Il bel paese nel pantano della fase 2

Spegniamo per un momento il televisore, stacchiamoci da Internet, dimentichiamo le statistiche del coronavirus – spesso imprecise e non omogenee tra loro – e proviamo ad allungare lo sguardo al di là delle Alpi. Che cosa troviamo? Scopriamo che Vienna ha riaperto il parco di Schoenbrunn dopo cinque settimane di "lockdown", mentre la gran parte dei parchi pubblici italiani è sbarrata e controllata con i droni. La Danimarca fa ripartire asili e scuole elementari, sulla stessa linea si muovono molte regioni tedesche. La Francia ha prolungato all'11 maggio il periodo di "lockdown" ma in quella data riaprirà anche la gran parte delle scuole; in Italia si dibatte se riaprirle a settembre. La Spagna – che ci ha superato nel numero dei contagi – ha riaperto i cantieri edili, in molti dei quali si lavora all'aperto, mentre in Italia sono largamente chiusi.
Parafrasando quanto ha detto il Presidente del Consiglio qualche giorno fa, si può affermare che, nella partita contro il coronavirus, l'Italia abbia giocato un primo tempo buono, forse persino esemplare.
Gli italiani si sono adeguati in maniera inaspettatamente disciplinata alla richiesta del governo di restare chiusi in casa, hanno riscoperto la "civiltà dei cortili", i legami di vicinato e smentito l'immagine di un individualismo esasperato; si sono accorti di poter disporre di un ottimo, spesso bistrattato, personale sanitario. E non solo.
Poi, quando tutti si felicitavano ed è cominciato il secondo tempo, l'Italia ha decisamente rallentato l'andatura; i computer dell'Inps si sono inceppati, sono emersi i litigi tra governo centrale e governi regionali, tra esecutivo e opposizione, sono comparse differenze non da poco all'interno della maggioranza. Siamo diventati il Paese dei ritardi nelle forniture di mascherine e delle schede con i dati di pazienti smarrite sui computer dell'amministrazione; abbiamo ottenuto ampie assicurazioni di sostegno a livello europeo e una parte del mondo politico non vuole accettare gli aiuti perché la loro "etichetta" è sbagliata. Accanto al medico eroico è comparsa la burocrazia indifferente.
Come altre volte nella nostra storia, ce la siamo cavata nell'emergenza e rischiamo di impantanarci nella normalità. In Italia si continua a pensare al contagio mentre in molti Paesi a noi vicini si pensa già al post-contagio. Ecco perché dobbiamo smettere per un momento di seguire spasmodicamente le cifre del giorno per giorno e cominciare a riflettere sui prossimi mesi e sui prossimi anni.
E qui, purtroppo, compaiono i limiti del Bel Paese, a cominciare dalla sua classe politica. La normalità da riconquistare è largamente intesa come un livello a cui ritornare e non come una pedana dalla quale saltare più in alto in un mondo competitivo; i prestiti alle imprese con garanzia dello Stato rischiano di venir considerati più come sussidi per restare in vita che come capitali per impostare un rilancio aziendale e che dovranno essere comunque restituiti come dovranno, dopo l'emergenza, ridursi il deficit e il debito pubblico. Di qui all'estate si gioca la partita del nostro futuro: non quello delle nostre vacanze e del campionato di calcio bensì quello del lavoro dei giovani e della loro qualità della vita, degli investimenti essenziali in infrastrutture, della ripartenza dello sviluppo. E si tratta di una partita che non possiamo permetterci di perdere.

Mario Deaglio - La Stampa – 17 aprile 2020

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Molti contagi, molto onore

  • Pubblicato in Esteri

Questo lunedì di Pasqua il Brasile si è svegliato con il Cristo redentore di Rio de Janeiro avvolto in un camice bianco, con tanto di stetoscopio appeso al collo. Un omaggio ai medici e agli operatori sanitari impegnati nella lotta al virus. Soltanto due giorni prima, sabato, il presidente Jair Bolsonaro si era presentato all’inaugurazione dell’ospedale da campo allestito per gestire l’emergenza pandemica ad Águas Lindas, nello stato del Goiás, senza mascherina e aveva creato un assembramento con i suoi sostenitori davanti all’entrata. Mentre il presidente stringeva le mani e abbracciava i fan a favore di camera, il ministero della Salute comunicava che i morti erano arrivati a quota 1.124, triplicati in una sola settimana. Un capo di stato che nega gli effetti devastanti ai quali può condurre la pandemia, e lo fa avendo alle spalle un ospedale con duecento posti di terapia intensiva pronti per l’arrivo di pazienti Covid-19, è il simbolo del paradosso a cui il Brasile è costretto ad assistere da due mesi. Il governo brasiliano è tra i pochi in America Latina a non avere ancora decretato una quarantena generale a livello nazionale, assieme alla sospensione di tutte le attività produttive non essenziali. “Chi non esce per paura del virus è un codardo”, ha ripetuto il presidente brasiliano ancora pochi giorni fa. Bolsonaro è l’ultimo dei sovranisti a perseverare nella linea che punta a minimizzare l’emergenza. Oggi è il presidente più negazionista al mondo. In una prima fase aveva potuto contare sulla compagnia di Donald Trump e di Boris Johnson, preoccupati entrambi dal rischio di un collasso economico, e Bolsonaro in conferenza stampa citava il suo omologo americano e ripeteva che: “La cura non può essere peggiore del male”. Oggi sia Johnson sia Trump hanno compreso la serietà della situazione e – allo stesso tempo – che nei sondaggi il tentativo di sedare presunti “allarmismi” si rivela controproducente. Non Bolsonaro, che in questi giorni è stato doppiato dal suo ministro della Salute Luiz Henrique Mandetta in quanto a consenso popolare. È Mandetta l’uomo della fermezza, lo sponsor del lockdown a livello nazionale, colui che segue pedissequamente le prescrizioni dell’Oms e che davanti alle telecamere indossa la mascherina e rispetta il metro di distanza. E’ anche il volto dei discorsi alla nazione in diretta televisiva per aggiornare i cittadini brasiliani sulla curva pandemica. Le politiche del ministro della Salute, secondo i sondaggi, avrebbero l’approvazione del 76 per cento dei cittadini. Con l’arrivo della pandemia Bolsonaro ha visto sgonfiarsi il sostegno dei media e quello popolare. Nelle grandi città – e nello stesso quartiere che ospita Palácio do Planalto, il palazzo presidenziale a Brasilia – i cittadini hanno accolto le sue uscite infelici (“quella che stiamo vivendo è come un’influenza stagionale, non ha senso chiudere tutto”), con grandi sbattimenti di pentole fuori dalla finestra in segno di protesta. A livello istituzionale Bolsonaro si ritrova isolato. Ha tutti contro, a cominciare dai suoi ministri, e il già menzionato Mandetta, alla Sanità, si è trasformato nel suo principale avversario politico. L’esercito nazionale, lo stesso da cui Bolsonaro proviene, vorrebbe commissariarlo e – secondo alcuni rumors – persino sostituirlo. Sia l’Areonautica sia le Forze armate si sono rivolte direttamente al vicepresidente Hamilton Mourão, un generale. E hanno organizzato riunioni speciali in cui vagliare la sussistenza di presupposti giuridici per disarcionarlo, almeno stando a quanto alcuni dei partecipanti hanno raccontato al quotidiano spagnolo El País e al giornalista argentino Horacio Verbitsky. I primi giorni di aprile, su “Defesanet” – la principale agenzia di stampa sulla sicurezza del Brasile – era addirittura comparsa la notizia che il generale Walter Souza Braga Netto fosse stato nominato “presidente operativo” della Repubblica brasiliana. Secondo l’agenzia, al generale Netto sarebbe spettata la direzione del governo sino a quando non si fosse esaurita completamente l’emergenza coronavirus. Sempre secondo l’agenzia , “la nuova missione informale” era il frutto di un accordo tra vertici militari, ministri del governo Bolsonaro e lo stesso presidente. Di questo accordo non c’è stata alcuna conferma ufficiale, ma la notizia continua a girare su giornali e siti di informazione locali. L’approccio messianico del presidente ha insomma preoccupato un po’ tutti, tranne uno dei partiti più forti della nazione. Quello degli evangelici, radicati soprattutto nelle periferie e nelle favelas, che hanno continuato finché è stato possibile a celebrare i loro riti. Insistono su un punto, lo strumento più efficace per evitare una piaga sarebbe quello di pregare tutti insieme per tenere lontano Satana. Un invito agli assembramenti veicolato ai credenti, alle loro famiglie e alle loro reti di amici e colleghi soprattutto via gruppi Whatsapp, lo strumento con cui avevano contribuito in modo rilevante alla campagna elettorale di Bolsonaro e alla sua vittoria. Il presidente li ha ricompensati con un decreto che ripristinava il diritto a riunirsi per le celebrazioni religiose, a prescindere dalle ordinanze di lockdown predisposte dai governatori locali. Un decreto subito dichiarato inammissibile dal Tribunale supremo. È infatti il sistema costituzionale brasiliano l’argine più forte ai propositi di riapertura del presidente, Il presidente accusa di codardia “chi non esce”, ma il ministro della Sanità che vuole il lockdown lo ha doppiato nei consensi. Con il Bolsonaro messianico restano gli evangelici delle periferie e delle favelas, che vivono attaccati ai loro gruppi Whatsapp e il forte federalismo che lo contraddistingue. Lo scontro tra potere centrale e governatori locali su quali misure adottare anche in Brasile non si è fatto attendere. Questo perché tra i governatori – a qualsiasi partito essi appartengano – nessuno sta seguendo la linea Bolsonaro. Il più preoccupato è il social-democratico João Dória, governatore dello stato di San Paolo, che con i suoi quarantacinque milioni di abitanti è l’epicentro della pandemia, dove la curva è più veloce e dove il numero di contagiati raddoppia ogni quattro giorni. A San Paolo la scorsa settimana hanno manifestato in strada gruppi di sostenitori di Bolsonaro, ovviamente senza indossare le mascherine e senza rispettare le prescrizioni sul distanziamento imposte da Dória, di cui chiedono le dimissioni insieme alla immediata riapertura dei negozi. Per fortuna, il presidente della Repubblica non può pretendere la riapertura degli esercizi commerciali che hanno chiuso per disposizione dei singoli stati. Un lockdown “leggero” – estimatori di Bolsonaro permettendo – rimane quindi garantito. “Leggero” perché, ad esempio, è possibile spostarsi da un comune all’altro senza essere sanzionati. E’ un rischio che teme più di chiunque altro Wilson Lima, governatore dello stato di Amazonas. Nella regione che amministra le strutture sanitarie non sono numerose, e il novanta per cento dei letti è già occupato da pazienti Covid-19. Le popolazioni indigene che abitano vaste porzioni di quel territorio sono già più a rischio per quanto riguarda le normali patologie, sarebbe vitale evitare che chi proviene da altre regioni le contagi. Lo stato di Amazonas è al tredicesimo posto per numero di abitanti, ma oggi è al quarto posto nella classifica degli stati con il maggior numero di pazienti Covid-19. “La nostra è davvero una corsa contro il tempo”, è l’allarme che ha lanciato il governatore Lima.

Cecilia Sala – Il Foglio – 15 aprile 2020

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Evitare l'infezione economica_6

L’Europa non può più procedere a piccoli passi

Di fronte a questa crisi, va innanzitutto riscoperto Rudi Dornbusch. "Il grande economista tedesco diceva sempre che il mondo è pieno di persone che propongono soluzioni facili, quasi sempre sbagliate". E dunque, suggerisce Francesco Giavazzi, "diffidiamo di chi ci dice che per crescere e innovare basti lo stato. Diffidare, quindi, dei libri della professoressa Mazzucato". E però, ci dice l'economista e analista sociale, "dobbiamo anche rimettere in discussione alcune delle nostre convinzioni. Sia sulla globalizzazione, che va obiettivamente regolata meglio, come capiamo, ad esempio, guardando i canali di Venezia di nuovo pieni di pesci e capendo che quel luogo è unico al mondo e rischiavamo di distruggerlo per sempre. Sia sulla disuguaglianza, tema sempre lasciato nel sottofondo del dibattito pubblico e che va invece considerato centrale, ora: perché una società divisa tra grandi masse ai limiti della sopravvivenza e un piccolo gruppo di super-ricchi, è evidentemente una società che non funziona. Altre nostre convinzioni, invece, usciranno rafforzate. Continuo a credere ad esempio che ciascun paese deve fare le cose su cui ha un vantaggio comparato: non ha senso, per dirne una, dover importare dal Venezuela, portandolo fino a Taranto, il minerale necessario per la produzione dell'acciaio in Italia".

E poi c'è l'Europa, che per Giavazzi "è arrivata al punto di non ritorno. La costruzione dell'Unione è andata avanti, sin dalla sua fondazione, per piccoli passi. Ma ogni tanto ci sono state delle scelte coraggiose che hanno permesso di saltare gli ostacoli: la creazione della Comunità economia nel 1956, l'introduzione del Sistema monetario europeo nel 1978 dopo la crisi di Bretton Woods, e la moneta unica nel 1992. Ora dobbiamo saltare un nuovo ostacolo, perché per piccoli passi non si può più procedere. E dunque, se non vogliamo far saltare per aria l'euro, l'unione monetaria va completata. Per farlo, serve che l'Europa emetta in qualche modo un titolo europeo, garantito da tutti i paesi dell'Eurozona. Ci sono molti buoni motivi per farlo, ma oggi ce n'è uno imprescindibile: il finanziamento delle spese per fronteggiare l'emergenza del Covid-19. Mario Draghi ci ha ricordato del resto che le guerre si finanziano a debito: e nessun paese europeo, neppure la Germania, sarà in grado di reggere al crollo del pil di 10 o 20 punti". Francesco Giavazzi, economista

Siamo arrivati al momento più difficile nudi e senza alcuna arma in mano

Nicola Rossi parte da un numero. “Centocinquanta miliardi. Sono quelli stanziati – ci dice l’economista, già parlamentare del centrosinistra e presidente dell’Istituto Bruno Leoni – a sostegno delle imprese (piccole, medie e grandi) nel momento in cui il coronavirus impazza. Oltre a questo, 400 miliardi di maggiori garanzie sui crediti alle imprese”. Non parla dell’Italia. “Questo massiccio programma di intervento a sostegno dell’attività economica – precisa Rossi – accade in Germania. Ed è stato presentato dai media italiani come l’abbandono, finalmente, da parte della Germania della disciplina fiscale e del pareggio di bilancio. Uno straordinario travisamento della realtà. Perché la realtà dei fatti è che la Germania oggi può permettersi un intervento di queste dimensioni e in questi tempi esattamente perché ha tenuto per anni una disciplina fiscale puntuale ed ha rispettato alla virgola il pareggio di bilancio creando così lo spazio per un intervento fiscale che oggi si dimostra essere assolutamente necessario. E, notate bene, nel momento in cui il Parlamento tedesco voterà questo programma di sostegno dell’economia non lo farà, per così dire, gratis. Il governo dovrà presentare un piano di ammortamento che indicherà le modalità con cui il governo federale intende rientrare dal maggior debito nel giro di un paio di decenni in maniera da ricreare nuovamente lo spazio fiscale perché una pandemia può sempre arrivare. Tutto questo nel caso italiano non vale, purtroppo. La disciplina fiscale noi non l’abbiamo seguita. Il pareggio di bilancio l’abbiamo, nel 2011, scritto in Costituzione in maniera da poterlo non rispettare e infatti non lo abbiamo mai rispettato. Conclusione: lo spazio fiscale che sarebbe necessario per contrastare la crisi oggi semplicemente non c’è. Abbiamo lasciato che il debito pubblico arrivasse al 135 per cento del prodotto. Avanzi di bilancio non sappiamo cosa sono. Nicola Rossi, economista, presidente del Centro Studi Bruno Leoni

Non c’è un minuto da perdere, né un euro da sprecare

“Il lockdown serve a rallentare l’epidemia di Covid-19”, riconosce Carlo Stagnaro, fellow dell’Istituto Bruno Leoni. “La chiusura, però, non è una soluzione: è un costoso espediente. Se non cominciamo da subito a disegnare una strategia per il graduale ritorno alla normalità, i sacrifici di queste settimane saranno stati, almeno in parte, vani”. “Le caratteristiche del coronavirus – prosegue Stagnaro – sono ancora in gran parte sconosciute. Ci sono, però, alcune cose che sappiamo e che ci forniscono preziose indicazioni: su queste stiamo ragionando all’interno di un gruppo di lavoro interdisciplinare coordinato da Michele Boldrin. Intanto, sappiamo che, prima di avere un vaccino o anche solo una cura, serviranno mesi, forse anni. Quindi dobbiamo attrezzarci a convivere col virus, prima di poterlo debellare. Secondariamente, dobbiamo prendere contezza della vera estensione del fenomeno (ancora perlopiù ignota): servono dati, dati, dati, e tamponi, tamponi, tamponi. Sappiamo che Covid-19 tende a essere particolarmente aggressivo verso alcuni gruppi sociali (anziani, immunodepressi) e meno rischioso per altri (coloro che hanno meno di 60 anni, le donne). Appare dunque necessario immaginare che siano questi ultimi a tornare per primi alle loro attività. In terzo luogo, sappiamo che – per tutto il tempo necessario – serviranno adeguate misure di distanziamento sociale. Occorre pertanto ripensare molti aspetti della nostra esistenza: dalle catene logistica (il cui mantenimento è oggi la massima priorità economica) al sistema dei trasporti, dalla centralità dei servizi digitali (su tutti, il food delivery) alla sicurezza sul lavoro. Per individuare i giusti protocolli e i progressivi gradi di apertura bisogna coinvolgere – anche a livello istituzionale – una pluralità di competenze e tutte le parti sociali”. Infine, lo Stato. A giudizio di Stagnaro, “gioca un ruolo essenziale nel garantire da un lato l’efficacia del sistema sanitario, dall’altro quelle misure economiche che sono indispensabili per evitare il collasso di imprese e lavoratori. Dobbiamo fare tutto questo nel contesto di un paese che, per l’insufficiente coraggio riformista degli ultimi vent’anni, ha un’economia imballata e finanze pubbliche precarie. Possiamo farcela se prendiamo atto che non c’è un minuto da perdere né un euro da sprecare”. Carlo Stagnaro direttore Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni

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