Che cosa meritano gli italiani

Non ci siamo presentati all’appuntamento con la sciagura del coronavirus nelle condizioni migliori. Eravamo un Paese fragile il 21 febbraio, quando il primo contagiato di Codogno è spuntato sulla collina ad annunciare l’invasione che da lì a poco si sarebbe scatenata. Siamo un Paese ancora più fragile adesso, presi di mira da una pandemia che in 100 giorni ha fatto 100 mila morti, di cui diecimila concentrati nella sola Lombardia, uno su 10 nel mondo, la parte più affollata del cimitero allestito sulla Terra per questo maledetto 2020. Che dentro di noi, dentro ciascuno di noi, il sentimento dominante sia lo smarrimento è reazione umanamente comprensibile ma, a lungo andare, pericolosa. C’è sempre qualcuno o qualcosa che si attrezza per riempire i buchi di un corpo sociale stremato, magari promettendo guarigioni miracolose dietro le quali si nascondono cambiali insidiose.

Quando il morbo ha cominciato a invaderci, non ha trovato trincee robustissime. Eravamo e siamo ultimi per crescita del Pil nell’area Ue, in zona retrocessione per percentuale di laureati e di occupati, neanche in classifica per l’adeguamento all’era digitale.

Con una sanità pubblica sfibrata da tagli e ruberie. Con un governo nato in condizioni d’emergenza, composto da due forze maggiori congenitamente antitetiche (una di sistema, il Pd, l’altra anti-sistema, i Cinquestelle), chiamato a navigare in una congiuntura internazionale avversa. E con l’ombra corposa dei sovranismi, maggioranza sul territorio anche se all’opposizione in Parlamento, ad agitare ulteriormente le acque di un mare già tempestoso.

Il Covid 19 ci ha devastati sfondando barriere di burro, come fa di preferenza con i corpi più indifesi, per esempio quelli degli anziani. Proprio su questa categoria è cascato il peso più insopportabile, non solo per ragioni di debolezza fisiologica ma anche per scelte inumane, come stiamo abbondantemente documentando su questo giornale. La vergogna del Trivulzio di Milano e di tante altre residenze per anziani somiglia a quella dei campi di concentramento dove i meno adatti al lavoro venivano accompagnati ai famigerati stanzoni delle docce da cui non sarebbero più usciti. Si salvi chi serve. Qualcuno, prima o poi, dovrà renderne conto.

Come sarà necessario, per la ricostruzione prima di tutto morale della nostra comunità, rendere onore e soprattutto giustizia ai caduti e ai feriti sul fronte più esposto (medici, infermieri, personale sanitario), che si sono trovati a combattere un nemico alieno senza le difese necessarie per contenerlo, se non la propria abnegazione, parente stretta dell’eroismo civile. E lo stesso discorso vale per i sacerdoti, le suore, i volontari, e tutte le cellule di quel popolo generoso e infaticabile che si è attivato per dare forza a chi la perdeva, come sempre fa, come anche stavolta ha fatto, silenziosamente, senza mai mettere nel conto il rischio di pagare di persona.

Se siamo arrivati a questa Pasqua con una curva dei contagi che parrebbe aver finalmente imboccato la fase discendente, vuol dire che nonostante l’attacco a sorpresa e nonostante la nostra strutturale inadeguatezza a fronteggiare emergenze, qualcosa in questo Paese ha resistito, e di questo va dato atto anche a chi il Paese l’ha guidato in uno dei momenti più tragici della sua storia.

Paradossalmente, però, il momento più delicato viene adesso, con la devastazione che sembra acquietarsi e con l’imperativo di dover ripartire. Il risultato delle prime trattative serie con l’Europa è stato molto al di sotto delle nostre aspettative e anche delle nostre esigenze, anzi urgenze. I potenziali alleati si sono defilati e il fronte dell’“Italia si arrangi” ha proposto, se non ancora imposto, soluzioni neanche lontanamente all’altezza della sfida che ci attende: salvare la vita di una nazione, il cui quadro clinico, complice il virus, è ormai da terapia intensiva.

Se lo stato delle cose non cambierà presto e radicalmente (ma dubitarne è più che lecito), ci troveremo a dover affrontare da soli, con il nostro debito pubblico mostruoso e con una prospettiva di crescita sottozero, l’impresa quasi impossibile di dare un futuro prossimo credibile agli italiani. Con l’aggravante che, prostrati come siamo, la parte più conveniente del nostro tessuto produttivo e finanziario diventerà preda ambita e indifesa per speculatori, affaristi, alleati famelici e potentati suadenti, a cui non parrà vero allungare l’influenza su una porzione d’Europa strategica come quella che, per storia e collocazione geografica, rappresentiamo. Lo scenario peggiore è a un millimetro, il tempo per scongiurarlo è brevissimo.

Servirebbe quello che non abbiamo. Rinserrare le fila nel momento cruciale dove è in gioco la tenuta civile, ci spingeremmo a dire la “sopravvivenza”, di una certa idea dell’Italia. Un governo coeso, che è l’esatto contrario di quello che sembra lasciare in eredità uno dei più tormentosi venerdì di passione della nostra storia repubblicana. Una assunzione di responsabilità collettiva, senza calcoli né retropensieri elettorali, per presentare a un Paese che comincia pericolosamente a sbandare un elenco di cose che si possono fare e di cose che invece non si possono fare, spiegando con chiarezza le ragioni dei sì e dei no, sia in tema di limitazioni per ragioni di salute pubblica sia di finanziamenti realmente disponibili per sostenere l’aggravio della crisi.

Andrew Cuomo, governatore di New York, il 6 aprile, mentre il virus cominciava a sbranare la polpa della Grande Mela, si è rivolto così ai suoi concittadini: «Sarei felice di dirvi che finirà presto. Ma non posso. Questo è quello che vi prometto: continuerò a informarvi sui fatti e prenderò decisioni basate sulle evidenze della scienza e dei numeri. I newyorkesi non meritano niente di meno».

Neanche gli italiani meritano niente di meno. Il discorso mai così infervorato del presidente del Consiglio, giunto ieri con ore di ritardo all’appuntamento annunciato in tv, rivela che dietro le quinte della cabina di comando c’è più nervosismo di quanto il momento consentirebbe.

Parlando d’impeto e con composta foga, il Conte che ha evocato non meglio precisate «tenebre» e ha promesso battaglia in Europa per la causa italiana, ci farà passare una Pasqua sospesa. Le destre sono già in groppa al malcontento in contagiosa diffusione e la maggioranza si distingue per i distinguo.

Il virus sembra intenzionato a continuare la sua ritirata. Il timore è che dalle macerie che abbandonerà dietro la sua scia, invece di una laboriosa ricostruzione, cominci una danza confusa, popolata di volonterosi salvatori della patria ma anche di profittatori e di avvoltoi. Con il rischio che i primi lascino presto campo libero ai secondi e ai terzi.

Carlo Verdelli – la Repubblica – 11 aprile 2020

Leggi tutto...

Chiudere la Lombardia

Non è ancora troppo tardi. Non può esserlo. Bisogna fare in modo che non lo sia. Con la bizzarra eccezione dell’Antartide e dei suoi 4 mila ricercatori, non c’è angolo del pianeta che non stia sperimentando il flagello del coronavirus. Non c’è persona o personaggio, per quanto ricco e potente, che possa assicurarsi l’immunità. E non c’è alle viste né una cura né un vaccino che consentano di arginare l’avanzata di una pandemia che lascerà dietro di sé cicatrici profondissime e imprevedibili mutamenti di scenari globali. L’unica trincea che al momento appare sicura è l’isolamento in casa. Dopo il primo sbarco in Cina, l’Italia è stata per molte settimane l’epicentro occidentale dell’attacco virale ai nostri polmoni e alla nostra civiltà. Ne stanno pagando un prezzo atroce intere categorie umane, soprattutto anziani, medici, infermieri, abitanti di città focolaio, persone sole rimaste ai margini della rete di assistenza.

Il primato dei contagi è passato agli Stati Uniti, presto la Spagna si avvicinerà agli standard dei nostri quotidiani bollettini di guerra, l’ombra nera si allunga anche in Germania, Francia e Gran Bretagna.

Nel suo diario da una quarantena su Repubblica , Paolo Rumiz scrive: “Mai come oggi ne esce chi sa cantare in coro”. Non sembra la piega che sta prendendo l’Europa, per fermarci nel nostro cortile. Vorrebbe essere, almeno nelle intenzioni, la strada scelta dall’Italia, con misure via via più stringenti, estese senza differenze all’intero territorio nazionale. Ma le differenze nell’intensità del contagio ci sono eccome e forse sarebbe arrivato il momento di tenerne conto. La Lombardia, per esempio.

Nonostante la comprensibile volontà di diffondere un po’ di ottimismo da parte del governatore Fontana («Penso che stia iniziando la discesa»), la regione locomotiva del Paese da sola conta ormai, e non da oggi, più della metà sia dei contagiati sia dei morti totali. La parte d’Italia dove tutto è cominciato (21 febbraio, paziente uno a Codogno) si è trasformata in poco più di un mese nella bocca del vulcano dove si concentra il rosso più acceso dell’intera nazione. Si vede a occhio nudo su qualsiasi mappa: la macchia più intensa del Covid-19 sta in un cerchio stretto tra Milano, Bergamo e Brescia, con un alone macabro che si estende fino a lambire i confini di Veneto e Piemonte.

Un grande vecchio della ricerca scientifica come Silvio Garattini proprio ieri ammoniva: «Bisognava chiudere prima, ora a pagare sono personale sanitario e operai». Per poi aggiungere una verità scomoda ma ineludibile: «Il senso della vita viene prima del senso degli affari. Ma qualcuno ha invertito le priorità». Il risultato di questo ribaltamento di valori, giustificato dal tentativo di scongiurare almeno in parte il collasso economico annunciato, sta temperando assai poco la deriva della crisi produttiva mentre sta aggravando di molto l’inventario delle vittime.

Anche dopo l’accordo con i sindacati che ha portato a un restringimento delle attività consentite, nell’industriosa Lombardia circolano ancora, quotidianamente, centinaia di migliaia di lavoratori, soltanto in parte legati all’indispensabile filiera che garantisce alimentari, sistema sanitario e farmacie.

Sono donne e uomini che escono di casa, raggiungono la fabbrica o il magazzino o l’officina con mezzi pubblici o propri, si offrono a infinite possibilità di contagio, e quindi tornano a sera in abitazioni dove magari li aspettano familiari che stanno rispettando la consegna della lunga quarantena.

Non è il momento dei processi, né dell’attribuzione di responsabilità. Ma è il tempo, questo sì, del coraggio di prendere decisioni forti. Fatte salve le attività strettamente necessarie, andrebbe con responsabilità, e anche con urgenza, valutata l’ipotesi di chiudere in modo drastico l’intera Lombardia per due settimane, chiedendo un ulteriore ma non differibile sacrificio a chi ci abita, a chi ci opera, ai titolari di piccole e medie imprese comprensibilmente spaventati dall’idea di non riuscire a ripartire. Qualsiasi ipotesi di ricostruzione dopo questo abisso passa attraverso decisioni nette che mettano in cima alle priorità la salvezza delle vite, e quindi il contenimento del contagio, attraverso l’edificazione di argini disegnati là dove il morbo più infuria. Al di là di qualsiasi considerazione politica o finanziaria. Al di là di ogni calcolo di convenienza. Salvare la Lombardia per salvare l’Italia. Prima che sia davvero troppo tardi.

Carlo Verdelli – la Repubblica – 28 marzo 2020

Leggi tutto...

A Dogliani il festival dei media: uno sguardo sull’Europa

L'Europa è ancora nel nostro futuro? Non è facile riunire su di un palco ben sei direttori delle principali testate nazionali per un dibattito su questo tema e sugli argomenti più caldi dell'attualità politica, economica, sociale italiana edeuropea. Ci sono riusciti gli organizzatori del Festival della Tv e dei nuovi media di Dogliani il 4 maggio scorso, intervistati dal Sarah Varetto, responsabile dei servizi informativi per l’Europa di SKY.

L'incontro tra i direttori Lucia Annunziata (Huffington Post), Marco Damilano (L'Espresso), Luciano Fontana (Corriere della Sera), Maurizio Molinari (La Stampa), Fabio Tamburini (Il Sole 24 Ore), Mario Tarquinio (Avvenire), Carlo Verdelli (la Repubblica) è stato moderato da Sarah Varetto, recentemente nominata News Projects Development Continental Europe del broadcaster di Sky. Si è animatamente discussoper sull’Europa a tre settimane dal voto. Grande interesse nel folto pubblico partecipante nella città del dolcetto DOCG Dogliani.

La prima riflessione sollecitata dalla conduttrice è stata:

Il mutato atteggiamento nei confronti dell’Europa, dagli inizi ad oggi.

Da quando vi era una corsa ad entrare a far parte dell’Unione, alla situazione attuale in cui c’è chi si si esclude perché si sente escluso, secondo Damilano (“L’Espresso”) il problema è stato quello di considerare la democrazia e l’Europa come un dato acquisito e i diritti e i doveri non sono stati vissuti come una battaglia quotidiana.

Ma l’Europa ha delle responsabilità in tal senso?

Per il direttore del “Sole 24 ore” (Tamburini)siamo stati abituati a sentirci l’ombelico del mondo, mentre oggi rassomigliamo all’Impero romano nella sua fase di decadenza, stretti fra Usa e Cina che si contendono la leadership mondiale in economia e in politica. E anche se l’UE non è condivisibile per tanti aspetti, non dimentichiamo che rappresenta ancora il mercato più ricco del mondoeche unita ha le capacità di recupero. Quanto all’Italia, siamo ancorai migliori nell’artigianato, anche se con la palla al piede dell’enorme debito pubblico, per il quale non riceveremo sconti ulteriori, nemmeno dai sovranisti.

E che cosa aspettarci, allora, dai sovranisti, contrari sia alla solidarietà economica che a quella nei confronti dei migranti?

Per Lucia Annunziata (“Huftington Post”) per battere i sovranisti, che non sono nemmeno riusciti a costituire una lista comune per le prossime elezioni, si deve votare non sotto il segno di “Europa o morte”, ma per soluzioni compatibili col suo sviluppo. L’Europa, infatti, si è già “disfatta” (Brexit, Francia e Germania in crisi) grazie anche agli errori sin qui compiuti: smantellamento della NATO, disimpegno in Medio Oriente, errata visione dell’Africa, vista solocome  terreno di competizione fra Paesi europei.

Da un’inchiesta del “Corriere della Sera” risulta che la maggior parte degli Italiani è a favore dell’Unione Europea: che significa?

Per il direttore Fontana ciò significa che gli italiani sono più “scafati” dei loro uomini politici, i quali hannovia via dimenticato le loro dichiarazioni anti- euro e anti-Unione. Del resto, l’attuale predominanza franco-tedesca è anche il frutto del nostro debito pubblico (ricordiamo che 100 punti di spread in più ci sono costati 8 miliardi di interessi in più!) e delle nostre continue richieste di flessibilità (conseguenza: altro debito!). Così, invece di dar via ad opere pubbliche bloccate si continua con interventi di sussidio, per dare poi la colpa alla Commissione europea.

A che cosa ha portato la globalizzazione non controllata?”

Risponde Verdelli direttore di Repubblica”: la crisi ha portato ad un odio della gente nei confronti del “mercato”,, ad una visione dell’Europa coincidente con l’euro (vista solo come una maestra che bacchetta), ad una reazione emotiva di rifiuto per il mancato miglioramento tanto atteso dal processo di unione degli Stati, invece di accusare i governo senza credibilità.

Ma vi sono anche altre questioni aperte, come l’aumento delle diseguaglianze e l’immigrazione…

Sappiamo bene, osserva Tarquini, direttore di “Avvenire”, che i governi italiani hanno barattato il problema dell’immigrazione in cambio della flessibilità. Già oggi 800.000 immigrati potrebbero avere la cittadinanza… Il problema è che in Italia è venuto meno lo sguardo solidale verso l’immigrazione; per questo, che cosa possiamo aspettarci in tal senso dall’Europa? Si tratta di una guerra economica, che divide le nazioni. Ma vi è una speranza ancora: i giovani (17/35 anni). Da una recente inchiesta, infatti, risulta che il 40% crede nelle istituzioni europee.

E le elezioni europee diventano terreno di scontro…

Certamente, per la vulnerabilità del sistema, afferma Molinari, che con il suo quotidiano segue da vicino le questioni di politica estera. Si tratta delle “interferenze maligne” da parte di attori esterni, che attraverso i social hanno influenzato, oltre al cosiddetto russian gate,  il referendum per la Brexit, le recenti elezioni tedesche e quelle catalane (il 70% sono risultate essere russe). Oltre alle interferenze, i pericoli vengono, come si è già detto, dalle diseguaglianze e dai migranti. L’unica risposta possibile ai sovranisti che le cavalcano sono i “Diritti”: sociali (lavoro, formazione, qualificazione), civili (per i migranti, insieme ai doveri), e anche “digitali” (vd. difesa copyright) trasferendo quelli che sono i nostri diritti dalla realtà al mondo virtuale.

Chiediamoci, allora, se l’Unione Europea sarà in grado di incrementare i diritti

Premesso che l’attualeclasse dirigente europea, paragonabile ad un “cimitero degli elefanti”,  ha gestito la fine di un modello politico-economico (dalla Brexit alle misure per la Grecia), per l’Annunziata non ci sono molte speranze in tal senso; infatti dalle elezioni uscirà una malferma coalizione, sotto attacco per conflitti interni.

Si sta assistendo, quindi, ad una vera crisi della leadership europea?

Il grosso problema sta nella crisi della classe dirigente, incapace di prospettive a medio e lungo termine, sempre alla rincorsa d soluzioni tampone. In quella italiana, poi, si è assistito ad un abbassamento: “io” (politico) sono uguale a “te” (popolo), mentre -sostiene Fontana (“Corriere della Sera”) - il politico deve essere migliore di me. Occorre, anche in occasione di queste elezioni europee, ripartire dall’aggregazione, dal confronto e dalla formazione dal basso.

E l’inadeguatezza economica come la pagheremo in concreto?

Tamburini invita ad accendere la speranza, a superare la crisi delle classi dirigenti (non solo politiche, ma professionali, imprenditoriali, ecc.), a ripartire dalle competenze nella consapevolezza che siamo ancora i migliori per fantasia, intelligenze, creatività nonostante la produttività e l’ingegno dei cinesi e degli americani.

Ma, lo spirito di demonizzazione della classe dirigente da qualche parte è partito?

La politica valeva sempre di meno, osserva Damilano, solo pronta a rispondere alle necessità immediate, all’inesorabilità, dimenticando che funzione della politica è la “scelta” e non la soluzione “tecnica” dettata dal pragmatismo puro. Oggi il governo sostiene di agire in nome del popolo(indefinito), di non essere né di Destra, né di Sinistra, in una eterogeneità dei fini. Bisogna invece ripensare le categorie politiche, che non possono essere quelle del secolo scorso, ma in grado di confronto e di scelta. L’altra questione, prima citata, è quella dei giovani, dai quali può iniziare la “resistenza”, come sembrano anticipare le risposte ai gravi omicidi, in Polonia  (l’elezione del sindaco di Danzica) o in Slovenia, con l’elezione di una donna europeista alla Presidenza.

Pertanto, può nascere una nuova generazione di europei?

Finora, secondo Tarquinio, i sovranisti hanno offerto una percezione distorta della realtà, grazie anche ai media che possono far leva sulle tendenze negative che ci sono nelle persone; quindi, responsabilità anche dei giornalisti (classe dirigente del Paese), i quali hanno dato spazio agli slogan dei politici sulle prime pagine, offrendo una informazione sommaria, a bocconi (vd. i 600.00 irregolari, che poi si sono rilevati essere 90.000, una volta contate le donne di pelle bianca, che stanno nelle nostre case e che non ci fanno paura). Le paure non vanno ingigantite, ma affrontate e semmai consolate. Forse, con le elezioni si avrà un quadro più frammentato, ma lo scossone potrebbe far ripartire gli Stati Uniti d’Europa.

E chi andremo a eleggere?

Per Molinari i sovranisti hanno in comune la ricerca di identità (come nel Nord Est), la volontà di riappropriarsi delle proprie radici (e le rappresentanze più forti sono in Paesi appartenenti all’ex impero austro-ungarico). Questo è il vero pericolo: potremmo ritrovarci Salvini antieuropeista aa guidare l’opposizione nel nuovo Parlamento. E, aggiunge Verdelli, proprio i Paesi sovranisti, che hanno ricostruito le loro economie grazie agli aiuti dell’Unione europea, ora la vogliono distruggere. Inoltre, poniamo attenzione ad un altro pericolo: una vera e propria mutazione genetica delle destre, sempre più estremiste, in diversi stati europei, che potrebbero entrare s fsr parte del nuovo Parlamento!

Clara Manca, 10 maggio 2019

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .