I nemici nascosti

C’è unanimità di vedute: la ripresa, nella fase 2, ci sarà se ci liberiamo della burocrazia. Si propone di ridurne il peso, ripensarla, scavalcarla, saltarla, toglierla di mezzo, smantellarla, sconfiggerla. Ma, come ha osservato su questo giornale Daniele Manca il primo aprile, dietro questo nemico si nascondono in molti. È bene, allora, accertare dove sono le responsabilità, da dove vengono tutti i mali che attribuiamo alla burocrazia. Primo: gli uffici pubblici si muovono su una trama che è disegnata dai legislatori (Parlamento e governo). I poteri degli uffici sono attribuiti dalle leggi, che ne disciplinano l’esercizio. Il codice vigente dei contratti, uno dei principali responsabili del deficit italiano di infrastrutture, è il frutto di numerose addizioni rispetto alle direttive europee (un fenomeno che si chiama «goldplating», placcare in oro), addizioni non necessarie, che hanno prodotto l’attuale stallo. Molte altre procedure potrebbero esser sfoltite, altre abbreviate, altre poste in parallelo, invece che in sequenza (una si svolge mentre avanza l’altra, invece che dopo l’altra), dotate di «corsie di emergenza» in caso di necessità. Questo eccesso legislativo è subito dalla burocrazia (che talvolta se ne fa scudo, e talora addirittura lo sollecita, per scaricarsi da responsabilità) e va imputato principalmente a chi adotta ogni giorno una procedura nuova che si aggiunge, senza mai sottrarre, a una precedente, a chi richiede un parere in più. Di questo sono responsabili in ultima istanza il Parlamento e il governo. Solo leggere l’ultimo decreto legge richiede — come ha osservato ieri su queste pagine Gian Antonio Stella — uno straordinario studio: figuriamoci quando si tratta di metterlo in pratica, come deve fare la burocrazia. Quindi, responsabile maggiore di questo agente patogeno è la politica (salvo poi lamentarsene).

Secondo: la messa in stato d’accusa della «burocrazia» ha creato, in questi ultimi anni, nei suoi confronti una condizione di sospetto. Corruzione, lentezze, ostacoli, sabotaggi vengono tutti imputati alla burocrazia. Su di essa si sono quindi scaricate, come conseguenza, responsabilità sempre maggiori (sanzioni disposte per i reati di mafia sono estese, del tutto impropriamente, anche ai reati contro la pubblica amministrazione) e contro di essa sono stati introdotti o reintrodotti controlli preventivi. In questo modo, controllore e controllato cogestiscono, si diluiscono le responsabilità e si rallenta l’azione amministrativa. Si aggiungono le procure, divenute ormai i decisori di ultima istanza dello Stato, capaci di aprire inchieste, non di chiuderle. Tutto questo non va imputato alla burocrazia, ma al corpo politico (che ha creato, ad esempio, l’autorità anticorruzione per salvarsi l’anima e scaricare su un parafulmine le accuse normalmente rivolte ad esso) e alla facilità con cui le procure si impadroniscono delle grandi decisioni collettive senza avere capacità e mezzi per affrontarle e senza rispettare i tempi brevi necessari. In queste condizioni, come possono le amministrazioni pubbliche assicurare quella certezza e velocità che il presidente di Assolombarda giustamente richiedeva ieri, nell’intervista al Corriere? Terzo: il personale burocratico stesso è scelto male (quando è scelto: sarà il caso di ricordare come vengono nominati i direttori delle aziende sanitarie e gli stessi primari ospedalieri). Sono pochi i burocrati selezionati con procedure concorsuali aperte a tutti e basate sul merito, e pochi gli stessi concorsi che riescono a svolgere questo compito selettivo. Troppa è la fame di posti delle forze politiche, desiderose di premiare propri fedeli o di conquistarne di nuovi mediante lo «spoils system» all’italiana. I migliori burocrati sono frustrati da tecniche di lavoro pre-tayloristiche (la stessa digitalizzazione è assolutamente insufficiente) e dall’assenza di incentivi (i premi vengono dati a tutti, quindi non sono premi). Le aziende private innovano le procedure interne, in media, ogni nove anni. Quelle dell’amministrazione sono spesso centenarie. I dipendenti pubblici incapaci, schiavi della legge, se ne fanno scudo. Quelli bravi patiscono di vivere come sospettati, all’interno, di ogni male e imputati, all’esterno, di tutte le nefandezze dello Stato.

Quarto: non ultimo agente patogeno è la cultura amministrativa. Quella «alta» ha coltivato il formalismo e frequentato le aule di tribunale. Quella diffusa si è accontentata della denuncia, guardandosi dal fare proposte concrete. In ultima istanza, sono i cittadini e le imprese i destinatari dell’azione amministrativa e questi non hanno fatto sentire la propria voce. Questo tentativo di districare i termini di un problema complesso, indicare cause, individuare responsabili e cure, non può terminare senza un’avvertenza. Una parte di tutto ciò che imputiamo allo Stato, l’abbiamo voluto noi, e non vorremmo esserne privati. La democrazia assicura grandi benefici, ma ha anche un costo. È merito delle democrazie di far sentire la voce dei cittadini, di quelli che vogliono una migliore tutela dell’ambiente, la cura dei beni culturali, alimenti più sicuri, maggiore attenzione alle acque di balneazione, e così via. Ad esempio, una società democratica è interessata alla certificazione di giocattoli, ascensori, dispositivi medici, lampadine. E allora non dobbiamo lamentarci perché le mascherine debbono avere il marchio CE, che richiede qualche tempo, ma serve per assicurarci che il prodotto corrisponda agli standard di sanità e sicurezza che ci sono necessari (questo standard, peraltro, sotto la pressione delle circostanze, è stato abbassato nei giorni scorsi). La Cina ha potuto combattere tanto rapidamente il virus perché lì questi interessi collettivi hanno minori tutele (così come minori garanzie hanno le libertà). In conclusione, se vogliamo che lo Stato riprenda forza, bisogna liberare la burocrazia dai vincoli esterni inutili o dannosi e rafforzarla all’interno, scegliendola meglio e responsabilizzandola; non pensare di farne a meno, come dicono coloro che sognano «leggi autoapplicative». I rimedi necessari non sono immediati e una classe dirigente capace, per ripartire, dovrebbe capire che può operare solo in due tempi. Fare subito un programma di riordini, cominciando da quelli più urgenti, ma avviare quelli che richiedono più tempo. L’abbiamo sentito ripetere tante volte, specialmente in questi giorni: «Don’t waste a good crisis».

Sabino Cassese – Corriere della Sera – 10 aprile 2020

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