Riflessioni sull'Africa, che non è così lontana

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Africa, un Continente, così vicino, come viene percepito per gli sbarchi sulle nostre coste, ma allo stesso tempo così lontano, per la sua complessità, la sua storia, e soprattutto, la scarsa conoscenza che ne ha il cittadino comune. Anche per questo, è parsa estremamente opportuna e interessante la conferenza dal titolo “Geo-storia e politica dell’Africa”, tenutasi a Torino, nella Sala Consigliare di Palazzo Cisterna (sede della Città Metropolitana) nei giorni scorsi, coordinata da Nuccia Maldera.

            Il seminario, rivolto ai docenti, è stato articolato in due parti: nella prima, il professor Ferruccio Nano ha preso in esame i rapporti economici che legano l’Africa al resto del mondo; nella seconda, Abdullahi Ahmed, presidente dell’associazione “Il Ponte” ha raccontato la sua esperienza di immigrato dalla Somalia.              

Prima questione affrontata: che cosa inviamo in Africa?

Inviamo: capitali e, insieme, conflitti, investimenti e prestiti.

I capitali servono per quello che viene definito l’“accaparramento delle terre”, tolte alle culture tradizionali (necessarie al sostentamento delle popolazioni locali), per trasformarle in piantagioni di prodotti per l’esportazione nel mondo sviluppato, ad esempio il mais per i biocarburanti. Così avviene per le risorse minerarie. Non solo oro e diamanti sono al centro di questa caccia alle materie prime da parte dei capitali stranieri, ma soprattutto le terre rare: il coltan, necessario ai nostri smartphone, raccolto dai bambini (vd. filmati impressionanti su You Tube, che ha provocato oltre 1 milione di morti) e tutti quei minerali che servono alle attuali tecnologie, come il cobalto, indispensabile per le batterie, anche delle auto elettriche(in Congo il 60% delle risorse mondiali). I capitali servono per l’acquisto delle miniere (la Cina, in primis: l’80%) o l’esportazione della materia prima grezza per la lavorazione nei centri specializzati, come avviene per i diamantia  Tel Aviv o Amsterdam.

I conflitti sono conseguenti all’uso del suolo e al controllo delle risorse e dei rifiuti, anche da parte di soggetti locali senza esclusione di colpi (guerriglie, corruzione, mafie locali). Si pensi alle discariche di rifiuti tossici esportati nel continente africano, come quella di Agblogbloshie in Ghana. 

Gli investimenti, come abbiam visto, sono mirati allo sfruttamento; però, non tutto è negativo. Vi sono anche investimenti produttivi che hanno portato a nuove opportunità lavorativee quindi ad uno sviluppo del mercato interno.

Quanto ai prestiti, questi si trasformano in oneri ulteriori per i Paesi in via di sviluppo: il 55% deglistati più poveri non riesce a pagare i propri debiti. Solo l’1% dei flussi di danaro verso tali Paesi è frutto di veri aiuti da parte delle ONG e del commercio equo-solidale. Solo la Svezia si impegna negli aiuti con l’1% del suo Pil!

Che cosa riceviamo dall’Africa?

I migranti. Ma, ricordiamo che il 75% delle migrazioni sono interne al continente africano; 8 milioni sono arrivati in Europa, di cui 750 mila in Italia. Che cosa è necessario fare?  Dare ospitalità, nel senso di garantire ai migranti i diritti fondamentali, lo ius migranti, che non si limita allo ius soli, per far sì che essi trovino lavoro, che diventino imprenditori.

Se la geografia economica ci aiuta a capire il malessere dell’Africa, la geografia politica dovrebbe aiutarci ad abbandonare la visione eurocentrica con cui ancora oggi valutiamo la situazione africana: il Pil, che cresce in certi stati come il Mozambico (3,7%) è ancora nulla, visto il punto di partenza di quelle economie; o la democrazia: è presente in poche realtà statuali; sembra affacciarsi in Etiopia, dove una minoranza colta si è sostituita ad un’altra, ma senza rappresentare tutte le altre etnie presenti sul territorio.

Resta la speranza nella giovane Africa: il 70% della popolazione ha meno di 30 anni, ma bisogna evitare la “fuga dei cervelli”.Per superare le relazioni asimmetriche fra Europa e Africa è necessario però che si crei sviluppo: la ricchezza di terre disponibili e di materie prime non deve essere più controllata dai “signori della guerra”, le risorse minerarie vannotrasformate sui luoghi di estrazione, le terre devono tornare a produrre per i bisogni locali. E anche un piano di aiuti da parte dei Paesi economicamente più forti (tipo Piano Marshall dopo il conflitto mondiale) non dovrebbe essere calato dall’alto, ma condiviso. Infine, l’aiuto allo sviluppo dovrebbe essere, a sua volta, “sostenibile”; invece di carri armati o di dighe computerizzate, servirebbero canali gestiti dai locali.

Alcuni suggerimenti, in tal senso, vengono dalla storia di Abdullahi Ahmed, nato a Mogadiscio nel 1988, primogenito di sette fratelli, fuggito dalla guerra che insanguinava la Somalia da trent’anni, arrivato in Italia con un barcone dopo 7 mesi di viaggio, e da due anni cittadino italiano.

Per questo giovane uomo è necessario valorizzare le terre e le risorse africane, come nel caso del suo Paese d’origine, ricco di coste e di terre fertili. E’ perciò importante lavorare sull’istruzione. Si pensi che in Somalia il 90% delle scuole sono private e, pertanto, riservate ad una minoranza della popolazione benestante. Come in atri Paesi africani (Egitto compreso) gli stessi libri di testo vengono dal Belgio, dalla Francia e persino dal Canada! Certamente, anche gli aiuti internazionali sono importanti; ma durante la carestia, solo la Turchia mandò aiuti edal 2001 ha costruito aeroporti, ospedali, infrastrutture, università. Secondo il prof. Nano, però, questi aiuti nascono dalla volontà di Erdogan di estendere nuovamente l’influenza turca nei territori dell’antico impero ottomano. Comunque, non vi è alcuna presenza dell’Italia, che si limita ad una base militare operativa a Gibuti.

In conclusione, per aiutare l’Africa si deve diffondere la conoscenza e la coscienza dei problemi di quel continente presso i giovani delle scuole italiane; anche per questo è nata da qualche anno l’associazione Il Ponte!

Clara Manca, 9 maggio 2019

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