Da destra a sinistra tutti evocano Draghi per guidare l’Italia finita l’emergenza

Ieri sera, dopo l’audizione del ministro Gualtieri in Parlamento, fonti autorevoli del Pd spiegavano che le ipotesi filtrate dall’economia — e che pronosticano un crollo del Pil per il 2020 tra il 5 e il 7% — fossero da ritenersi «ottimistiche»: «Bisognerà prepararsi a una manovra choc, che non si potrà fare senza un patto nazionale». È ormai evidente che nei prossimi mesi l’italia si ritroverà — per usare le parole di Mattarella — nelle stesse condizioni in cui si trovò al termine della Seconda guerra mondiale: perciò — ha detto il capo dello Stato — serve «la stessa unità di allora». «E allora — ha chiosato uno dei maggiori esponenti grillini — tutti i partiti parteciparono al governo di ricostruzione...». Ecco il punto, che è oggetto di discussioni riservate nelle forze di maggioranza: per quanto tempo ancora si potrà chiedere all’opposizione di aderire al principio di «unità nazionale», senza immaginare una loro partecipazione al governo? È una domanda che Di Maio si è posto durante una riunione del Movimento e che per certi versi ha trovato risposta indiretta nella dichiarazione di Franceschini. Se è vero, come ha sostenuto il ministro della Cultura, che «oggi è in campo la Nazionale», allora tutti devono giocare. Il problema sarà da risolvere per tempo, entro l’estate, appena superata l’emergenza sanitaria. Nel Pd già si confrontano linee diverse, e ieri Bettini — per difendere Conte — ha tentato di proporre come soluzione «un tavolo permanente» tra partiti di maggioranza e opposizione. Ma a lungo andare il processo di osmosi politica prefigurerebbe comunque uno scenario che dall’«unità nazionale» porterebbe al «governo di unità nazionale». Non ci sono altre opzioni, persino la strada (teorica) del voto è sbarrata: tra il referendum per il taglio dei parlamentari, l’obbligo di adeguare i collegi e la necessità di varare una nuova legge elettorale, si arriverebbe di fatto al «semestre bianco» della presidenza della Repubblica, quando sarebbe impossibile sciogliere le Camere. Difficilmente il quadro politico potrebbe reggere così, fino al 2022, in piena emergenza. Ché poi è la tesi dell’altro pezzo del Pd, molto simile all’analisi formulata giorni fa dal leghista Giorgetti: «Il sistema finanziario mondiale era in bolla già prima della pandemia. E il Covid-19 ha fatto esplodere la bolla. Ora, per fronteggiare la crisi, il debito italiano salirà fino al 140-160% di rapporto con il Pil. E dovremo trattare con i mercati e con l’Europa per non affondare. Con tutto il rispetto, mi chiedo: è possibile che questo governo possa affrontare la più grave crisi del dopoguerra? Conoscete la mia risposta». E si conosce anche il nome. Lo stesso che evoca Salvini quando propone «il meglio alla guida del Paese in questa fase delicata». Quello che per primo spese Renzi quando ancora era in piedi il governo giallo-verde. È Draghi che citano esponenti di rilievo del Pd, appena ricordano come il loro sia «il partito della responsabilità nazionale». Su Draghi a Palazzo Chigi «non sbaglio se penso che Berlusconi, e insieme a lui Gianni Letta, sarebbero favorevolissimi», dice Casini, che pure conosce le perplessità dell’ex presidente della Bce: «Ma se si venisse chiamati a servire la Patria in certi frangenti, sarebbe difficile sottrarsi». E il «richiamo alla Patria», non lascia insensibili nemmeno importanti dirigenti di FDI, certi che la Meloni «saprebbe cosa fare» semmai si arrivasse a un simile epilogo. Certo, ci sarebbe da sciogliere il nodo della formula politica di un governo che sarebbe chiamato a gestire la crisi economica, mentre al Parlamento toccherebbe riformare le regole. Ma intanto vanno costruite le condizioni per favorire il disegno, e non dev’essere un caso se ieri il capogruppo del Pd Delrio ha voluto alimentare «il dialogo con le opposizioni, che deve andare avanti». Al cospetto di chi lo invoca, Draghi ha il profilo giusto e nessuna controindicazione politica: finito il suo mandato non sarebbe un competitor dei partiti, perché — come dice un rappresentante dem — «la sua destinazione sarebbe il Quirinale». Il segnale Franceschini e l’ipotesi di coinvolgere il centrodestra: oggi è in campo la Nazionale. Lo scenario Giorgetti: è possibile che questo governo affronti la più grave crisi del dopoguerra?

Francesco Verderami – Corriere della Sera- 25 marzo 2020

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Un uomo solo al comando, non funziona

Matteo Renzi non è un premier come tutti gli altri. Presenzialista come Silvio Berlusconi. Grande comunicatore più efficace dell'ex Cav. è assai probabile che riesca nell'intento di portare la barcaccia dell'Italia fuori dalle secche della crisi che è si è appalesata di dimensioni spaventose. Tant’è che ci hanno provato in tanti (Berlusconi, Monti, Enrico Letta) e non sono riusciti a trovare il bandolo della matassa. Nessuno prima di lui si è trovato a guidare un Paese in profonda recessione da oltre 6 anni. Berlusconi ha condotto l'Italia nella bufera della crisi, spargendo ottimismo a piene mani giusto quando erano più che evidenti i segnali di un'economia mondiale che stava per collassare. Ha cercato di vestire vanamente i panni dell’uomo di Stato, con risultati catastrofici. Al vertice di Cannes del 2011 ha suscitato i risolini della Merkel e di Sarkozy, con lo spread che, all'improvviso, ha saltato lo steccato dei 500 punti base, balzando a livelli record. Nell'estate di tre anni e mezzo fa gli italiani hanno tremato. Con il differenziale dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che ha sfiorato quota 600 punti sui bund tedeschi, chi aveva nel cassetto bot o cct nostrani, se la stava letteralmente facendo addosso. Come, molti gridavano, si era sempre sostenuto che prestare soldi al Tesoro italiano era un'operazione di tutta tranquillità (si raccontava che gli Stati non possono fallire!) e invece pensionati e lavoratori a reddito fisso (ma anche piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e professionisti) all'improvviso hanno constatato che i loro risparmi rischiavano di volatilizzarsi come neve al sole! Ecco il motivo per cui Silvio Berlusconi è stato cacciato a calcioni da Palazzo Chigi. Le sue ricette erano sterili, producevano risultati all'incontrario. A novembre è stato il turno dei professori della Bocconi. Grandi speranze ed aspettative, lacrime di Elsa Fornero, lacrime e sangue per lavoratori e pensionati. Mario Monti la sua pagnotta se l'è portata a Varese, la sua città: nomina a senatore a vita. Il debito pubblico, pur con gli enormi sacrifici imposti agli italiani, ha continuato la sua marcia inarrestabile. Successivamente si sono svolte le elezioni anticipate (mai fidarsi dei berlusconiani e dell'ex Cav....) perché il Pdl (che aveva a cuore le sorti del Belpaese…) non sopportava più di dover sostenere un esecutivo che mai aveva digerito e decideva di togliere inopinatamente la fiducia a Monti. Il quale, anziché defilarsi dalla lotta politica, per cui non sembrava davvero tagliato, fondava un suo partito, Scelta Civica. Le elezioni del febbraio del 2013 sono andate come sono andate. Pari e patta tra partito democratico, Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e partito della libertà a guida Silvio Berlusconi. Nessun governo per alcuni mesi, poi l'incarico ad Enrico Letta, dopo il fallimento nella costituzione di un nuovo esecutivo di Bersani. Anche il nipote di Gianni Letta ha fatto flop. Un governo improvvisato, cosiddetto delle larghe intese non ha potuto far nulla per migliorare la situazione. Fibrillazioni a tutto campo. L'unità nazionale (pur a termine) non si poteva realizzare con uomini politici di destra che scalciavano ad ogni proposta di riorganizzazione dello Stato partorita dal premier Enrico Letta, nipote di Gianni Letta, fiduciario del “mago” di Arcore. I risultati si sono visti ben presto, con il disarcionamento dall'esecutivo da parte dei filoberlusconiani più ortodossi e con i separatisti guidati da Alfano che sono rimasti attaccati alle loro poltrone ministeriali. Pochi mesi dopo, la vittoria di Matteo Renzi alle primarie del partito democratico e la cacciata del sodale Letta da Palazzo Chigi. Con un colpo basso dell’ex sindaco di Firenze, e con l’assenso di un presidente della Repubblica sempre più stanco, il Palazzo d’Inverno italiano è stato assaltato dalle orde renziane e sarà ben difficile disarcionarlo. Non tanto per meriti suoi acquisiti sul campo, bensì per demeriti di tutte le opposizioni, sia quella all’interno del Pd, sia di tutte le altre. Renzi può stare a lungo a Palazzo Chigi per l’inconsistenza dei potenziali competitori: nulla potrà il segretario della Lega Nord Matteo Salvini (anche se è indiscutibile il suo appeal sulle popolazioni ex forza italiota e simpatizzanti del Carroccio; nulla potrà il M5S che non è riuscito ad aprire la scatola di sardine dei Palazzi romani, nonostante tutta la loro buona volontà; Forza Italia è divisa, divisissima; il Pd nelle persone dei Bersani, dei Cuperlo, dei Fassina e dei Civati non sono riusciti a fare proposte meritevoli di seguito in un elettorato frastornato e sempre più disamorato. Il premier ha utilizzato con una disinvoltura che è pari ala sua pugnalata alle spalle di Enrico Letta del gennaio 2014, il voto di fiducia, incastrando tutti i suoi oppositori nel Pd. A mio avviso il voto di fiducia non deve essere abusato. Con il voto di fiducia decadono gli emendamenti migliorativi di un provvedimento e può scaturirne una legge porcata e, come tale, inaccettabile. Potenzialmente il maggior partito nostrano è quello del non voto, dell’astensionismo, non certo quello che guarda a Renzi. Il quale sta cercando di fare delle riforme ma a tutt’oggi il suo percorso non ha prodotto risultati apprezzabili. La sua forza è la debolezza di tutti gli altri competitori. Il buon Matteo, però, deve dar prova di sé in questo 2015. E l’economia non riparte, il suo Jobs act, le sue riforme rimarranno sulla carta, perché troverà qualcuno (Beppe Grillo con il suo M5S?) che lo disarcionerà. E al 2018 a Palazzo Chigi ci sarà qualcun altro. Questo è certo.

Marco Ilapi

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