Alla mercé dei demagoghi

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Quella dei demagoghi, e cioè degli oratori ambiziosi e senza scrupoli, imbonitori di folle e di elettori, è una vecchia storia. Spavaldi, tracotanti, gesticolanti, sicuri di sé, capaci di eccitare le aspettative più mirabolanti o i nazionalismi più fanatici. Niente di nuovo sotto il sole.

La desolante novità è il loro attuale proliferare, che non sembra conoscere requie. Se dovessimo elencare tutti i protagonisti di questa devastante epidemia, verrebbe fuori una folla non indifferente.

Nei primi anni 2000 le demagogiche e spudoratamente false asserzioni americane circa l'esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, per esempio, costituirono un capitolo non insignificante di tale epidemia. Ovviamente, le demagogie possono fiorire anche in periferia, ovvero nei Paesi subalterni, ma esse contano poco, mentre quelle emesse nei centri di potere hanno invece ripercussioni ben più estese e tragiche. Come dire che anche Paesi come l'Italia o la Grecia possono produrre i loro demagoghi e pittoreschi imbonitori di tutti i tipi – se ne vedono gli esempi attuali – ma essi non contano nello scacchiere mondiale, salvo che come itinerari nostalgico-turistici.

L'esilarante sfoggio di falsità e demagogia con cui venne giustificata l'invasione dell'Iraq nel 2003 era parente del cinismo con cui anni prima l'amministrazione americana aveva incoraggiato la sanguinosa guerra di Saddam Hussein con l'Iran e fratello della disinvoltura con cui la stessa amministrazione ne provocò poi l'impiccagione. Durante un convegno di leaders arabi tenutosi non molto tempo dopo in Siria, nel 2008, il defunto colonnello Gheddafi disse ai presenti, che stoltamente ridacchiavano: "chi vi dice che non farete anche voi la stessa fine?" Raramente, ironia fu più profetica della sua.

Dopo il  tumultuoso e sospetto linciaggio di quest'ultimo, la demagogia congiunta di Sarkozy e Blair fece piovere su Tripoli e Bengasi trionfalistiche promesse di un rinnovo dei tempi. Le folle plaudenti di quei giorni sembrano la copia arabizzata delle folle armene di oggi che a Yerevan osannano e ballano in onore del loro nuovo primo ministro Nikol Pashinyan. Il perché di tanti osanna, danze e anche mani giunte in preghiera appartiene ai misteri delle emozioni popolari, su cui è difficile indagare. In ogni caso, anziché la manna e le benedizioni franco-britanniche, si abbatté poi sulle sabbie libiche il flagello, a quanto pare prima abilmente imbrigliato dal colonnello Gheddafi, delle famigerate "opposizioni", lacerazioni, rivalità e faide intestine, e insomma dell'anarchia, esattamente come avvenne per l'Iraq dopo la morte del suo non molto tenero ex dittatore. Fu così che in entrambi i Paesi spuntò il fungo pestilenziale del fondamentalismo islamico più fanatico.

La catastrofica destabilizzazione che seguì l'introduzione della democrazia (!) in Iraq e in Libia è risaputa anche dagli scolari ma sembra placidamente ignorata dai legislatori di quei Paesi che parteciparono alla spedizione punitiva di George Bush. Anzi, nonostante le centinaia di migliaia di morti, nessuno degli autori di tali sciagurate decisioni risulta essere stato in qualche modo incriminato o messo pubblicamente sotto accusa. Anche questo è un mistero simile alla sorte di certi inflessibili inquisitori - anche loro erano dei demagoghi - come Torquemada o Bernardo Gui, che dopo aver seraficamente bruciato migliaia di presunti eretici, trascorsero una vecchiaia serena e titolata.

Come poi trascurare la demagogica furbizia di un Cameron, che sperando di uscirne rafforzato politicamente, indisse un referendum sulla permanenza o meno della Gran Bretagna nella UE? Il patetico esito di quel referendum e la vittoria di altri demagoghi dall'altra parte del fiume suggerisce che egli conosceva male gli umori del suo elettorato. La cosa singolare è che l'abbaglio continua a travolgere anche gli attuali gestori britannici del Brexit – anch'essi campioni di demagogia - che ogni giorno scoprono i confetti amari di quella trionfalistica scatoletta di dolci promessa agli elettori. Ma già dai celtici confini irlandesi si sollevano fumate poco rassicuranti.

Altro esempio apparentemente innocuo di spudorata demagogia è costituito dalla recente affermazione della Cancelliera tedesca Angela Merkel secondo cui "L'islam appartiene alla Germania", contraddicendo il suo ministro degli interni, Horst Seehofer, che aveva appena sostenuto il contrario, e cioé: " Der Islam gehoert nicht zu Deutschland". Mentre il ministro aveva affermato qualcosa di ovvio e banale, la sconcertante pretesa della Cancelliera non si giustifica neanche tenendo conto dei milioni di Turchi musulmani che forniscono alla Germania voti oltre che forza lavoro. Essa è solo una contraffazione di bassa lega. Sfortunatamente mancano gli strumenti per accertare, senza scomodare Lutero, se anche individui come Eugenio di Savoia (vincitore degli Ottomani) oppure Bach, Goethe, Wagner o lo stesso Thomas Mann non sia siano rivoltati nella tomba all'eco della straordinaria affermazione della Signora Merkel, la quale ha al suo attivo anche una sconsiderata politica immigratoria delle porte aperte. Da notare che quest'ultima ha contribuito a produrre effetti divisori all'interno della UE. Da una parte, ha dato man forte ai nostalgici brexiteers inglesi, che ancora non si rendono conto che i tempi dello splendido isolamento sono tramontati assieme all'Impero, mentre dall'altra stimola la colpevolizzazione di Stati come Ungheria o Polonia, che non hanno nessuna intenzione di far crescere nel loro seno minoranze islamiche. Solo l'attuale ignoranza travestita da cultura virtuale fa dimenticare che le minoranze hanno sempre costituito la causa prima di guerre, invasioni o protezioni patriotiche, dalla Serbia ai Sudeti di Hitler alla Cipro dei Turchi.

Nuovi demagoghi, spesso con fanfare, cortigiani e guardie del corpo, stanno occupando i palcoscenici, favoriti fra l'altro, oltre che dalla loro carica, anche dal disinvolto maneggio di strumenti infantili – vedi Twitter o Facebook - che fanno parte della spazzatura e oppio mediatici di cui si nutrono oggi le folle. Ipocritamente, solo adesso si è scoperto che un sito come Facebook poteva anche essere sfruttato in modi poco trasparenti con assai probabili fini politico-elettorali.

Proprio in questi giorni, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha fatto di Twitter il suo anarchico e capriccioso strumento di comunicazione, ha appena fornito un nuovo esempio di pericolosa demagogia col suo annuncio che gli Stati Uniti si ritireranno dall'accordo nucleare con l'Iran, minacciando di ritorsioni economiche tutti quegli Stati che non si adegueranno.

In altre parole, oltre alla paranoia anti-russa di cui soffre da decenni l'establishment politico-militare statunitense – quella britannica data dai tempi degli zar - adesso si aggiunge anche la teatrale cancellazione di un accordo di cui era stata firmataria la precedente amministrazione. Può darsi che esso non fosse perfetto, ma intanto ha consentito fino ad ora controlli e verifiche che la sua eventuale totale cancellazione renderà impossibili. Ovviamente, sempre gli scolari sanno benissimo che il regime dei chierici di Teheran non è in odore di santità e che da anni essi sobillano fazioni di vario genere in Palestina e in Siria, ma solo gli sciocchi o gli ipocriti possono negare che lo zelo sciita di Teheran è la faccia opposta di una stessa medaglia e quindi cugino di quello sunnita di Riyad. Eppure, a partire dal 1945, quando Roosevelt ricevette Ibn Saud sul Quincy e i due uomini stipularono un accordo di protezione militare contro generose concessioni petrolifere, gli Stati Uniti sono stati il surreale alleato di un Paese che non si distingue in nulla dall'attuale Iran in quanto a intolleranza religiosa, diritti umani, libertà delle donne, etc., per non parlare dei finanziamenti di innumerevoli e dubbi organismi islamici sparsi per il mondo. Non a caso Osama Bin Laden era un rampollo dell'establishment saudita. Fra l'altro, quanto sia discutibile la santità saudita è dimostrato dai feroci e accaniti bombardamenti in Yemen, volti a rintuzzare qualsiasi tipo di analoga influenza sciita, e cioè, iraniana.

Paradossalmente, quest'ulteriore sfoggio di demagogia presidenziale, verbalmente al servizio della "sicurezza nazionale" – uno slogan molto usato nelle moderne pellicole o serie televisive americane di spionaggio tipo Homeland - è in realtà al servizio di una contesa religiosa islamica. La stessa tragedia siriana, con i suoi milioni di fuggitivi e le centinaia di migliaia di morti è uno dei risultati delle varie guerre delegate attualmente in corso nel Vicino Oriente. Se una è quella fra Mosca e Washington, l'altra, quella che fornisce i pretesti alla prima, è la neanche tanto nascosta lotta secolare fra queste due confessionali islamiche, lotta in cui i famigerati diritti del popolo palestinese o delle cosiddette "opposizioni" vengono disinvoltamente utilizzati come paravento.

La verità è che, consapevolmente o meno, le recenti amministrazioni americane che si illudono di pilotare il gioco, si sono fatte coinvolgere in una vecchia frattura del mondo islamico con cui i Paesi europei non hanno niente a che spartire. Fra l'altro, la favoletta delle "opposizioni" è non solo inconsistente – basta pensare a quelle libiche, trasformatesi in un'incessante carneficina e faide intestine – ma anche ridicola: al primo tentativo di secessione della Scozia, del Galles o dell'Irlanda del nord, davvero Londra direbbe "fate pure"? E anche gli USA, se i Portoricani, gli Hawaiani o il Nuovo Messico chiedessero un cambiamento di regime, Washington come risponderebbe? Vi sono buone ragioni per immaginare che le reazioni non sarebbero concilianti e remissive.

Mentre quest'ennesimo dispetto presidenziale nei confronti di tutte le misure prese dalla precedente amministrazione rischia di innescare conseguenze imprevedibili, aizzando i vari contendenti regionali da Israele all'Arabia Saudita nel cercare di liberarsi di un protagonista scomodo, rimangono incerti il ruolo della Russia e in particolare dell'Europa. Le minacce-ricatto di Donald Trump possono costituire un'insperata opportunità di liberarsi dalle asfittiche maglie di una settantennale ma inconfessata sudditanza strategico-economica oppure confermarla in modo vergognoso.

Prevarranno il mercantilismo e il servilismo o un po' di amor proprio? Le vie dell'inferno sono lastricate di miopie e furberie.

La Russia? Visto che il regime sovietico è fortunatamente scomparso ed è stato sostituito da uno sfrenato capitalismo oligarchico, sarebbe ora tempo che l'Europa occidentale si liberi delle sue turbe anti-slave, affini a quelle anti-semite e lascito del passato imperiale britannico che si vedeva minacciato nel dominio dei mari caldi (in realtà, di un terzo del mondo). Ironicamente, etimologie attendibili suggeriscono che Berlino sia stata a suo tempo abitata da genti slave...

E la Cina sta a guardare....

Antonello Catani, Atene, 13 maggio 2018

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Europa leader cercasi

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In Ue continuiamo a fare i conti con le astuzie e le miserie di una politica che non esce dal recinto degli interessi nazionali e arriva a minacciare un tetto agli acquisti di titoli di stato da parte delle banche pur di non onorare l'impegno della garanzia unica sui depositi e, cioè, a proporre un baratto senza senso che ha, di fatto, il solo esclusivo obiettivo di rinviare ancora la realizzazione di un pilastro fondante, strumentalmente rinnegato, di una vera unione bancaria europea. Dentro il debito pubblico italiano ci sono i vizi di ieri e di oggi di una politica che fa fatica a misurarsi con le scelte difficili e i ritardi culturali diffusi di una comunità economica e civile che ancora stenta a compiere scelte nette di rottura da un passato di compromessi non più riproponibile. L'editoriale di Roberto Napoletano su Il Sole 24 Ore.

L'Europa non esiste ancora. Gli Stati nazionali non cedono

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