Crollo del Pd, rinascita del mago di Arcore

Matteo Renzi ha realizzato un vero e proprio capolavoro. E’ riuscito nell’impresa titanica di far resuscitare un uomo politico che è stato defenestrato in malo modo dal Parlamento: Quest’uomo è Silvio Berlusconi. Non pago di questo suo “straordinario” successo, ha addirittura ridimensionato le chance elettorali del partito che è stato chiamato a guidare. Con l’avvento del ragazzo fiorentino alla segreteria, nel dicembre del 2013, è riuscito anche a ridimensionare il pacchetto di consensi elettorali dei demokrat che gli aveva consegnato il predecessore Pierluigi Bersani, tant’è che da più parti si teme che da primo partito che era nel 2013, passi ad essere il terzo, dopo il raggruppamento destrorso formato dal trio Berlusconi-Salvini-Meloni ed il M5S guidato da Luigi Di Maio. Non c’è che dire. Un vero disastro. In un altro periodo storico Renzi sarebbe stato cacciato dalla segreteria a furor di popolo rosso. Oggi non si usa più. Per converso non è che al centrodestra siano tutte rose e fiori. Ogni giorno che passa non la smettono di litigare. Chi la vuole in un modo, chi la pensa in maniera del tutto opposto. Si pesi al contrasto sul problema dell’immigrazione, il punto forse di maggior frizione tra i leader forza italiota e leghista. Per non fare cenno ai rapporti con la Commissione Europea, che ormai detta le massime regole di comportamento ai diversi governi con obbligo di legiferare di conseguenza, pena sanzioni che fanno sgorgare il sangue dalle vene italiche. Berlusconi resta favorevole a questo modello di Europa assai poco federale, dove dettano legge i rigoristi riuniti intorno a Frau Merkel, un’Europa che si è dimostrata assolutamente incapace di affrontare i nodi di una crisi economica violenta che ha condotto l’Italia, ma non solo, anche la Grecia, in una recessione da cui stentiamo ad uscire con le nostre sole forze. Forse qualcosina potrebbe mutare con l’avvento del nuovo governo tedesco, perché il ministro dell’economia non sarà più il guardiano dell’austerità ad ogni costo Wolfgang Schäuble,dell’Unione Cristiano Dmocratica, severo censore dei conti italiani (e greci), ma il socialdemocratico Olaf Scholz, che fu braccio destro del centrista Gerhard Schröder ai tempi dell'«Agenda 2010» che rilanciò la Germania. Si spera che faccia altrettanto per il bene di un’Europa federale e non più a trazione germanica. Matteo Salvini ha idee molto diverse sul rapporto che deve intercorrere tra lo Stato-nazione e l’Ue, e così Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. Una volta che vinceranno le elezioni, prospettiva assai probabile, i temi sul tappeto saranno gli stessi di oggi. Alto, altissimo debito pubblico (il rapporto debito/Pil deve scendere sotto al linea Maginot del 60%, non una bazzecola per l’Italia state che oggi si stabilizzata sul 132%!), linea del deficit tendente allo zero (lo vuole l’Europa), spending review da rimettere in moto (non so più quanti governi hanno affrontato il problema e nessuno ha dimostrato di poter incidere). E, infine, c’è il problema dell’ondata migratoria che non si ferma. Che fare? Nessuno sembra avere la ricetta giusta per riportare il Paese nel gruppo-guida di questa scalcagnata Unione Europea, dove a dirigere l’orchestra è un uomo che ha governato il Lussemburgo, forte della sua popolazione di nemmeno 600 mila abitanti. Tra le altre considerazioni, un paradiso fiscale nel cuore del’Europa. E nessuno sembra scandalizzarsi. Nel 2014 l’allora presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, avrebbe potuto e dovuto pretendere un atteggiamento di maggiore apertura da parte della Germania e dei Paesi nordici verso i problemi del Belpaese, proponendo la mutualizzazione del nostro gigantesco debito pubblico fissando l’asticella per la costruzione di un’Europa davvero federale sul modello degli Stati Uniti d’America. Aver mandato la Mogherini ad occupare il posto di rappresentante europeo per la politica estera europea non è stata una manovra che ha dato i frutti sperati. Sì, perché la politica estera della Ue non la fa la Mogherini ma i singoli Paesi membri. E Renzi lo avrebbe dovuto sapere. In patria il nostro ha rovinato il Pd, circondandosi di collaboratori accondiscendenti e regalando Palazzo Chigi al centrodestra, Anche Silvio Berlusconi ha combinato sciocchezze inenarrabili, sbattendo fuori dal suo entourage prima Follini, poi Casini, poi Fini, poi Fitto, poi Verdini e il prode Alfano. Per rientrare in partita grazie al Patto del Nazareno e gli incommensurabili errori del segretario Pd Matteo Renzi. Il quale ultimo ha sbattuto fuori dal suo partito Civati, Bersani  e C. per tenersi stretti ex berlusconiani come Verdini e Lorenzin. Della serie, la coerenza non è di questo mondo. Da riflettere, infine, sul triste fatto che a decidere il futuro governo non saranno gli elettori (i quali avranno serie difficoltà di scelta del candidato, non essendo previsto con il Rosatellum il voto disgiunto) ma Sergio Mattarella. Come prima di lui a prendere questa ardua decisione è stato il suo predecessore al Quirinale Giorgio Napolitano. Non c’è male per essere l’Italia un Paese democratico. Ma forse un tempo lontano  lo  stato e non lo è più. Inevitabili nuove elezioni a breve Sempre che il popolo lo richieda. Di questo ho i miei forti dubbi. Visto quel che nel passato recente è accaduto. Napolitano docet. Speriamo che Mattarella non lo segua su questa strada. Secondo alcuni attenti osservatori il Partito democratico rischia di non superare quota 20 %, una soglia disastrosa che metterebbe veramente a rischio la segreteria renziana. Con un risultato addirittura inferiore a quello raggiunto dal Pd di Bersani 5 anni fa. In quell’anno i democratici raggiunsero il  25 %. Sarebbe un risultato così basso per il Pd che darebbe il via alla sempre più probabile riconquista di Palazzo Chigi da parte di un centrodestra tonificato dalle fragilità del progetto di Matteo Renzi e del suo gruppo dirigente. Insomma, ujn fallimento su tutta la linea. Il  40,8 % delle europee di 5 anni fa un nostalgico ricordo.

Marco Ilapi, 12 febbraio 2018

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Referendum, l’esito non premia il…premier! Renzi a casa

Matteo se l’è cercata. Altro non si può dire. Eppure lo avevano avvertito di non personalizzare il referendum. Lui niente. Un osso duro. Di comprendonio. Maria Elena Boschi e tutta la sua squadra di governo lo ha seguito in questa avventura che lo ha visto soccombere. Come un pivellino. Ha voluto. battagliare. Ha perso la battaglia . Anche se non la guerra. E’ tuttora segretario del maggior partito italiano e ha tante cartucce da sparare. Ma perché dileggiare i professoroni, alcuni ex presidenti della Corte Costituzionale. Che di Costituzione qualcosa capiscono. Renzi, Verdini e gli altri loro sodali sicuramente hanno ancora molto da imparare da Ugo De Siervo, Gustavo Zagrebeslky, Francesco Paolo Casavola, Valerio Onida,  Antonio Baldassarre, Annibale Marini, Lorenza Carlassare, Enzo Cheli, Franco Gallo e altri. Dei giovanotti senza alcuna esperienza politica né giuridica si sono approntati a preparare una riforma di ben 47 articoli della carta costituzionale pretendendo che il popolo accettasse in toto i loro predicozzi sulla Costituzione da rivoltare come un calzino perché da 70 anni ci avevano provato in tanti senza riuscirvi. Matteo Renzi e il suo governicchio ci avevano messo la faccia. Nessuno dei componenti dell’esecutivo, neanche il vecchio Padoan, ha ritenuto di suggerire a questa banda di ragazzi inesperti che forse una modifica della carta costituzionale si sarebbe potuta prospettare solamente avendo l’appoggio, il consenso di una larga maggioranza del parlamento. Cosa che non c’era fin dall’inizio del dibattito sulle riforme costituzionali. Hai voglia di urlare al vento (ai cittadini italiani) che le modifiche erano indispensabili per contare su un Paese che decide in fretta, che non ama le pastoie burocratiche, gli intralci, le trappole e quant’altro. Va bene pensare a delle modifiche, ma queste non le può imporre l’Esecutivo. Quando si discute di modifiche alla Carta fondamentale il governo deve abbandonare i suoi scranni, sosteneva il buon Piero Calamandrei,  per non influenzare il dibattito. Così non è stato,  Queste riforme non le può pretendere un vecchio e logoro presidente della Repubblica che non era più in grado di suggerire che cosa fare, come farlo e quando farlo.  Nell’anno di grazia 2014 era già stanco. Molto stanco. Chissà chi gli ha scritto il discorso letto in parlamento all’atto dell’accettazione del suo secondo mandato presidenziale. E poi la nomina del collegio dei saggi! Ridicolo. La scelta più ragionevole ed intelligente sarebbe dovuta essere quella di eleggere con il sistema rigorosamente proporzionale un’assemblea costituente, come quella del 1946. Composta dalle migliori menti d’Italia. Avrebbe partorito una Carta migliore di quella frettolosamente messa in piedi da Renzi-Verdini-Boschi. L’esito referendario non lascia dubbi di sorta. Il premier è stato sconfitto su tutta la linea. Il risultato elettorale è incontestabile. Matteo Renzi e la sua squadra debbono riflettere con giudizio e senza animosità nei confronti dei loro tanti avversari. Che non sono un’accozzaglia e, perciò stesso, incapace di indicare il raggio d’azione di un improbabile esecutivo alternativo. E’  certo che non si può parlare di imminente elezioni politiche anticipate. Che ci stanno a fare il M5S con Forza Italia e la Lega Nord insieme alla minoranza Pd? Tutti questi hanno votato No a Renzi. Ma dopo? Il problema è tutto di Sergio Mattarella. Che avrà l’onere di districare il bandolo della matassa. Non sarà impresa semplice. Il danno è ormai fatto. Il Paese adesso è in balìa della speculazione internazionale. A mio avviso l’unica personalità in grado di tenere fuori dalla tempesta finanziaria è Pier Carlo Padoan. Che ha credibilità a livello europeo e le sue parole troveranno ascolto a Bruxelles e Berlino. D’altronde non si può che ritenere che il piano di riforme, bruscamente interrotto da questo choc elettorale, debba essere prontamente ripreso su basi più solide, coinvolgendo tutte le forze politiche. M5S compreso. La legge elettorale va approntata al più presto tenendo conto delle forze in campo.  La Consulta si esprimerà sulla costituzionalità dell’Italicum e immediatamente dopo occorrerà per Renzi-Alfano-Verdini-De Luca, passando per Napolitano, metabolizzare la dèbacle, ma il problema si pone anche per i vincitori Bersani-D’Alema-M5S-Salvini dell’eterogeneo  fronte del No. Chi vivrà, vedrà, dice un vecchio saggio. Il cerino acceso passa ora nelle mani del presidente della repubblica Sergio Mattarella. Il quale dovrà decidere in fretta. Pena la ritorsione della speculazione finanziaria che nell’instabilità gonfia le sue vele. Intanto lo spread ha ripreso tono e vigore. L’Italia torna ad essere un Paese guardato con sospetto per la sua cronica incapacità di darsi delle regole che non durino lo spazio di un mattino. Si deve tornare a parlare di riforme costituzionali ma il verso deve cambiare. Non si può stravolgere la Costituzione vigente ma si debbono introdurre solo alcune modifiche. L’art. 67 ad esempio va rivisitato. Oggi recita “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Bene, un parlamentare ha il diritto di cambiare idea, ma ci si deve dimettere dallo scranno un minuto dopo. Al momento sono più di 300 i parlamentari che hanno fatto il salto della quaglia. Non deve essere più consentito. In secondo luogo o si dimezza il numero dei deputati e dei senatori o si abolisce una delle due Camere e di un inutile Cnel. Un’altra riforma sarebbe quella di ridisegnare la geografia regionale, accorpando regioni che contano una popolazione di una media città come Bologna.  Quattro o cinque bastano e avanzano. D’altronde gli italiani si sentono, a mio avviso, più bergamaschi che lombardi, più fiorentini che toscani. Si avrebbe una drastica riduzione del numero dei consiglieri regionali. Addirittura io ripristinerei le provincie e accorperei i comuni con meno di 5 mila abitanti in realtà amministrative più grandi. I risparmi sarebbero ben di più di quelli promessi da Renzi e, soprattutto, la governabilità ne trarrebbe grande vantaggio. Auguri, Mattarella! Il pallino ce l’ha lei. Guardi agli interessi del Paese e non a quelli delle botteghe partitiche.

Marco Ilapi, 5 dicembre 2016 

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