  la prima verso il progresso  e la seconda  in un luogo oltre questa Terra. I miti sono vivi ancora oggi  e ci  raccontano  la parabola di una società  smarrita nei suoi valori.  La figura di Cassandra,  interpretata da Elisabetta Pozzi, nasce dalle parole di Seneca, Eschilo ed Euripide, ma anche da quelle più vicine della scrittrice tedesca Christa Wolf.

Con la collaborazione dell’autore e giornalista Massimo Fini, Pozzi traccia il percorso  del mito portandolo all'oggi per indagare la nostra civiltà orfana di identità. Cassandra è ancora l’emblema della lucidità, capace di vedere i cavalli di Troia che la nostra società ha accolto condannandosi alla catastrofe. Quali sono i cavalli di Troia della contemporaneità? Potrebbe il progresso che nella sua folle corsa ha cancellato parte delle nostre tradizioni e  dei nostri miti far scomparire la nostra cultura e la nostra memoria. Rovine, resti, memoria … Suoni infiniti nella notte, dentro la nostra anima.

Le parole di Christa Wolf spiegano anche Cassandra come l’abbiamo “sentita ieri” nel suo dolore dichiarato a voce alta, nel senso di estraneità patito e nella sua immensa solitudine che la segrega assieme  ai pazzi. I passi dell’attrice nelle sue ampie falcate restituivano l’immagine dell’eroina che cammina su una Terra dove gli uomini stanno scomparendo imbarbariti dalle violenze e dalla mancanza di pietà.

Pietas …  Andiamo verso l’epilogo  … o un inizio … ?

Guarderemo la realtà o vivremmo ancora, per quel poco tempo che rimane, di illusioni?

Wolf  ha spiegato il valore della letteratura per l’essere umano.

Ci serviamo del mito per recuperare quindi significati, l’importanza della parola scritta e il ruolo decisivo che la lettura svolge per la formazione della soggettività e della coscienza individuale. La letteratura ci aiuta a confrontare, capire e giudicare, ci guida nel processo di conoscenza della realtà esterna e degli altri, ci insegna a prendere le misure, a delimitare i confini del nostro Io, ad acuire il senso del tempo, a incanalare le emozioni e ad affinare i sensi.

Immaginiamo, scrive l’autrice, che “una forza, non meglio definibile, estingua con un colpo di bacchetta magica ogni traccia impressasi, mediante la lettura di libri di prosa, nel mio cervello”.

Un mondo di non-lettori, prospettiva spaventosa e certo assurda (benché illuminante sotto il profilo teorico), equivarrebbe a dire un mondo di esseri rozzi e imbarbariti: dalla psiche individuale scomparirebbe la percezione della profondità storica, i sensi diverrebbero opachi, la coscienza sfocata, “perché io, senza libri, non sono io”, afferma la Wolf.

Patrizia Lazzarin, 28 febbraio 2024

 

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L’ispettore generale... mala società...

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Mascalzone! Mascalzone! A Rocco Papaleo che interpretava il podestà nella commedia L’ispettore Generale del drammaturgo russo Nikolaj Gogol gli potremmo dare una tiratina d’orecchi perché alla fine Così fan tutti, parafrasando e declinando al maschile, significati e titolo dell’opera comica del musicista Wolfgang Amadeus Mozart. Nella commedia andata in scena ieri sera a Venezia, al Teatro Goldoni: uno dei più grandi capolavori del teatro russo nell’adattamento del regista Leo Muscato, la corruzione palese era, come nella Russia zarista di allora, un fatto quotidiano, un nutrimento su cui contava ognuno, nel suo habitat, per sopravvivere meglio. Potendolo fare, bisognava trarre vantaggi da ciò che girava intorno.

Ah poracci! Il termine si potrebbe adattare alla perfezione a tutti i protagonisti della piece di Gogol. Chi più, chi meno. Ai nostri occhi sono apparsi ridicoli da diventare divertenti mentre cercavano di coprire la miseria delle situazioni che erano chiamati a governare. Fra questi il Sovrintendente alle Opere Pie, interpretato da Gennaro Di Biase con il medico, Elena Aimone, sembravano parodiare una sanità efficiente, ottenuta con le migliori cure. Migliori cure? Nessuna terapia, suggeriva la medichessa con un alito così profumato da far ammattire una puzzola, se non quella rimediata dagli anticorpi del malato. Metodi naturali. Ebbene,  morti veloci e naturali. Letti vuoti, bare piene. Tutto lindo? No. Anche la biancheria si cambiava poco. Una volta al mese. Tutto bene … Forse non proprio …

Qualche sentore di malasanità, di malagiustizia, … di una scuola che non educa e delle comunicazioni che non funzionano, lo possiamo capire anche noi che siamo spettatori in sala e testimoni  di un sistema che in più luoghi del nostro pianeta presenta crepe. Non servivano “recitazioni ad effetto” per spiegare la corruzione che nella Storia e nel mondo ha visto attori e vittime. E per attori si intendono gli autori di azioni disoneste. Basta la vita e il suo svolgersi come nella piece di Gogol a ridicolizzare l’operato di malfattori e corruttori. La sottile ironia, i  fraintendimenti e i paradossi diventavano nella commedia protagonisti  essi stessi nel condensare gli effetti dannosi di azioni sbagliate. Quanta paura per l’arrivo dell’ispettore statale che sarebbe venuto a controllare l’operato del podestà e dei suoi collaboratori in quel luogo che si raggiungeva dopo lunghi e lunghi giorni di viaggio dalle grandi città. Cosa avrebbero potuto o dovuto dire, spiegare, … dilemmi,  timori …

 Ma forse anche qui il denaro o qualcosa di equivalente … regali forse,  avrebbe potuto risolvere tutto. Uno scambio di persona origina l’equivoco. E il presunto ispettore, Chlestakov, interpretato da Daniele Marmi, con il suo cameriere e senza soldi per averseli tutti giocati, capisce l’errore in cui sono incappati in quel lontano paesino russo lontano dalla sfarzosa San Pietroburgo.

Ne approfitta anche lui  e “si fa prestare” dai potenziali corruttori una bella somma di  denaro. La beffa viene scoperta dal postino che leggeva tutte le missive come quella del presunto ispettore che scrive proprio a Gogol, raccontandogli, prima di fuggire da quel luogo, l’avventura pazzesca che gli era capitata.  La neve cadeva nella bella scenografia di Andrea Belli. Sulla scena ai lati,  si delineavano in fila diagonale, isbe piccole e grandi che digradavano in profondità. Le luci e le musiche ritmate ricreavano un tempo e uno spazio che ci faceva sentire  nella lontana Siberia. E l’assurdo ci faceva sorridere.

La rigidità dei protagonisti che potevamo osservare nelle volontà “ammaestrate”  dall’ambiente in cui gli era capitato di vivere segnavano il dramma dell’uomo di ogni tempo, incapace  di sottrarsi all’ingranaggio della corruzione che alla fine stritola. E nella Russia di oggi  di cui scrivono nel Tesoro di Putin i  due giornalisti Jacopo Iacoboni  e Gianluca Paulucci, poco meno di cent’anni dopo la commedia di Gogol, si svela un sistema economico “mostruoso” nel creare ricchezza per pochi. Altri casi sono avvenuti  nel nostro paese  come il sistema di favoritismi nel Fascimo o Tangentopoli.

 E ora … ? Una  commedia L’Ispettore Generale che insegna molto anche ai giovani, come quelli che ieri sera erano in sala.  Non dimentichiamo  di controllare  in ogni occasione “il grado di acidità” della nostra società.                                                     

Patrizia Lazzarin, 25 febbraio 2024

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Pre-raffaelliti, il Rinascimento moderno

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La fascinazione per l’arte italiana rinascimentale, capace di trasformarsi in un’avvincente  storia d’amore, è la stella che illuminò il  cammino del  movimento dei Preraffaelliti. Questo accadde nello stesso periodo storico in cui, come afferma l’inglese Elizabeth Prettejohn, una delle curatrici dell’esposizione che si apre oggi a Forli, nel  Museo Civico di San Domenico, la pittura e le arti decorative britanniche cominciarono ad attirare l’attenzione dei critici e del pubblico di tutto il mondo. Mentre la letteratura della patria di Shakespeare era celebrata da tempo, le arti visive non erano mai state un punto di forza di quel popolo.  

Il mutamento  si origina nell’Ottocento durante il regno della Regina Vittoria. Nel 1882 Oscar Wilde, durante le sue conferenze in America, esprimeva già questa convinzione che si traduceva anche nella consapevolezza della nascita di un’arte nuova con  caratteri di originalità. “Lo chiamo Rinascimento inglese perché è indubbiamente una rinascita dello spirito  dell’uomo, analoga al grande Rinascimento italiano del Quattrocento”.

La Confraternita dei Preraffaelliti nacque a Londra nel 1848 e fu un movimento d’avanguardia che rovesciò le ortodossie artistiche correnti per sostituirle con nuove prassi critiche. Si formò proprio in quell’anno il 1848, come sottolinea nel catalogo della mostra, il curatore americano Peter Trippi, quando nell’Europa continentale scoppiarono le rivoluzioni e la non meno violenta variante inglese, ovvero il movimento cartista che chiese una “carta del popolo”  che garantisse il suffragio e lo scrutinio segreto per tutti gli uomini dai ventuno anni in su …

I soggetti scelti dai  Preraffaelliti si legavano a temi morali, religiosi e sociali, spesso stupefacenti per la maggior parte del pubblico del tempo  e utilizzavano unitamente alle tecniche tradizionali altre sperimentali. I suoi fondatori William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti e poi i loro primi seguaci erano animati dalla convinzione che sono nell’arte del Trecento e del Quattrocento ci fosse spontaneità e sincerità. La loro ricerca si volse a valorizzare le componenti sentimentali ed interiori e al tempo stesso aspetti dell’onirico e dell’irrazionale. Essi anteposero a Raffaello e soprattutto ai suoi seguaci, accusati di formalismo, artisti come Cimabue, Giotto e i giotteschi, Taddeo di Bartolo, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, i due Lippi, Rosselli, Verocchio e Botticelli e tutti gli altri autori del Quattrocento italiano.

Fra i maestri che ammirarono vi furono soprattutto quelli toscani. In momenti diversi si ispirarono a Sandro Botticelli e poi anche a Michelangelo, per guardare infine all’arte veneziana di Veronese e Tiziano. Già nella prima sezione della rassegna la presenza di alcuni artisti come Leighton, Burne-Jones, Cayley Robinson e Pomeroy, appartenenti a diverse generazioni, chiarisce il tema di tutta l’esposizione.

L’attenzione nei confronti di Venezia, al contrario di Roma, ha costantemente accompagnato lo sviluppo della poetica dei Preraffaelliti, spiega  il curatore Francesco Parisi, nel catalogo pubblicato da Dario Cimorelli Editore. Tuttavia, in seguito i suoi esponenti modificarono nei loro viaggi la consueta traiettoria toscana- veneta.  Nella capitale romana, con il suo immenso patrimonio di storia, arte e cultura essi potevano ammirare molte opere di Michelangelo e di Botticelli,  come fece il protagonista della seconda generazione, Edward Burne-Jones.

Sappiamo in molti, come ha sottolineato Cristina  Acidini, un’altra studiosa e curatrice dell’esposizione come la bellezza delle figure femminili ritratte dagli esponenti della Confraternita ancora oggi influenzino il concetto di bellezza moderna e la moda. Sono donne di una bellezza sensuale, enigmatica, in cui si leggono sentimenti nostalgici  e con un’aria a volte sfuggente al nostro sguardo che le ammira. Quest’esposizione che a buon diritto e non per pura retorica si può affermare, che per innumerevoli prerogative, abbia una struttura e modalità spiccatamente internazionali, ha il merito di valorizzare anche l’aspetto creativo di quelle che sono considerate le Muse  del Movimento dei Preraffaelliti.

Elizabeth Siddal, Christiana Jane Herringham, Beatrice Parsons, Marianne Stokes e Evelin de Morgan contribuirono infatti anche a plasmare l’identità estetica con una loro produzione che la rassegna documenta in modo chiaro.

Cristina Acidini spiega,  ancora nel catalogo,  che il mondo dantesco fu importante per le iconografie dell’arte preraffaellita, ma non fu il solo a cui si ispirò la Confraternita londinese. Boccaccio e occasionalmente Petrarca furono fonti da cui trarre temi per la loro arte. La scoperta del ritratto di un giovane Dante negli anni Quaranta del Quattrocento dipinto da Giotto  al Bargello di Firenze e la  conoscenza grazie al padre, studioso dantista, di una copia di esso da parte di Dante Gabriel  Rossetti, introduce nell’arte di quest’ultimo un mondo di sentimenti e di fisionomie che si staccano dalla precedente tradizione.

Fra gli artisti in mostra George Frederic Watts e Frederic Leighton, non così noti al pubblico italiano. Il secondo che fu anche presidente della Royal Accademy, ebbe il merito di diffondere in maniera efficace la cultura italiana in Gran Bretagna. Le opere dei due artisti inglesi vengono messe nell’esposizione a confronto con quelle di Paolo Veronese e di Tiziano.

La mostra diretta da Gianfranco Brunelli è organizzata dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì. Il progetto di allestimento, ricco di effetti, è curato dallo Studio Lucchi & Biserni.

Essaha la curatela di Elizabeth Prettejohn, Peter Trippi, Cristina Acidini e Francesco Parisi con la consulenza di Tim Barringer, Stephen Calloway, Charlotte Gere, Véronique Gerard Powell e Paola Refice.

L’unicità della rassegna è data anche dal numero di opere che potremmo conoscere ed ammirare: oltre 300 tra dipinti, sculture, disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli.

L'esposizione che sarà visibile fino al 30 giugno 2024 mira infatti a narrare la storia delle tre generazioni di artisti associati o ispirati al movimento Preraffaellita, attingendo ai capolavori dei più prestigiosi musei e  collezioni.

Patrizia Lazzarin, 24 febbraio 2024

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