Stalingrado

Stalingrado

Era il 12 Settembre quando il generale Zukov venne convocato, insieme al capo di stato maggiore Vasil'evskij, nell'ufficio di Stalin. Le notizie dal fronte erano tutt'altro che buone e i due malcapitati temevano di dover affrontare l'ennesima sfuriata del "capo". Entrando, Zukov vide alle pareti due quadri mai visti prima. Evidentemente erano stati appesi di recente: il primo era un ritratto di Alexandr Suvorov, il flagello dei turchi, mentre il secondo raffigurava Michail Kutuzov, il più ostinato tra gli avversari di Napoleone. I due generali si scambiarono un'occhiata: niente di quanto succedeva tra le mura del Cremlino era casuale e quindi non poteva esserlo neppure la presenza di quei quadri. In un'atmosfera silenziosa, Zukov aveva dovuto spiegare cos'era andato storto nel corso di quella guerra, adducendo la carenza degli effettivi e l'insufficienza di artiglieria e carri armati. Stalin non disse nulla, chiese di poter vedere la carta con le riserve disponibili e si mise a studiarla da solo, alla sua scrivania. A quel punto i due generali si ritirarono in un angolo della stanza, borbottando tra loro. Georgij, disse Vasil'evskij, il capo oggi non pare di cattivo umore, e se tentassimo di proporgli quella nuova soluzione di cui abbiamo discusso in viaggio? Ma tu, tu sei matto, rispose il primo. Non fecero in tempo a concludere il discorso che Stalin, dotato di udito finissimo, gridò dalla parte opposta della stanza: quale sarebbe questa "nuova soluzione"? I due generali furono colti alla sprovvista, accennarono la loro idea che era assai fumosa e, per tutta risposta, si sentirono dire: andate allo stato maggiore e riflettete con molta attenzione su quello che si dovrebbe fare a Stalingrado. Poi, tornate qui, a riferire. Stalin non aveva dunque escluso la possibilità di attuare il loro piano.

I due generali passarono la notte e il giorno successivo a studiare la possibilità di creare nuove armate e corpi corazzati da utilizzare contro l'esercito tedesco. L'idea di Zukov era quella di accerchiare i tedeschi a Stalingrado, i quali avevano i fianchi deboli perché tutti i loro sforzi erano concentrati sulla conquista della città. La sesta armata di Von Paulus aveva infatti percorso migliaia di chilometri e dopo quella corsa, aveva lasciato un vuoto alle spalle. Si poteva attuare una manovra a tenaglia ma sarebbero servite ai russi abbondanti forze per circondare i tedeschi con un attacco in profondità. Con questo piano la sera successiva i due si ripresentarono a Stalin che chiese loro cosa avessero escogitato. Chi riferisce? Entrambi, fu la risposta, dato che siamo dello stesso parere. Inizialmente il dittatore sovietico apparve perplesso, temeva che in questo modo si potesse perdere Stalingrado, subendo così l'ennesima umiliazione ma, alla fine, diede pieno appoggio al piano. Mi raccomando però, disse congedando i due generali, occorre massima segretezza; nessuno, a parte noi tre, deve essere al corrente di tutto ciò. L'operazione era dunque progettata: il suo nome, sarebbe stato, Uranus.

Lo stesso giorno in cui Stalin era a colloquio coi suoi generali, Luigi Paleari si trovava a Voroscilovgrad. Era il 7 Settembre 1942. Il tempo era bello, la notte un po' fredda e lui, lui avrebbe desiderato passare una bella serata, in compagnia, con gli amici. Poi però, all'improvviso, arrivò un ordine, un ordine di partenza. Per dove, non si sapeva. Come conducente del 250esimo autoreparto pesante si mise alla testa di un convoglio che doveva consegnare un carico di munizioni ai tedeschi. Ci si domandava: ma qual è la nostra destinazione? Io non so, tu lo sai? Nessuno dei militari, proprio nessuno, conosceva la risposta. Poi, superata Millerovo, i mezzi erano rimasti senza benzina e l'intera colonna dovette fermarsi, pernottare, lontano dai centri abitati. Il rischio era di venire avvistati dal nemico, di essere attaccati dai partigiani. Fu una notte inquieta, e malinconica. Aerei russi passarono sulle loro teste ma non accadde nulla, forse erano di ritorno da una missione o, forse, avevano esaurito le munizioni. Chissà. I soldati fecero un respiro di sollievo. Per loro fortuna, alle 9 del mattino i rifornimenti finalmente arrivarono, si poteva ripartire: direzione Kalac, sul Don. L'autoreparto non si era mai spinto così in avanti, verso est, verso la terra di nessuno.

Luigi ripensava al giorno del suo arrivo in Russia, due mesi prima. Aveva visto pianure immense, in cui l'occhio si perdeva, qualche pezzo di terreno coltivato a segale e le case, case con pareti di fango e tetto di paglia. Quella sera, dopo aver accompagnato gli ufficiali in città con la sua Fiat 1100, era andato a teatro per vedere una compagnia italiana e ascoltare musica. La musica di casa. Quanta nostalgia suscitavano quelle note! Percorrevano leggere le strade che portano alla periferia del cuore e, da lì, lo accarezzavano, con parole dolci.

La prima grande città che aveva visto era stata Dniepropetrovsk. Era una metropoli dai grandi edifici, enormi complessi tutti uguali e poveri dal punto di vista architettonico. Interamente bombardati. Ne rimanevano scheletri, spettrali facciate costellate da finestre o, meglio dire, da buchi neri che trasmettevano un senso di inquietudine. La voce risuonava cavernosa al loro interno: c'è qualcuno, c'è qualcuno qui dentro? Veniva da pensare che quei casermoni non dovessero essere molto diversi prima dei bombardamenti. Quelle cattedrali, nel deserto dei sentimenti, erano naturalmente disabitate, la lugubre opera d'arte di un qualche scultore surrealista. Possibile, si chiedeva Luigi, che qualcuno avesse davvero vissuto là dentro?

A Kalac c'era un ponte. Lo passarono. Solo a quel punto la destinazione diventò, finalmente, chiara: Stalingrado! Quel ponte era l'ultimo. Lì, finiva il mondo. Il mondo era quella porzione di territorio che tedeschi, italiani, rumeni e ungheresi avevano conquistato, e trasformato: nel mondo c'erano magazzini, la sussistenza, case di tolleranza e nuove strade ferrate con binari, a scartamento ridotto. E il confine era il fiume, il Don. Oltre si apriva una landa, vasta, disabitata, al fondo della quale c'era il Volga, e Stalingrado, la città di Stalin, la città simbolo assediata, dalle truppe tedesche. In mezzo, nella terra tra i due fiumi, l'ignoto aveva le forme di un territorio che nessun esercito controllava veramente. Si sarebbe potuto incontrare chiunque. Chi è laggiù, che si avvicina? Amici, o nemici? Bisognava stare in guardia, sempre.

All'alba la colonna passò quel ponte e avanzò, verso mezzogiorno fece una sosta. Allora i soldati scesero dai camion per sgranchirsi le gambe, e fare qualche fotografia: c'erano molti carri armati in quel luogo, carcasse vuote, bruciate, un vero e proprio cimitero. Saliamo ragazzi, saliamo su quello! In un attimo tutti erano pronti per lo scatto e Luigi, mani sui fianchi, era più in alto di tutti. Quel T34, così era denominato quel tipo di carro, era una loro conquista.

Quando Luigi tornò verso la macchina, una gomma era a terra e, subito, si mise al lavoro per sostituirla. Ci riuscì in breve tempo. I militari avrebbero voluto sostare un po' a Kalac, quel villaggio aveva il sapore dei posti di frontiera, lontani baluardi di un mondo che solo la fantasia avrebbe saputo immaginare. Ma i tedeschi avevano necessità di munizioni e allora, allora si doveva proseguire, alla ricerca del luogo della consegna. A un certo punto si mise a piovere, era il 14 Settembre. Le piogge autunnali, in Russia, sono violente: le strade si trasformano in fiumi di fango, le ruote degli automezzi iniziano a slittare e gli autisti premono, disperati, sul'acceleratore. Le braccia che, con sforzo sovrumano, cercavano di far uscire i mezzi da quel pantano, erano inutili. Forse neppure un argano sarebbe stato sufficiente.

Sul far della sera, mentre il cielo non prometteva nulla di buono, Luigi raggiungeva con la sua auto il luogo stabilito. La macchina precedeva il grosso della colonna di qualche chilometro. Ma all'appuntamento non c'era nessuno e, quel che era peggio, neppure la colonna, rimasta attardata, compariva all'orizzonte. Gli unici tedeschi presenti laggiù facevano parte del piccolo reparto di una batteria antiaerea della Flak. Gli ufficiali italiani decisero allora di proseguire sulla Fiat, verso Stalingrado, per andare incontro ai tedeschi, che non potevano essere molto lontani. A un certo punto si fermarono: la città era lì, davanti ai loro occhi, distante non più di 20 chilometri. Quella città epica, simbolo della lotta del popolo russo e della sconfitta del nazifascismo, poteva essere raggiunta. Sarebbe bastato che un ufficiale dicesse, andiamo, andiamo avanti ancora un poco. Ma la pioggia, aumentava di intensità e non c'era da fidarsi, non c'era proprio da fidarsi, in quella terra di nessuno. Si decise allora di tornare indietro nel luogo dove le munizioni avrebbero dovuto essere consegnate ma, al sopraggiungere della sera nessuno era ancora arrivato: né i tedeschi, né la colonna dei camion italiani. Gli ufficiali avrebbero voluto consumare il rancio ma non potevano sapere che la colonna, con le cucine, era rimasta impantanata nel fango, laggiù, nella pianura. Cosa fare allora? Non rimaneva che chiedere ospitalità a quelli dell'antiaerea. Improvvisamente si scoprì che tra essi c'era un italiano, di Ortisei, che era stato chiamato alle armi proprio dai tedeschi. Venne accolto come un fratello, fu un grande abbraccio. Lui offrì del salame e del caffè, caldo. Chi avrebbe mai pensato di incontrare un italiano, laggiù, sul Volga. Chi sei? Come sei arrivato fin qui? I militari italiani, come bambini, avrebbero voluto sapere tutto di lui. Nel frattempo scendeva il buio. I tedeschi erano a loro volta meravigliati: quelli, erano i primi italiani a vedersi sul fronte di Stalingrado, i primi a passare il Don. Scendeva il buio e Stalingrado bruciava, in alto aeroplani andavano a bombardare la città. Scendeva il buio e c'era la necessità di pernottare. Dormirono in tre in una buca nel terreno, chiusa dal telo della tenda. Unica coperta: il cappotto militare, il cosiddetto pastrano. Non fu una notte tranquilla, il rumore degli aerei che andavano avanti e indietro da Stalingrado era continuo, incessante. E a mezzanotte, arrivò la pioggia. Le preoccupazioni di Luigi aumentarono: pioggia voleva dire macchine bloccate, in quel fango che tutto ricopriva. Ma poco dopo sentì arrivare il vento, un vento benedetto che avrebbe con ogni probabilità asciugato quel terreno melmoso. E, col vento, arrivò anche il sonno, un breve sonno durante il quale Luigi ritornò col pensiero a quei pochi mesi trascorsi nella terra dei girasoli.

Il primo contatto con la crudeltà della guerra era avvenuto il giorno che, tornando a Voroscilovgrad, aveva visto due soldati tedeschi, uno era morto e l'altro ferito gravemente. Per un incidente con la moto, si disse. Luigi li caricò e li portò a tutta velocità nel più vicino ospedale. Ma la guerra, la vera guerra, la vide il 25 Agosto del 1942. Era stato mandato in missione per consegnare munizioni ma arrivato nel luogo convenuto gli venne detto di proseguire verso la prima linea perché la divisione Sforzesca era da tre giorni sotto attacco e necessitavano rifornimenti. Luigi proseguì. Fu a quel punto che incontrò colonne di soldati dirigersi verso le retrovie: erano uomini distrutti, spezzati dalla guerra, alcuni avevano abbandonato le armi, le divise erano lacere. Quello spettacolo lo impressionò molto. Erano i giorni della cosiddetta "prima battaglia difensiva del Don", i russi avevano attaccato in forze per saggiare la consistenza delle difese italiane e quella divisione, composta per lo più da giovani inesperti, non aveva retto all'urto. Venne soprannominata "cikaj", che in lingua italiana significa "scappa". Quel nomignolo rimase come un marchio, una ferita, profonda, più profonda di quella di un'arma.

Ma oltre alla guerra, luigi aveva conosciuto anche l'ospitalità del popolo russo. Gli italiani erano ospiti graditi nelle case, spesso erano invitati a pranzo, le ragazze portavano il grammofono, si ascoltava musica e si ballava, oppure si stava seduti, a raccontare barzellette. 

Indelebile nel suo ricordo è il giorno 24 Giugno quando, dopo diciotto ore di viaggio percorsi a una media di 10 all'ora, l'autocolonna arrivò a Lumbj. Proprio nel momento del suo arrivo, duecentocinquanta tra partigiani, donne e bambini, erano stati giustiziati dai tedeschi: è una cosa che atterrisce il cuore a noi italiani, scriveva Luigi sul suo diario. E quel verbo "atterrire" porta dentro di sé un senso di sgomento che percorre inesorabile, oggi, ancora, le vie del cuore.

Davanti a Stalingrado il vento aveva veramente reso praticabile quel terreno insidioso e, al mattino, grazie a un pieno di benzina fornito dai tedeschi, la Fiat di Luigi poteva ripartire. Si tornava indietro, si lasciava quella di terra nessuno, il rumore degli aerei, le fiamme e, il buio. Si lasciava tutto questo. L'autocolonna che si era impantanata fu ritrovata nei pressi di Carpovka. Segnalata la posizione al comando germanico, le munizioni vennero scaricate nel corso di una giornata terribile per il vento freddo mentre continuava, incessante, il rumore degli aerei che andavano e venivano dalla città. Poi alla sera, giunto il momento del riposo, un'incursione aerea piombò sul reparto. Venne lanciato un razzo che illuminò il cielo a giorno, seguito da una bomba che tuttavia non provocò alcun danno alla colonna. Quella notte, Luigi non dormì, troppo alta era la tensione e la paura di non poter fare ritorno a casa. La mattina la colonna riprese il cammino e oltrepassò il Don, questa volta verso Ovest. Sulle strade vi erano molti morti. Fu un viaggio di ritorno travagliato. Mentre le sezioni del reparto rimanevano continuamente attardate per la cronica mancanza di benzina, la macchina guidata da Luigi arrivò a Voroscilovgrad dopo aver percorso oltre 600 chilometri. E poi c'erano i bambini, sempre, ovunque. Una fotografia mostra Luigi seduto accanto alla ruota anteriore della Fiat, al suo fianco un bambino desidera stargli vicino e si mette seduto, a gambe incrociate.

Da quel giorno iniziò una ritirata interminabile, si trattava di sfuggire all'accerchiamento russo, si trattava di tornare a casa. Il piano di Stalin e dei suoi due generali prevedeva ripetute manovre a tenaglia e ogni volta che gli italiani uscivano da un cerchio un altro, più grande, si stringeva su di loro. Una notte Luigi si svegliò, sentì degli spari in città e un freddo tale da aver la sensazione di non possedere più i piedi. Nella confusione più totale vide gli italiani sgombrare in fretta e mandare in malora un sacco di materiali che in altri tempi, sarebbero stati preziosi. Un giorno arrivò una brutta notizia, la strada che avrebbe dovuto essere percorsa era interrotta, un altro accerchiamento stava per chiudersi. Per uscire dall'ennesima sacca non rimaneva che una strada ancora aperta ma, all'intendenza, non c'era più benzina. Se non ci danno il rifornimento, qui ci rimaniamo tutti, pensò Luigi. Tutti. In serata, sotto le incursioni aree, la benzina fu finalmente trovata. La strada verso Mariupol è libera, ma bisogna far presto, presto, disse qualcuno. La carreggiata era però sconnessa e intasata da numerose colonne al punto che, per fare trenta chilometri, Luigi impiegò cinque ore. A mezzanotte venne raggiunto un anonimo villaggio. Di chilometri ne erano stati percorsi circa duecento e la stanchezza era tremenda. Dormirono per terra, su un po' di paglia. Fu un sonno inquieto, si riuscirà a passare? Il nuovo confine, quello tra la gioia della salvezza e la paura della prigionia, era ancora una volta un fiume, in questo caso il Dniepr. Furono momenti febbrili, una corsa contro il tempo. Avanti, sempre avanti, si ripeteva quando, dietro un costone, apparve all'improvviso un fiume e un ponte che, per la speranza che rappresentava, appariva bellissimo. In Italia non se ne erano mai visti così, pensò Luigi. Ma alla vista di quel ponte si sovrapponeva quella di un motociclista che si avvicinava, in una nuvola di polvere. Un italiano?Un russo? Lo guardarono come si guarda un fantasma, un fantasma che, però, parlava italiano: siete del 250esimo?, chiese. Sì, certo, certo, lo siamo. C'è della posta in arrivo per voi. Della posta? Da dove viene? Da dove viene, viene dall'Italia. Ormai, siete usciti dalla sacca. Prendete quella direzione, alla stazione di Kiev troverete un treno. Aspetta, solo, voi.

Agostino Roncallo, insegnante e scrittore, Stresa

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