La verità sullo spread che i politici non dicono

I politici nascondono la verità della situazione economica italiana

Si prenda l'andamento dello spread e il suo calo di questi giorni. Non esiste parte politica che non lo stia festeggiando, quasi fosse un risultato a lei ascrivibile. La recessione in arrivo sull’Eurozona sta schiacciando al prbasso da giorni tutti i rendimenti sovrani. Tutti. Compresi quelli dei nostri Btp (...) Chi sosteneva il Governo Draghi e avrebbe voluto che quell'esperienza proseguisse, come il Pd o Italia Viva, sottolinea come sia proprio la ferma determinazione con cui il Premier dimissionario sta spingendo sull'acceleratore degli affari correnti a operare da garanzia verso i mercati (...) Chi al Governo Draghi ha sempre fatto opposizione, sta utilizzando il calo del differenziale fra Btp e Bund come incoronazione de facto ed ex ante a palazzo Chigi, tanto che qualche simpaticone addirittura parla di Meloni spread (...) Se la Bce smettesse di comprare o rallentasse o diminuisse fermando le deroghe alla capital key, il nostro Paese sarebbe in rampa di lancio verso il Tpi. Il commento di Mauro Bottarelli su il Sussidiario.

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Quelle parole suggerite da una collega tedesca

La frase è di una sua collega tedesca, ma l’ha detta lei. E così Christine Lagarde ha vissuto la sua Caporetto. La presidente della Banca centrale europea ha ammaccato la sua credibilità ieri alle tre.

Doveva illustrare le misure che la Bce sta prendendo per sostenere i cittadini, le imprese e i governi nella guerra — economicamente tossica — a un virus subdolo. La frase che ha causato il peggior crollo di nel mercato dei titoli di Stato è ormai celebre: «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni».

Era l’opposto del «whatever it takes» del predecessore Mario Draghi, quell’impegno a fare «qualunque cosa» per contrastare le scommesse contro alcuni Paesi in vista della rottura dell’euro. Se ieri Lagarde ha sfilato quella pietra di volta dell’intera architettura con apparente noncuranza, è perché non erano parole sue. Era una frase di Isabel Schnabel, la tedesca nel comitato della Bce. Quand disponibili per l’Italia, siamo impegnati contro la frammentazione. Ci saremo, non deve esserci alcun dubbio l’aveva pronunciata Schnabel pochi se n’erano accorti. Lagarde si sarà sentita libera di ripeterla, senza capire che il suo peso è diverso. L’aspetto più rivelatorio di questa «gaffe» di Lagarde non è dunque l’apparente impreparazione, ma i punti di riferimento della francese. Ieri è iniziato a trasparire che oggi sono quelle dei tedeschi, soprattutto il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, le voci più influenti ai vertici della Bce. E non è difficile vedere come per la Germania — ma non solo — la profonda recessione inflitta dall’epidemia, con il balzo del debito pubblico che già s’intuisce, possono diventare il momento nel quale l’Italia deve chiedere un salvataggio al resto d’Europa. L’intenzione di Lagarde ieri non era avvicinare quel momento. Ma nel ripetere le parole di Schnabel, la francese ha lasciato capire quale Paese è il suo riferimento a Francoforte. Già prima che lei finisse di parlare, mentre lo spread di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Francia subiva sbalzi violenti, erano partite telefonate furenti da Roma. C’è stata anche una minaccia di sfiduciare la presidente, che aveva peggiorato le condizioni finanziarie di un Paese già aggredito dall’epidemia. Alla fine, poco prima delle 17, Lagarde ha letto alla Cnbc una completa retromarcia: «Siamo impegnati a evitare qualunque frammentazione dell’area euro. Gli spread più alti dovuti al coronavirus impediscono la nostra politica monetaria». Ma le Borse"e il mercato dei titoli di Stato hanno ignorato le rassicurazioni, come se il genio fosse ormai fuori dalla lampada. Per rimettercelo, la Bce dovrà mostrare presto non parole ma molto denaro in acquisto sui Paesi danneggiati: Italia, Spagna, Francia, Portogallo. Del resto non è stata la sola «gaffe» di giornata che ha lasciato vedere, ieri, la tela di fondo. Lagarde ha anche letto nella dichiarazione iniziale che l’aumento del «quantitative easing» — l’acquisto di titoli pubblici e privati di tutta l’area — sarebbe stato di cento miliardi fino a fine anno. In realtà il comunicato della stessa Bce parla di 120 miliardi: dunque interventi per 15 miliardi al mese, non dieci. Chiaramente Lagarde si era presentata in conferenza stampa con una versione vecchia dell’accordo. Aldilà del proprio pressappochismo, la presidente ha così rivelato che la Bce si era divisa fino a poco prima fra chi voleva aiutare di più e chi di meno le economie contagiate dal virus: è la frattura che attraversa oggi l’Europa.

Federico Fubini – Corriere della Sera – 13 marzo 2020

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Il vero nodo è il debito dello Stato

Oggi il Presidente del Consiglio riferirà in Parlamento sulla vicenda Mes, il fondo europeo salva-Stati costituito per prestare soldi ai paesi europei in caso di crisi. Qualche giorno fa, su queste colonne, ho espresso perplessità rispetto ad alcuni aspetti della riforma del Mes.
Ho, in particolare, sottolineato che quello che c'è scritto nel piano di riforma e, soprattutto, quello che non c'è scritto potrebbero aumentare il rischio di una crisi sul mercato dei titoli di stato italiani. Quello che c'è scritto, perché alcuni cambiamenti nel processo decisionale nella gestione delle crisi di debito pubblico renderebbe un po' più probabile la ristrutturazione del debito (cioè non ripagare interamente chi ha prestato soldi allo Stato), come condizione per accedere ai prestiti Mes. Quello che non c'è scritto, perché sarebbe stato utile chiarire che la ristrutturazione del debito pubblico, soprattutto per un paese dove il debito è prevalentemente interno come l'Italia, deve essere un'extrema ratio e non uno dei tanti strumenti disponibili per ridurre il debito.
Detto questo, il dibattito cui abbiamo assistito negli ultimi giorni rasenta l'assurdo. È assurdo che a gridare allo scandalo (Lega e Cinque Stelle) siano quelli che erano al governo quando l'Italia sottoscrisse l'accordo. Che facevano all'epoca? Si occupavano di minibot, del franco Cfa, dell'oro della Banca d'Italia o altre amenità del genere? È assurdo che chi per anni ha sostenuto che un paese in crisi non debba essere costretto a fare austerità per ripagare i creditori ora si inalberi per una riforma che condizionerebbe i prestiti del Mes proprio a non pagare i creditori. È assurdo che si gridi allo scandalo per una riforma che consentirebbe di usare i soldi del Mes per sostenere sistemi bancari in crisi, pensando che questa riforma sia volta a salvare le banche tedesche, quando la Germania ha un debito pubblico basso e non avrebbe certo bisogno di richiedere i prestiti del Mes potendo indebitarsi sui mercati a tassi negativi (cosa che invece non può fare l'Italia).
Ma forse la maggiore assurdità è quella di dimenticarsi che, indipendentemente da quello che verrà scritto nel trattato del Mes, dato lo stato dei conti pubblici italiani e il nostro comportamento negli ultimi anni in termini di gestione della finanza pubblica, corriamo davvero il rischio che un eventuale aiuto da parte dei nostri partner europei sia accompagnato da una richiesta di ristrutturare il debito. Ripeto: indipendentemente da quello che sta scritto nel Mes. Perché penso questo? E, soprattutto, come possiamo evitare il rischio di trovarci di fronte a una tale richiesta?
Lo penso perché temo che si sia diffusa a livello internazionale la convinzione che il debito pubblico italiano possa essere ridotto solo attraverso un forte taglio iniziale e non attraverso un graduale aggiustamento. Prima di continuare, a scanso di equivoci, premetto di non essere d'accordo con questa visione. Sarebbe un grave errore vedere nella ristrutturazione del debito la soluzione dei nostri problemi. Ma non importa quello che penso io. Importa quello che si pensa oltralpe seguendo una logica che, a dire il vero, trova un fondamento nel nostro comportamento passato. Abbiamo più volte dimostrato, in momenti di difficoltà dei nostri conti pubblici di saper reagire. Ma abbiamo anche più volte dimostrato di essere pronti a ricadere nelle vecchie abitudini non appena il pericolo sia passato. Gli esempi sono tanti. Fine degli anni '90: dopo la crisi del 1992, abbiamo portato l'avanzo primario (la differenza tra entrate dello stato e spesa pubblica al netto degli interessi, ossia le risorse disponibili per pagare gli interessi e potenzialmente ridurre il debito pubblico) al 4-5 per cento del Pil, un livello elevato. Entriamo nell'euro, i tassi di interesse sul debito scendono e ci illudiamo che il problema del debito sia sparito. Lo stato ricomincia a spendere con un aumento in pochi anni della spesa pubblica primaria di 3 punti percentuali di Pil e un calo dell'avanzo primario su valori vicini all'1 per cento del Pil. Il rapporto tra debito e Pil scende ma molto meno di quanto avviene in altri paesi euro (come il Belgio). Secondo esempio: crisi del 2011, lo spread sale a quasi 600 punti base, si fa una dolorosa manovra di aggiustamento e si mette in Costituzione l'obbligo di pareggio di bilancio (anche la Lega votò per 3 volte su quattro a favore dell'emendamento costituzionale, astenendosi alla quarta votazione). L'avanzo primario sale sopra al 2,3 per cento del Pil nel 2012 (era diventato negativo nel 2009-10). Ma quando lo spread cala, si fa marcia indietro: l'avanzo primario viene gradualmente ridotto e il rapporto tra debito e Pil si stabilizza ma non scende. E anche ora, dopo il calo dello spread rispetto a un anno fa, non si fa nulla per abbassare il debito pubblico. Anzi, nella legge di bilancio per il 2020, si prevede una seppur piccola riduzione dell'avanzo primario che raggiungerebbe (all'1,1%) il più basso livello dal 2009. Nel frattempo, in tutti questi anni abbiamo mandato a Bruxelles piani triennali in cui si fissavano obiettivi di graduale rafforzamento dell'avanzo primario e di riduzione di deficit e debito pubblico, piani sempre smentiti dai fatti. Difficile criticare chi, fuori dai nostri confini, dubiti nella nostra capacità di ridurre il debito gradualmente e si sia convinto che l'unica soluzione al problema del debito pubblico italiano sia un suo calo attraverso un'operazione straordinaria, la sua ristrutturazione.
Naturalmente niente di tutto questo è rilevante se pensate che il debito pubblico non sia un problema nostro e che gli altri paesi europei se ne dovrebbero far carico attraverso una condivisione del debito o finanziamenti a rubinetto da parte del Mes e della Bce. Oppure se pensate che potremmo fare come il Giappone, una volta usciti dell'euro. Beh, non siamo il Giappone (che poi così bene non sta visto che da un quarto di secolo ha uno dei tassi di crescita più bassi al mondo) e non credo possiamo sperare che gli altri paesi o le istituzioni dell'euro si accollino il nostro debito. Non resta allora che una soluzione per evitare richieste indesiderate. Mostrare che è possibile ridurre il nostro debito gradualmente, senza fare manovre troppo radicali di austerità ma attraverso aggiustamenti stabili nel tempo. Ci aiuteranno riforme che rilancino la crescita (meno burocrazia, meno tasse risparmiando sulle spese non prioritarie, meno evasione, una giustizia civile e servizi pubblici che funzionino). È poi necessario risparmiare le maggiori risorse prodotte dalla crescita fino a raggiungere il pareggio di bilancio (che, ripeto, sta ancora in Costituzione). Si può fare, si deve fare per convincere gli altri paesi europei che il debito italiano è sostenibile e non deve essere ristrutturato. Questa dovrebbe essere la nostra principale preoccupazione, non il Mes. —

Carlo Cottarelli – La Stampa – 2 dicembre 2019

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