Il grande spettacolo della terra pro-Mes

Mes. Il dibattito sul Mes – ovvero sulla possibilità che l’Italia possa prendere in prestito da un fondo creato per le emergenze circa 36 miliardi di euro da spendere senza condizionalità per le spese sanitarie – è un dibattito insieme fantastico e surreale, perché in modo spietato dimostra come l’Europa, in presenza di una discussione politica permeata di retorica, di demagogia e in definitiva di fregnacce, sia un formidabile filtro contro le minchiate. Il dibattito sul Mes – in un momento in cui l’Italia si trova sull’orlo di un collasso insieme economico e forse anche finanziario, con le previsioni di crescita per il 2020 che oscillano tra un ottimistico meno nove per cento del Fondo monetario internazionale e un realistico meno undici per cento stimato da molte banche italiane e con lo spread nuovamente risalito ieri oltre quota 240 – è un dibattito insieme fantastico e surreale perché ha prodotto una serie di effetti a catena che vale la pena considerare. Il primo effetto riguarda i nemici del Mes, che dall’alto del loro noto europeismo urlano contro l’Europa matrigna travestita da Fondo salva stati chiedendo quello che loro stessi hanno sempre negato (dateci gli Eurobond, caro Salvini, significa dateci più Europa: are you sure?) e rinnegando quello che loro stessi hanno direttamente negoziato (il centrodestra era al governo quando fu ideato il Mes, Salvini era al governo quando il Mes è stato rinegoziato, i nemici degli Eurobond in Europa sono i migliori amici degli antieuropeisti italiani, e per pietà ci fermiamo qui). Il secondo effetto, più appassionante perché ci parla di futuro più che di passato, riguarda il modo in cui il Parlamento più pazzo della storia si sta ridisegnando di fronte al tema del Mes sì e del Mes no. La legislatura in corso, come sappiamo, è stata più volte scandita dal rapporto dei vari partiti con l’Europa – il governo Salvini-Di Maio è finito, prima ancora che al Papeete, quando il partito di Di Maio ha accettato di votare, insieme con il Pd e con Forza Italia, Ursula von der Leyen. Ma arrivati alla fase in cui ci troviamo oggi – e l’indice del progressivo ritorno alla normalità è misurato più dai litigi nel governo che dalla riapertura dei negozi – la brusca realtà imposta dell’Europa mostra una divisione del Parlamento spietata per i teorici del vaffanculo grillino. E la realtà ci dice questo: il presidente del Consiglio espressione di un movimento nato contro l’Europa, contro la Casta, contro Renzi, contro Berlusconi, contro Prodi, sul tema del Fondo salva stati ha posizioni meno vicine al movimento di cui è espressione e più vicine all’Europa, alla Casta, a Renzi, a Berlusconi e Prodi. Capire la linea del presidente del Consiglio non è semplice (d’altronde il Parlamento italiano è quello che è) e far stare insieme la linea di Vito Crimi e di Danilo Toninelli con quella di Roberto Gualtieri e di Angela Merkel è un’operazione la cui difficoltà non è inferiore rispetto alla gestione di una pandemia. Ma nonostante le ambiguità del governo non è difficile capire dove il presidente del Consiglio voglia andare a parare anche in vista del Consiglio europeo: accettare i soldi del Mes senza attivare il Mes, trasformando la sua battaglia per gli Eurobond in una battaglia per il Recovery fund. Conte non lo dice esplicitamente e il suo non essere chiaro su questo punto ha contribuito a irrigidire un pezzo della maggioranza (chiedere a Dario Franceschini) e ha contribuito a creare maggiore incertezza per il dopo (chiedere agli investitori). Ma anche in questo caso l’Europa potrà tornare d’aiuto e la splendida terra pro-Mes, emersa nel dibattito di queste ore è lì a indicare che Conte o non Conte il futuro dell’Italia non può prescindere dall’Europa. E qualora il governo non dovesse tenere, qualora l’economia dovesse ancora di più sprofondare, qualora la gestione della riapertura dovesse essere più drammatica del previsto non c’è geometria futura che possa prescindere da un concetto semplice: un paese molto inguaiato, molto indebitato, molto debilitato, molto sfiduciato per non finire ancora di più nei guai e per tentare di ritrovare nuova fiducia avrà bisogno sempre più di farsi guidare dall’Europa. E lo spettacolo della terra pro-Mes ci aiuterà a capire presto se i protagonisti dello show saranno gli stessi di oggi oppure no.

Claudio Cerasa – Il Foglio – 16 aprile 2020

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Il dilemma di Palazzo Chigi, ascoltare Vito Crimi o il Pd?

(Abbiamo bisogno) dei soldi europei che servono al nostro paese, e non solo al nostro, per non chiudere i battenti per sempre; e al pericolo che ci sta facendo correre. Durante la conferenza stampa di ieri, al minuto 19 e 41 secondi, il presidente del Consiglio ha detto che l’accordo raggiunto l’altroieri all’Eurogruppo, salutato con grande entusiasmo dal ministro del Tesoro Roberto Gualtieri e dal commissario europeo Paolo Gentiloni, se rimarrà così com’è non lo firmerà quando gli sarà sottoposto al Consiglio europeo della seconda metà di aprile. Conte vuole gli eurobond, i coronabond o il recovery fund, a seconda di come li si voglia chiamare, un impegno mutualistico europeo che l’accordo dell’Eurogruppo ha reso possibile grazie all’impegno politico dell’Italia e della Francia in particolare, ma ancora di là da venire. L'editoriale del direttore de Linkiesta Christian Rocca.

Conte a Bruxelles: "O gli Eurobond o la morte (dell'Italia)!

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Il Tesoro studia il piano di emissioni : «Ma l’Ue deve salire a 1.500 miliardi»

Alla fine l’eurogruppo si è lasciato andare a un applauso liberatorio, reso surreale dal fatto che in realtà ciascuno applaudiva da sé. Chiusi in diciannove stanze a centinaia di chilometri l’una dall’altra, i ministri finanziari europei stavano dichiarando tutta la soddisfazione per un accordo che ognuno ha capito a proprio modo. Quell’applauso è stato la celebrazione di una faticosa tappa tolta di torno. L’area euro ha solo imboccato la via di una risposta ai danni economici imposti dal coronavirus, individuando i primi 500 miliardi di euro (ammesso che questi corrispondano realmente a risorse tutte nuove). Ma molta strada resta da fare. Visto che questa recessione ridurrà forse di 1.500 miliardi di euro i redditi degli europei, ne servono altri mille o poco meno. Sono sempre più urgenti nuovi investimenti per rilanciare e salvaguardare socialmente interi Paesi. Le tensioni smussate da quell’applauso dell’eurogruppo sono destinate a riemergere nel vertice dei leader nazionali dell’unione europea il 23 aprile, e nascono tutte dagli stessi nodi ancora irrisolti: quanto denaro serve, come e quando raccoglierlo, come distribuire gli oneri. Il picco di elettricità in questi giorni lo si è toccato martedì notte fra Roberto Gualtieri e Wopke Hoekstra, il ministro delle Finanze olandese. Alla fine si è giunti a un compromesso che Hoekstra ha definito «buono» e Gualtieri ha trovato vantaggioso: l’accesso alle nuove linee di credito del fondo salvataggi Mes — lo strumento preferito dei Paesi del Nord Europa — di fatto diventa senza condizioni e in apparenza semi-automatico nella valutazione di sostenibilità del debito. Il solo requisito è che sostenga la spesa «diretta e indiretta per i costi sanitari, di cura e prevenzione» di Covid-19. Anche se l’Italia non prevede di fare domanda al Mes, questo per Gualtieri è stato il segnale che quel programma equivale a una carta di debito utilizzabile subito. Le destinazioni per il denaro sono abbastanza vaghe da includere, per esempio, la spesa delle imprese per un ritorno al lavoro in sicurezza. Ma quei crediti facili del Mes valgono meno di un quinto del fabbisogno di quest’anno dei grandi Paesi europei. Resta invece in gran parte da cucinare il piatto principale: il Recovery Plan, il piano francese per la ripresa con varie integrazioni italiane. «Se non c’è quello — aveva detto Gualtieri l’altra notte, riferendosi al comunicato dei ministri — per me non c’è niente». Alla fine è entrato nell’accordo l’impegno a «lavorare» a un piano per la ripresa, con somme «commisurate ai costi straordinari della crisi». Gualtieri era pronto a rompere se non ci fosse stata anche la nozione di un «debito comune»: alla fine non è entrata, anche se l’idea esplicita che i costi siano «spalmati nel tempo con un finanziamento appropriato» sembra rimandare allo stesso concetto. Nell’idea francese va creato al più presto un veicolo finanziario europeo ad hoc, attraverso il quale iniziare al più presto a raccogliere a debito sul mercato risorse fino a mille miliardi. Queste ultime sarebbero garantite dai flussi di cassa di una web tax o di imposizioni sulle imprese e verrebbero «assegnate» al bilancio Ue per investimenti. L’idea di ampliare il bilancio di Bruxelles vendendo titoli sul mercato era già stata presentata in sede Ue nel 2018 da Enzo Moavero, allora ministro degli Esteri. Ora resta da capire se Olanda o Germania accetteranno di impegnarsi in quel veicolo finanziario già entro l’estate. Resta da capire se davvero Berlino e l’aia temono che Roma, Parigi e Madrid inizino le operazioni sul mercato senza aspettare i Paesi esitanti (improbabile) o se piuttosto i nordici cercheranno di ritardare e svuotare inesorabilmente l’intero progetto. Ne uscirebbe un’area euro divisa. Un’entità che tiene grazie a sempre nuovi interventi della Banca centrale europea, magari in futuro al limite del denaro conferito direttamente alle imprese. Ma sempre più squilibrata nelle istituzioni e nella società.

Federico Fubini – Corriere della Sera – 11 aprile 2020

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